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Il 19 novembre di sei anni fa l'Adigetto.it partiva per l’Afghanistan

Volevamo seguire da vicino l’attività degli alpini del 2° Reggimento del Genio guastatori di Trento impegnati in un teatro operativo difficile e ostile – Prima parte

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Nel nostro paese le missioni militari non le decidono né i giornalisti né i soldati. Le decide il Parlamento.
Ai militari viene affidato il compito di svolgere la missione nel modo migliore, mettendo in primo piano la salvaguardia della vita umana, sia quella dei propri uomini e donne, che quella del «nemico».
Ai giornalisti ammessi ai teatri operativi le autorità militari non pongono limiti, se non quelli della sicurezza. Generalmente si va a verificare, da una parte come vivono e operano i nostri ragazzi in divisa e, dall’altra, se il Paese si occupa attivamente dei soldati che ha inviato in missione.
Noi avevamo qualche motivo in più.

Il tutto era cominciato nella primavera del 2010.
Nei quarant’anni successivi al mio servizio militare, non avevo più avuto contatti con il mondo in divisa. Non ne avevo sentito la mancanza.
Quando però mi arrivò l’invito alla presentazione di un libro sulla storia del 2° Genio Guastatori alpini di Trento, decisi di andare alla conferenza stampa. Volevo vedere cosa era cambiato rispetto i miei tempi, anche perché da qualche anno l’arruolamento non era più obbligatorio ma su base volontaria.
Andai al Palazzo della Regione TN-AA e ascoltai i relatori. Tra questi l’autore, allora comandante del Reggimento, colonnello Pierluigi Scaratti. Lo trovai interessante e alla fine della conferenza, l’amico maggiore Santagata mi presentò al colonnello. Nacque subito una certa simpatia e ascoltai volentieri gli aggiornamenti degli ultimi 40 anni.
La cosa più interessante che scoprii subito era che, trattandosi di volontari, nessuno si lamentava di essere militare, come invece accadeva ai miei tempi.
 
Scambiando due parole con Scaratti, seppi che il reggimento sarebbe partito per l’Afghanistan nel settembre di quel 2010. Gli chiesi se l’allora presidente della Provincia, Lorenzo Dellai, aveva organizzato un saluto ufficiale al reggimento in procinto di partire. Nessuna notizia in merito. Anzi, parte della Giunta provinciale simpatizzava più per gli Schützen che per gli alpini…
Allora andai da Dellai e gli chiesi se fosse disposto a salutare gli alpini che partivano, né più né meno di come venivano salutati gli atleti trentini che partivano per le Olimpiadi.
- È ben tutt’altra cosa… – Mi rispose Dellai perplesso.
- Eh già, direi proprio di sì. – Commentai con una certa ironia. – Questi sono 200 trentini in divisa che vanno a rischiare la vita per mettere in sicurezza il resto della brigata. Sono dei genieri.
Non è un segreto che Dellai fosse stato un obbiettore di coscienza e non mi aspettavo nulla di più.
E invece, già mentre stano tornando in ufficio, ricevetti la chiamata del colonnello Scaratti.
- Cosa diavolo hai detto a Dellai?
 

Il colonnello Pierluigi Scaratti.
 
In agosto Dellai convocò una conferenza stampa per salutare ufficialmente i 200 ragazzi che partivano per Herat. Un piccolo ma importante passo era stato fatto verso l’avvicinamento delle istituzioni.
Non solo, l’allora assessora alla cooperazione internazionale, Lia Giovanazzi Beltrami, deliberò di dare al Genio un fondo di 40.000 euro affinché i nostri militari facessero opere a favore della popolazione civile. Il fondo fu dato all’ANA di Trento che provvide a far pervenire il tutto al comando del Genio a Herat, Scaratti.
Giunti sul posto e preso atto della situazione, Scaratti e i suoi collaboratori individuarono una scuola femminile distrutta dai talebani che non volevano che le donne studiassero. L’idea di ricostruirla fu comunicata a Trento e Lia Beltrami l’approvò con gioia.
 
- Voglio venire anch’io. – Avevo detto a Scaratti mentre organizzava le partenze.
- Dove?
- A Herat. Voglio vedere il lavoro che fate nel nome e per contro della Provincia.
- Hai fatto il servizio militare? Sai a cosa vai incontro?
- Sì, – risposi. – Ho fatto la Scuola Militare alpina di Aosta e…
- Hai fatto la SMA?
- Sì.
- Non dirmi altro, – sorrise. – Puoi tranquillamente venire in Afghanistan.
- Cosa devo fare? A chi lo chiedo?
- Al Ministero della Difesa, servizio PIO, l’ufficio per la Pubblica informazione.
 
Dopo una laboriosa ricerca, riuscii a trovare il numero giusto di telefono. Mi mandarono via email un modulo da riempire. Lo compilai e lo restituii.
Ricevetti varie telefonate da diversi funzionari della Difesa. Volevano capire se la mia richiesta era fondata e, vista l’età (64), se sapevo a cosa andavo incontro. Ovviamente risposi sempre con buonsenso e alla fine mi telefonò un generale del Gabinetto del Ministro Larussa.
Ammise che la logica della missione, volta a documentare il lavoro del 2° Reggimento Genio di Trento, era ineccepibile.
- Direttore – mi avvisò il generale. – Laggiù si rischia la vita. Lo sa questo, vero?
- Generale – risposi, – se possono rischiare la vita i nostri ragazzi, possiamo rischiarla anche noi.
- Questo le rende onore… – Commentò con un po’ di commozione.
Ebbi subito l’approvazione.
Quando mi arrivò la «cartolina», dissi a mia moglie che sarei partito per l’Afghanistan tra qualche giorno. Chissà come l’avrebbe presa…
- Cosa ti porti dietro?
 

 
Prima di partire, comunque, mi preoccupai della mia famiglia, nel caso malaugurato che mi fosse successo qualcosa. Era un periodo difficile per le nostre truppe in quel teatro operativo: perdevamo un uomo al mese.
Comunque sia, qualche giorno dopo partii per Roma e da Fiumicino mi portai alla base dell’Aeronautica Militare di Pratica di Mare, una pertinenza gigantesca: 800 ettari di territorio. Non sapevo che il nostro Paese avesse basi del genere.
Controllati i documenti, i militari di guardia mi accompagnarono in quello che un tempo era il circolo sottufficiali, adibito ora a smistamento truppe secondo la programmazione dei voli.
Mentre ero in attesa, unico borghese in mezzo a un centinaio di alpini con zaino, borsa valigia e armamento individuale, venni raggiunto da altri tre colleghi, due uomini e una donna. Facemmo subito amicizia, non ero più solo.
Dopo un paio d’ore, quando si era presentato l’intero reparto, facemmo il checkin anche noi. Salimmo su un pullman che ci portò a un aereo passeggeri bianco dell’Aeronautica militare. Ci fecero accomodare nei posti davanti e dopo un po’ il caporale di turno spiegò agli imbarcati come si sarebbe svolto il viaggio. Saremmo arrivati ad Abu Dhabi in meno di cinque ore.
 

 
L’aereo decollò e ci servirono da mangiare come in un aereo di linea. Anzi, forse abbiamo mangiato meglio…
A metà volo il comandante invitò i giornalisti in cabina e ci diede il benvenuto (foto sopra). Ci spiegò che la tratta prevedeva il passaggio sulla Grecia, l’Egitto, l’Arabia Saudita e infine l’atterraggio negli Emirati Arabi Uniti.
- Le autorità ci hanno affittato una piccola enclave nell’aeroporto internazionale di Abu Dhabi, – ci spiegò. – Lì scenderete e passerete la notte. Domattina un C 130 vi porterà a Herat.
Poco prima di atterrare, l’altoparlante ricordò ai nostri militari di nascondere le armi individuali sotto la giacca mimetica, per rispetto alle autorità locali «che tolleravano la nostra presenza».
L’enclave dove entrammo appena sbarcati si chiamava Al Bateen. Non era un gran bel posto. Era troppo piccolo per accogliere 100 persone. Per dormire c’erano solo delle sdraio. I bagni erano ridotti malissimo. Insomma, la nostra prima notte da militari non fu per niente facile.
 
La mattina dopo arrivò il C130 da Herat. Trasportava militari italiani che tornavano a casa o che si incontravano con i propri familiari ad Abu Dhabi.
I fortunati che tornavano in Italia salirono sull’aereo dell’Aeronautica militare col quale eravamo arrivati noi. Noi invece salimmo sul C130 che ci portò a Herat.
Il viaggio sul C130 è stato lungo e faticoso. Durava tre ore perché non poteva sorvolare l’Iran. Fiancheggiava l’Oman discendendo prima il Golfo per poi sorvolare l’Oceano Indiano, fino a rientrare in continente sorvolando il Pakistan.
La scomodità era data dalle panche in legno sulle quali viaggiano un po’ tutti i soldati del mondo.
Una volta giunti nei cieli dell’Afghanistan, il pilota dell’aereo iniziò quello che impropriamente viene chiamato «volo tattico». Cioè con improvvise cabrate verticali, scivolate d’ala, virate inaspettate. Questo per rendere più difficile la vita a eventuali attentatori intenzionati a lanciare missili agli aerei della NATO.
Comunque atterrammo all’aeroporto militare di Herat senza problemi.
Prendemmo i nostri bagagli e fummo portati nella base italiana.
Ci ritirarono i passaporti e ci diedero un passi da tenere al collo per tutta la permanenza in Afghanistan. Ufficialmente noi non avevamo mai lasciato l’Italia.
Nel pomeriggio ci portarono al PIO (l’ufficio pubblica informazione) della base italiana, dove ci consegnarono l’elmetto e il giubbotto anti proiettili.
Ci presentarono al generale comandante della base, Marcello Bellacicco, il quale aveva dieci anni meno di me. E, vedendo la mia età, mi rivolse la parola gentilmente.
- Direttore, – mi disse. – È sicuro di quello che fa?
- Se non lo faccio finché sono giovane… – Risposi sorridendo ironicamente.
Poi fui portato dal colonnello Scaratti e ci abbracciammo. Ce l’avevo fatta. Ero in Afghnaistan.
 
Ci portarono in quella che sarebbe stata la nostra stanza durante la permanenza a Herat, spartana ma sufficiente per dormire decorosamente.
Col buio era vietato accendere luci, al massimo si poteva usare pile con la luce blu.
La mensa era attrezzata per sfamare 3.000 soldati. Tutto sommato si mangiava bene.
Dopo cena di informarono che la mattina dopo saremmo partiti ognuno per una destinazione diversa. Ci dissero cosa portare con noi, partenza all’alba.
 
Guido de Mozzi
(Continua)


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