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Siamo una società malata e violenta? – Di Nadia Clementi

Ne parliamo con la dottoressa Tonia Bardellino, autrice con Alessandro Meluzzi del libro «Società Fusa»

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Che il crimine, la violenza e gli omicidi non siano un fenomeno peculiare solo della nostra società è un dato certo; la morte violenta esiste dalla notte dei tempi (il primo omicida, Caino, viene citato nella Bibbia) e i criminali hanno da sempre un ruolo ambiguo ma fondamentale nella società. Persone ai margini, dalla personalità deviata, capaci di tutto, che uccidono e violentano a sangue freddo, oppure individui «normali» che conducono una vita anonima e poi, un giorno, perdono la testa, hanno un «raptus» e scatenano la loro violenza su chi gli sta accanto.
Due modi di vedere gli assassini o gli autori di crimini violenti che rivelano una dicotomia del pensiero comune: ognuno di noi se posto nella condizione diventa un assassino?
 
Oppure è necessario avere un background e una mentalità di un certo tipo per poter arrivare a commettere delitti così efferati?
Purtroppo spesso e volentieri viene da pensare che la risposta corretta sia la prima: se si pensa ad omicidi molto famosi (dal delitto di Cogne fino all’omicidio di Avetrana) vediamo come protagonisti persone «normali», che potrebbero essere il nostro vicino di casa, nostra zia o sorella, il panettiere che è tanto gentile e saluta sempre.
Personaggi del nostro vivere quotidiano che si trasformano in mostri, dei quali non avremmo mai sospettato e le cui vicende ci sconvolgono.
 
Se si ascoltano gli anziani, una voce di saggezza troppo spesso ignorata, si sente l’adagio per il quale «una volta non succedevano certe cose, prima si era tutti uniti e le famiglie si aiutavano».
Un luogo comune, una nostalgia dell’età dell’oro? Oppure questo presentimento delle menti più mature corrisponde al vero!
Oggi la società è cambiata velocemente e con lei anche i modelli di vita individuale, infatti è sempre più difficile poter contare su una rete familiare e di supporto emotivo che ci aiuti ad affrontare le difficoltà della vita.
A questo si aggiunge una società sempre più basata sull’individualità, sul consumo, sulle performance e i livelli di stress e di senso di impotenza sono in continuo aumento.
 
La nostra è davvero una società malata dove conta soltanto l'individuo come concetto puramente egoistico?
L’evoluzione, o deformazione, dei costumi e dei rapporti ci stanno portando tutti ad essere più labili, più fragili, più violenti?
A queste e a tante altre domande tenta di rispondere il libro «Società Fusa» a cura di Tonia Bardellino e Alessandro Meluzzi, due criminologi di fama nazionale che rileggono la nostra modernità con l’occhio di chi è abituato a studiare le menti deviate e le personalità violente.
Partendo dalle teorie di Bauman e Durkheim, il libro propone una sorta di diagnosi sulla condizione della società attuale, che si fonda su un senso generalizzato di disagio esistenziale generando nei singoli individui e nella collettività paure e insicurezze, devianza e criminalità.
 
Il testo firmato dai due specialisti ha lo scopo di richiamare e analizzare alcune delle principali disfunzioni dell’attualità e delle relazioni umane che oggi viviamo. Tenta di spiegare perché e come nasce il comportamento criminale soffermandosi nell’analisi di tre tipologie di crimini e violenza: quella di genere, quella tra adolescenti e quella tra madre e figlio.
Un ultimo capitolo poi tratta il delicato tema dello school shooter (le stragi nelle scuole americane ad opera di ragazzini), analizzandolo da un’ottica prevalentemente sociologica. L’attenzione dei due autori dunque è rivolta all’età adolescenziale, poiché la matassa della mente e del rapporto con l’altro va sbrogliata sin dall’infanzia e alle persone più fragili nella società di oggi, come le madri, le donne e i bambini.
 
Per parlare in modo più approfondito di questi temi abbiamo intervistato l’autrice del libro «Società Fusa», la dottoressa Tonia Bardellino, criminologa, sociologa e assistente sociale, attualmente svolge attività di docenza, come esperta all’insegnamento di Sociologia Clinica e Sociologia della Devianza e Criminalità all’Università degli Studi di Roma, La Sapienza.
 

 
Paure, insicurezze, senso di precarietà di cui si parla sono caratteristiche della modernità delle quali il vostro libro parla approfonditamente, ma da dove scaturiscono?
«Non hanno sicuramente un'unica causa e un'unica origine. Le paure, per così dire, moderne sono imprevedibili e difficilmente localizzabili. Oltre a quelle classiche, individuali, sociali e politiche se ne aggiungono ulteriori, figlie del predominio del progresso e dell’economia, della globalizzazione, della precarietà delle condizioni lavorative e della rapidità che tormenta lo svolgersi delle vite.
«L’uomo moderno si ritrova dinanzi un’infinita possibilità di scelte che si presentano come un daimon, da una parte generatore di libertà, dall’altro di angoscia. Difatti, tale pletora di possibilità innesca un processo di destabilizzazione nell’individuo, che non riesce a seguire un mondo caotico, ingestibile, instabile, portatore di infiniti stimoli ed opportunità.
«Dal punto di vista del disagio mentale, la nostra epoca può essere definita come l’epoca del panico, ossia della sensazione che tutto sia illimitato, senza più confini e dimensioni protettive e che non vi sia un nemico, per l’appunto, imputabile con certezza. Una società anomica (senza regole e valori), senza porti sicuri ai quali ancorarsi, ma non per questo necessariamente peggiore rispetto a quella passata.
«Anzi. Sicuramente diversa e per molti aspetti migliorata. Il libro non guarda al passato con nostalgia, ma al presente con lucida razionalità e forte speranza.»
 

 
Come mai ha deciso di scrivere un libro a quattro mani con il prof. Alessandro Meluzzi?
«Scrivere un libro significa anche entrare nella memoria collettiva, permettendo agli altri di conoscerci e di condividere con noi parole che inevitabilmente nel bene e nel male lasciano segni al di là della nostra volontà.
«È un progetto importante e di forte responsabilità che credo possa essere realizzato solo con una persona verso la quale si provi una grande stima professionale e umana.
«Più che aver deciso di scrivere un libro direi che è il Prof. Meluzzi ad avermi dato la possibilità di scriverlo, di realizzare un obiettivo a cui tenevo particolarmente, volontà mia a parte, soprattutto per la sua capacità maieutica che dovrebbe essere tipica di tutti i docenti, i maestri, ossia quella di portare alla luce delle qualità, delle preziosità che ognuno in fondo ha dentro di sé.»
 
Come mai l’idea di una trattazione che si pone come una sorta di diagnosi sulla condizione della società attuale?
«L’idea è sorta in maniera naturale e a tratti scontata visto che il ruolo lo permette. È stato quasi inevitabile scrivere un libro riguardo a temi che ho studiato e che sono diventati la mia professione e che ancor prima erano la mia passione.
«Credo che la criminologia sia sempre una materia che affascina, mentre la sociologia rimane un’impalcatura necessaria per analizzare il contesto odierno. Nella criminologia ritroviamo il fascino del male, dell’eroe, del mostro, con il quale ci identifichiamo, covando in noi spesso una belva affamata e desiderosa di uscire, di ribellarsi a schemi e regole che riteniamo soffocanti o ingiusti.
«Dal canto loro, i sociologi ci aiutano a comprendere le ansie e le paure, il cambiamento di una società fusa, irradiata da una forte energia ad alte temperature e da passioni però paradossalmente fredde, come direbbe Spinoza.»

Cliccando l'immagine che segue si avvia la presentazione del libro, GIT Mondadori Bookstore.

In che senso la società moderna è fusa? Ma soprattutto si potrà tornare ad uno stato più equilibrato? Perché e come si giunge ad un comportamento criminale?
«Impossibile dare una risposta univoca. Ogni comportamento deviante e/o criminale fa parte di una precisa psicodinamica che la caratterizza e che va analizzata secondo una prospettiva multifattoriale.
«Certo è che nella mente, nella coscienza, probabilmente nell’anima di ogni essere umano, ogni giorno si svolge una battaglia tra un’opzione o desiderio che razionalmente consideriamo buono e una scelta che cognitivamente ed emotivamente consideriamo cattiva, e finiamo sempre con l’indirizzarci verso l’una o l’altra a seconda del nostro stato psicofisico, del contesto sociale, culturale e familiare che ci circonda.
«Che si tratti di etica pubblica o privata, di fatti economici o sessuali, di dinamiche legali o affettive, l’abisso del male sembra attirarci in un’antica ed eterna dinamica, in cui i vizi capitali paiono avere spesso ragione sulle virtù, sulle regole e sulla buona coscienza.
«Non ci svegliamo all’improvviso come William Foster, protagonista di Un giorno di ordinaria follia. Il comportamento criminale non nasce quasi mai da un raptus, da un soggetto che si sveglia la mattina e decide di fare una strage, ma raccoglie in sé i riflessi e i tormenti di un drammatico vissuto che criminologi, sociologi e tutti gli addetti ai lavori possono solo analizzare nel modo più scientifico, professionale e deontologico possibile.»
 

 
Come criminologa quali sono le parti più complesse del suo lavoro?
«L'aspetto più complicato per quanto mi concerne riguarda la capacità di rimanere emotivamente distaccati, da certi casi, difficili, forti e nei quali non è sempre facile discernere l'aspetto umano da quello professionale. Bisogna rimanere sempre avalutativi come direbbe Weber. Ma non è sempre automatico.»
 
Ognuno di noi può potenzialmente commettere un crimine, ma le circostanze non si manifestano, oppure le persone che uccidono e fanno violenza hanno un modo di pensare diverso e deviato?
«Premesso che non c'è un identikit, un profilo psicologo univoco e chiaro che ci permetta di individuare il criminale, esistono sicuramente alcune categorie di persone potenzialmente pericolose e predisposte a commettere atti devianti e o criminali.
«Tra queste quelle che sono ad esempio psicologicamente sani ma che sono cresciuti in un ambiente in cui il furto, la violenza fisica e persino l’omicidio sono all’ordine del giorno; coloro che presentano dei disturbi mentali e ai quali basta un’occhiata storta da parte di qualcuno per esplodere e adottare comportamenti violenti o, addirittura, commettere omicidi; e ancora quelli che la letteratura scientifica criminologica definisce psicopatici puri ovvero soggetti patologici come Hitler e Stalin per intenderci.
«Tuttavia, al di là di queste categorie sommarie enunciate per dare soltanto un'idea, tutti noi possiamo potenzialmente commettere un crimine.
I criminali non nascono con un modus pensandi e facendi diverso da quello degli altri essere umani sani.
«Il modo in cui ogni uomo interagisce con il mondo esterno dipende dalla sua struttura sensoriale, dalle influenze ambientali, sociali ed esperienziali che ha vissuto. La violenza in generale e il crimine in particolare possono fungere da canalizzazioni di conflitti, tensioni, traumi irrisolti, psicopatologie di varia specie dalle quali nessuno può sentirsi affrancato con certezza.»
 
Nadia Clementi - clementi@ladigetto.it
Tonia Bardellino - tonia.barde1717@libero.it

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