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Vilma Kaisermann, «Selvatica» – Di Daniela Larentis

Nel suo romanzo d’esordio la scrittrice trentina racconta la storia di una madre e una figlia, profondamente diverse ma unite da un forte desiderio di emancipazione

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Presentato recentemente innanzi a un folto pubblico alla Sala Spaur di Mezzolombardo, al primo piano del Palazzo d’angolo di Piazza Erbe, nella biblioteca comunale, il romanzo scritto da Vilma Kaisermann, edito da Publistampa, percorre un arco temporale di più generazioni.
È una storia di emancipazione femminile quella raccontata dall’autrice nel suo libro d’esordio, la storia fondamentalmente di due donne, una madre e una figlia, accomunate dal desiderio di una vita più emancipata rispetto a quella condotta in Trentino dalle donne della loro epoca.
Una madre che, a dispetto del suo desiderio di emancipazione, avrebbe desiderato un figlio maschio e che in punto di morte ferisce profondamente l’animo sensibile di sua figlia Matilde, trafiggendola con un’unica parola di nove lettere, «selvatica». Una parola che suona come una condanna e che accompagnerà l’intera esistenza della bambina, la quale trasformerà quella sentenza nel suo destino.
 
Un destino beffardo, capace di regalarle la delicatezza di un primo e anche unico amore. Vittima della potenza delle parole, vittima di un amore precluso, Matilde potrà solo alla fine vivere la pienezza di quel sentimento nell’ultima stagione, anche se la sua felicità avrà breve durata.
Come una farfalla dispiegherà le sue ali finalmente libera di vivere il breve incanto di un amore puro, finalmente libera di essere se stessa, lontana dai giudizi e pregiudizi, consapevole di quanto sia effimero e prezioso l’amore che si riceve in dono durante questo misterioso viaggio che è la vita.
Abbiamo incontrato Vima Kaisermann e le abbiamo rivolto alcune domande.
 

 
Come nasce l’idea di questo libro, in cui sono racchiuse più storie in un lungo arco temporale?
«Il romanzo nasce per raccogliere la testimonianza di un’epoca. I personaggi sono inventati, sono frutto della mia fantasia, ma la storia attinge al vissuto e ai ricordi dei miei genitori.»
 
Certe parole pesano più di macigni, «selvatica» per la piccola Matilde suona come una sorta di condanna pronunciata dalla madre prima di morire. Quanto influirà nella sua vita da adulta?
«Influirà molto. Lei era una bambina e quelle parole non meritate hanno ferito la sua anima, influenzando il suo comportamento e la sua vita futura. Forse se fosse stata adulta avrebbe reagito in altro modo, ma lei era solo una bambina.»
 
Secondo lei feriscono più le azioni, per esempio uno schiaffo, o le parole?
«Certamente le parole. Anche uno sguardo può essere efficace più di un gesto e addirittura più delle parole. Mia madre, per esempio, sapeva esprimere con lo sguardo la sua approvazione o disapprovazione in maniera efficacissima.»
 
Ad un certo punto viene descritta una scena in cui il padre di Matilde, riferendosi alla potatura, afferma che «più è forte è la pianta e meno si taglia, più debole è la pianta e più si taglia», evidenziandone la metafora della vita. Può spiegarci meglio questo suo pensiero?
«Mi sono ispirata alla potatura delle viti, ciò che ho voluto esprimere è un pensiero preciso e cioè che alle volte più una persona è forte e fortunata e meno la sfortuna sembra abbattersi su di lei, quindi subisce meno tagli, potremmo dire utilizzando la metafora della potatura; al contrario, sembra quasi che la vita metta più a dura prova le persone più deboli o quelle già colpite da sofferenze di varia natura.»

 
letture di Clara Kaisermann - Claudio Giovanazzi alla fisarmonica.
 
Quella che lei racconta è anche una tanto delicata quanto meravigliosa storia d’amore, l’incontro di due anime affini che si riconoscono ma che appartengono a due mondi diversi. Che concezione ha lei dell’amore di coppia, affinché possa durare a lungo che caratteristiche dovrebbe avere? Se dovesse descriverlo con poche parole come lo definirebbe?
«Premetto che esistono tanti tipi di amore di coppia. Se dovessi definirlo direi che l’amore per poter durare una vita dovrebbe avere delle caratteristiche riassumibili con alcune parole: pazienza, rispetto.
«Occorre innanzitutto volersi bene e poi credo che non occorra confessarsi proprio tutto, alcuni pensieri, talvolta, su cose banali e non importanti, chiaramente, non andrebbero sempre condivisi. Alle volte, poi, per un quieto vivere bisogna lasciare anche perdere, non ci si deve attaccare a tutto e discutere per ogni sciocchezza.
«I giovani d’oggi si arrendono subito davanti al primo ostacolo. Non hanno la pazienza che avevano le nostre nonne, non sopportano, non sanno attendere. Davanti a una difficoltà pensano che sia meglio cambiare partner piuttosto che rimboccarsi le maniche e cercare di risolvere il problema, in definitiva non sono capaci di aspettare, si arrendono ancor prima di lottare.
«Un tempo ti sposavi con più responsabilità, sapendo che era una scelta praticamente definitiva, comunque importante. Non ci si sposava partendo già con l’idea dell’eventuale ripensamento. Erano davvero altri tempi, oggi c’è sempre una via d’uscita a tutto.
«Personalmente credo che le coppie che si formano in età adulta, non prima dei 20 anni per intenderci, ma verso i 30, con il loro bagaglio di esperienze alle spalle, possano generalmente avere più possibilità, poiché sanno cosa vogliono.»
 
Progetti futuri?
«Ho già scritto un altro libro che è riposto nel cassetto da tempo, non so quando e se lo pubblicherò. E’ un libro che parla di San Romedio. Sto attualmente scrivendo un altro romanzo ambientato sempre in Trentino, una storia d’amore che ha come sfondo il lago di Tovel.»

Daniela Larentis – d.larentis@ladigetto.it

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