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Diverse verità per una stessa storia – Di Luciana Grillo

Il professore Carmine Pinto, nel suo ponderoso volume «La guerra per il Mezzogiorno», cerca di fare chiarezza sui moti rivoluzionari dell’Ottocento

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Il professor Carmine Pinto con la giornalista Luciana Grillo.

Si dice che la storia di un Paese sia scritta dai vincitori che lo hanno conquistato…
Chi ha studiato, ad esempio, sa che nel 1860 Giuseppe Garibaldi, eroe dei due mondi, aiutato nell’organizzazione della spedizione dal conte di Cavour, a capo di 1.000 uomini (e forse di due donne, Rose Montmasson e Jessie White Mario), partì da Quarto per arrivare in Sicilia e conquistare il Regno delle due Sicilie per conto del re Vittorio Emanuele II di Savoia.
 
C’è stato chi ha considerato questa conquista del sud come un atto di prepotenza, chi come una logica annessione, chi ha elencato le miserie del Regno delle Due Sicilie (analfabetismo, mancanza di strade, miseria morale e materiale, interferenze insistenti dell’alto clero, ecc. ecc.) e chi invece ne ha raccontato meraviglie, ricordando la prima cattedra di astronomia e di economia, il cimitero per poveri, il codice marittimo, la profilassi anti tbc, le case popolari, l’assistenza sanitaria gratuita, il primo atlante marittimo, il museo mineralogico, l’orto botanico, la prima scuola di ballo annessa al teatro lirico San Carlo, l’ospedale psichiatrico, la nave a vapore, il primo ponte sospeso in ferro, la prima nave da crociera, l’istituto italiano per sordomuti, la prima ferrovia d’Italia, l’illuminazione a gas, la fabbrica metalmeccanica, il centro sismologico, il sismografo elettromagnetico, il faro da porto, la locomotiva a vapore, l’osservatorio meteorologico, il telegrafo elettrico, la luce elettrica, i premi internazionali ricevuti per la produzione di pasta e per la lavorazione del corallo, la produzione di guanti, l’industria navale, la flotta mercantile e militare, gli orfanotrofi e gli ospizi, i conservatori, il piano regolatore, l’acqua corrente nelle case, le numerose tipografie - pubblicazioni - giornali, il complesso siderurgico, l’alta percentuale di medici per abitanti, la mortalità infantile bassa grazie alle precauzioni igieniche diffuse: attività tutte interrotte dopo il 1860.
 
Il professore Carmine Pinto, ordinario di Storia contemporanea presso l’Università di Salerno, nel suo ponderoso volume «La guerra per il Mezzogiorno» recentemente pubblicato da Laterza, cerca di fare chiarezza e con il supporto di uno studio accurato e di documenti inoppugnabili considera i moti rivoluzionari (a partire da quello guidato da Carlo Pisacane) e le lotte successive come il frutto dell’aspirazione all’unità nazionale e ad una Carta Costituzionale che sancisse con precisione diritti e doveri.
Quindi passa in rassegna le occasioni che avrebbero portato all’unità della penisola già nel 1792 e sottolinea il distacco tra monarca e intellettuali e la lunga sfida tra assolutismo e liberalismo: «I Borbone furono accesi nemici della Francia rivoluzionaria come, successivamente, del liberalismo; ma buona parte della classe dirigente si schierò con decisione dalla parte opposta», tanto che si parlò di «murattismo» durante il decennio che precedette il Congresso di Vienna, a conclusione del quale i Borbone tentarono «una pacificazione, accettando di riconoscere i quadri politici e militari cresciuti con Gioacchino Murat».

Ma i moti rivoluzionari non si placarono, scoppiarono nel ’20-21 e poi, come nel resto d’Europa, nel ’48.
Solo allora Ferdinando II di Borbone concesse lo Statuto, ma già un anno dopo, sostenuto fortemente dall’alto clero, «sciolse il parlamento, confermando la scelta anticostituzionale come elemento definitivo di discriminazione tra i suoi sostenitori e chi era potenzialmente avversario del trono».
Intanto in Europa si creavano alleanze, come quella tra Napoleone III e il Piemonte.
La partecipazione di una spedizione piemontese in Crimea favorì sia l’aiuto francese ai piemontesi che la contaminazione tra patriottismo monarchico sabaudo e movimento nazionale.
Insomma, i tempi sembravano maturi perché l’Italia si unificasse, in nome di un comune patrimonio culturale.
 
La spedizione di Sapri, finita facilmente nel sangue, da un lato confermò i filounitari nella necessità di un’azione ben organizzata, dall’altra lasciò nel sovrano la convinzione che fosse necessario semplicemente mantenere l’ordine all’interno del regno.
Invece l’ordine non fu sufficiente, perché si formarono nell’Italia del Sud numerosi comitati segreti, qualche volta persino benedetti da preti «moderni». Solo in Lucania se ne contavano 120.
Anche la stampa influenzò e convinse chi ancora non era diventato filounitario: «il giornale napoletano Diorama cambiò il nome in Italia, c’erano poi il Nazionale di Ruggero Bonghi, cavouriano, testate come l’Avvenire d’Italia, l’Opinione nazionale, la Nuova Italia, l’Italia indipendente».
 
Quanto al brigantaggio, costituito da bande che praticavano sequestri di persone, estorsioni e omicidi, fomentato nel 1799, nel 1815 e nel biennio 1860-62 in appoggio ai Borbone, venne sconfitto solo in parte dopo l’emanazione della legge Pica, chiesta dalla stessa classe politica napoletana perché si mettesse fine alla giustizia sommaria.
Pinto studia i movimenti dei briganti e ne descrive azioni, misfatti e sconfitte, fino ad azzardare che nel complesso siano stati impegnati 20.000 uomini.
«Anche se questo numero resta incompleto, mostra tutti i limiti della resistenza borbonica» che comunque «non riuscirono mai a mettere in discussione il successo dell’unificazione».
Anzi, solo pochi anni dopo, fu promulgata l’amnistia per i reati politici e nel 1869 il futuro re Vittorio Emanuele III nacque proprio a Napoli: «Il Mezzogiorno iniziò a diventare la roccaforte del consenso alla dinastia sabauda, e lo resterà fino al XX secolo inoltrato».
 
I briganti superstiti continuarono a combattere fino al 1872; un dato parla di 5000 morti, più di 3.000 catturati, quasi 3.000 arresi.
Dei briganti, esponenti di un modo di vivere violento e libertario, rimase il mito ancora vivo dopo varie generazioni, «che colpì scrittori, intellettuali, giornalisti, come Carlo Levi… Giovanni Russo».
Dieci anni dopo con Pasquale Villari nacque ufficialmente la questione meridionale che disegnava il grande divario sociale, economico, politico tra nord e sud.
 
Avviandosi alla conclusione, Pinto parla di vincitori e vinti, del re Francesco II che, uscito da Gaeta si ritirò a Roma, accolto dal Papa e attorniato dai fedelissimi che «continuarono a sognare una rivincita del legittimismo» e alimentarono una fiammata di entusiasmo alla nascita della figlia di Francesco II e Sofia di Baviera, morta a pochi mesi di vita.
Dopo la breccia di Porta Pia, i Borbone e i borbonici si convinsero che la causa era definitivamente perduta… salvo il cardinale Riario Sforza, esponente del movimento cattolico liberale e pochi altri, quella piccola società evocata da Benedetto Croce, ma riconosciuta priva di un vero progetto politico.
 
Di ciò e di tanto altro si è parlato a Maratea: hanno dialogato con l’autore il sindaco dr. Daniele Stoppelli, il giornalista Massimiliano Amato e la professoressa Nicoletta Marini d’Armenia.
Attentissimo il numeroso pubblico, intenso il dibattito.

Luciana Grillo – l.grillo@ladigetto.it


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