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Il 15 maggio di cento anni cominciava la Strafexpedition/ 2

L'offensiva di Primavera finiva dopo 31 giorni di combattimenti sanguinosissimi

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(Vedi prima parte)
 
È l’alba del 15 maggio 1916, comincia il fuoco delle artiglierie austro ungariche.
«Ben presto – narra la Relazione ufficiale austriaca – tutte le bocche da fuoco inquadrarono i loro tiri e alle 9 diedero il via al fuoco di annientamento.»
Tra i monti si scatena un uragano di fuoco. Si sentivano sibilare i proietti seguiti dalle esplosioni.
Dal solo altipiano di Folgaria erano entrati in azione 250 pezzi di artiglieria, da Lavarone 118.
Quando sparava il Lange Georg, il super cannone portato con la ferrovia a Calceranica al Lago, entrambi gli schieramenti sentivano l’ululato spaventoso dei proiettili che pesavano più di una tonnellata.
Il Lange Georg era stato progettato per navi che non vennero mai costruire, quindi più che il calibro - di per sé gigantesco, da 350 mm – serviva per la gittata spaventosa: 31 chilometri. Con la cadenza di un colpo ogni 15 minuti, scaricò su Asiago 122 proietti.
Il perché avessero deciso di distruggere una cittadina, non è dato di sapere. Forse era il significato della «guerra totale», ma probabilmente era l’espressione della «Spedizione punitiva» nei confronti di un paese che secondo Conrad aveva «tradito» l’alleanza.
 

 
Cadorna venne raggiunto dalla notizia dell’attacco al suo Quartier generale di Udine. Rinuncia a un’ispezione programmata sul confine con la Svizzera, ma ostenta serenità e sicurezza.
Nel pomeriggio riceve una delegazione di ministri francesi e il direttore del Corriere della sera, Albertini, il quale sembrava interessato più al siluramento di Brusati che alla notizia dell’attacco sugli altipiani.
L’indomani, mentre i ministri e Albertini vanno a visitare il fronte isontino, Cadorna corre col suo treno speciale a Tiene. Con lui ci sono tre «sprezzanti ufficialetti», il medico personale Casali e l’addetto alla mensa.
Le notizie non sono confortanti. Le truppe della XI armata del generale Dankl hanno già travolto le difese italiane tra la Vallarsa e la Val D’Astico. Cadono in mano nemica uno dopo l’altro il Col Santo, Cima Maggio, i monti Toraro, Campomolon, Spitz di Tonezza, cima Campolongo.
L’urto principale viene sostenuto dai soldati del generale De Chaurand, comandante della 35ª divisione.
Il fronte si spezza nonostante l’accanita resistenza delle nostre truppe, abbandonate dalle artiglierie che hanno dovuto smobilitare per non cadere in mano nemica. E Cadorna, nella notte, silura il generale De Chaurand e lo sostituisce con Petitti di Roreto.
 

 
Ma la colpa non era dei comandanti dei reparti operativi, quanto dalla impreparazione dell’Esercito a sopportare un attacco di quelle dimensioni. I nostri infatti erano bene addestrati all’attacco, ma non sapevano come comportarsi per respingere quello del nemico.
Cadorna rifiuta la ritirata su posizioni più sicure perché ormai le truppe sono agganciate dal nemico e devono operare per la sopravvivenza.
Le scarse riserve dell’armata vengono inviate come rinforzo senza alcun piano preciso.
Il 18 maggio Cadorna, dopo essere stato di persona a Tonezza, decide di attuare il piano di rinforzo richiamando le truppe di riserva dal fronte isontino.
La situazione è grave, ma Cadorna ha la stoffa del militare che non si perde d’animo. Il 20 rientra a Udine e convoca i comandanti della II e della III armata, Frugoni e il Duca D’Aosta. Con loro decide quante e quali truppe distaccare per formare una nuova armata, la Quinta, da dislocare nel triangolo Cittadella-Vicenza-Padova.
Mette insieme la forza considerevole di 179mila uomini e 35.000 quadrupedi.
Il suo disegno è quello di contenere lo sfondamento, ma nel caso gli austro ungarici dovessero dilagare nella pianura, ha predisposto un contrattacco a tenaglia che potrebbe rovesciare le sorti della battaglia e forse della guerra.
 

 
Da parte sua, però, Conrad ha commesso due gravi errori che gli costeranno il successo.
Il primo sta nel non aver attivato un finto ma credibile attacco sull’Isonzo, in modo da impedire a Cadorna di manovrare le riserve delle armate impegnate su quel fronte.
Il secondo errore è generato dalla vecchia scuola militare del maresciallo, per cui per avanzare si devono conquistare le alture circostanti. Se invece avesse voluto disporre l’avanzamento delle sue divisioni nelle vallate del Brenta e dell’Adige, avrebbe circondato la Prima armata italiana e messo in seria difficoltà l’intero schema difensivo italiano.
In aggiunta, i suoi generali commettono l’errore di cambiare i piano e puntare anche su Bassano invece che solo su Schio e Tiene. Il fronte si allarga e perde di forza d’urto.
La situazione resta comunque favorevole per gli Austro Ungarici, che occupano Asiago, ridotto ormai a un cumulo di macerie (foto seguente).
Il sacro suolo della patria è calpestato dal nemico, a Roma il governo Salandra è in fibrillazione.
 

 
Il 21 maggio Salandra convoca il Consiglio dei Ministri. I più criticano aspramente Cadorna e Sonnino rilancia la sua tesi di sostituirlo con un «consiglio di generali».
Non si tratta di una decisione facile da prendere, dato che ogni sostituzione è priva di piani operativi. Ma comunque decidono di convocare Cadorna in un incontro a Padova.
Cadorna accetta l’incontro a patto che non vi siano altri militari, a parte i suoi stretti collaboratori: niente «Consiglio di guerra».
Allora il Governo decide di inviare solo il ministro della Guerra, Morrone. Il quale incontra Cadorna e torna immediatamente a Roma con notizie catastrofiche. Spiega al Consiglio dei Ministri che è assai probabile che il nemico dilaghi nella pianura e che di conseguenza potrebbe risultare necessario ritirare le armate sull’Isonzo per salvare il paese.
Orlando parla di «capitolazione e di guerra perduta», Sonnino propone di andare dal re: «O noi o Cadorna». Alla fine si decide di inviare Salandra al fronte e di parlare al Re (che è sempre rimasto a portata dal «suo» esercito), dopodiché sarebbe andato da Cadorna a comunicargli la destituzione.
Per il generalissimo sembra sia giunta la fine, ma accadono due imprevisti. Il primo è dato dal Re, che risponde sostanzialmente che deve decidere il Governo, a lui solo il compito di ratificare la decisione.
Il secondo è dato dall’incontro di Salandra con Cadorna. Il presidente del Consiglio rimane così colpito dall’energia e dall’esperienza di Cadorna nel gestire i movimenti strategici delle truppe in un momento così cruciale. La situazione è sotto controllo ed è meglio lasciarlo finire l’opera.
Salandra torna a Roma e riferisce. Qualunque cosa si debba fare, è meglio farla a crisi superata.
 

Il re Vittorio Emanuele Terzo e Antonio Salandra.
 
Il 3 giugno viene emesso un primo bollettino positivo: «Nella giornata di ieri l’incessante azione del nemico in Trentino è stata nettamente arrestata dalle nostre truppe lungo tutto il fronte».
Per la verità, qualche altro rovescio lo avremmo subìto, ma la situazione era tornata nelle mani italiane. Cadorna «sentiva» che il peggio era passato.
Cosa era successo? I Russi avevano attaccato improvvisamente la Galizia e Conrad non aveva avuto altre scelte che trasferire alcune divisioni sul fronte orientale.
Le truppe italiane contrattaccano fino ad arrivare a una linea di difesa sostenibile. Il nemico calpesta ancora il suolo della patria, ma molto più indietro di dove era riuscito a portarsi.
Il 16 giugno lo Stato maggiore Austriaco ordina la fine delle ostilità. La Strafexpedition si era conclusa.
Le perdite da parte italiana erano state 147.730, di cui 15.453 morti e 55.534 dispersi o prigionieri, da parte austriaca le perdite erano state 82.815, di cui 10.203 morti e 26.961 dispersi o prigionieri. Il tutto per non cambiare di molto la situazione.
 
Il 6 giugno Cadorna si recava a Roma e teneva un discorso ai parlamentari Italiani.
Alla fine è Salandra a trovarsi nella polvere. Il generalissimo resterà ancora a lungo al vertice dell’Esercito.
Gli è servita molto di più una sconfitta evitata di una piccola vittoria.

G. de Mozzi

(Fine)

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