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Il 4 agosto di cent’anni fa iniziava la Sesta Battaglia dell’Isonzo

Cadorna conquistò la città di Gorizia – Le perdite da parte italiana furono 51.000 uomini, di cui 21.000 morti. Da parte austro ungarica 40.000, di cui 9.000 morti

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Non appena cessato il pericolo della Strafexpedition e prima ancora di giungere a un assetto soddisfacente sulla linea tra l’Adige e il Brenta, il generale Luigi Cadorna tornò alla sua strategia dominante, l’avanzata verso Trieste.
Dal punto di vista politico, il Capo di stato maggiore aveva bisogno di una vittoria. E l’improvviso spostamento di forze che la Russia aveva imposto all’Impero Danubiano convinse Cadorna che l’Austria avrebbe dovuto, poco o tanto, indebolire anche lo schieramento sul Carso. Capì che era giunto il momento di fare il gran balzo su Gorizia.
Per conquistare la città, Cadorna aveva bisogno di attivare con rapidità due distinte operazioni: il rapito spostamento della massa di manovra trasferita nel Veneto per fronteggiare il pericolo proveniente dagli altipiani e organizzare il nuovo dispositivo contro la formidabile piazzaforte austriaca al di là dell’Isonzo.
Sul Veneto occidentale non disponeva di una fitta rete ferroviaria come quella che serviva la parte orientale, ma la buona rete stradale gli permise di mettere in piedi una agile serie di convogli su autocarri.
I movimenti cominciarono il 20 luglio, e una serie sterminata di colonne e colonne di camion Fiat pieni di giovani soldati si susseguì sulle strade sterrate in mezzo alla campagna.
In breve la Seconda e la Terza armata ricevettero uomini, bombarde, batterie, munizioni e rifornimenti di vario genere. Ai primi di agosto i trasporti erano quasi del tutto compiuti e continuarono anche dopo l’avvio della battaglia. Cadorna sapeva che il fattore tempo poteva significare la sconfitta o la vittoria.
In effetti, ci vedeva bene. L’Austria aveva respinto il nemico sul fronte russo e rumeno, ma era ben lontana dalla possibilità strategica e logistica di trasferire nuovamente centinaia di migliaia di soldati dal Cucla all’Adriatico.
 

 
Il piano di Cadorna per quella che fu la Sesta battaglia dell’Isonzo prevedeva un’azione ben coordinata delle fanterie e dell’artiglieria, con ruoli diversi ma interconnessi.
I battaglioni della Terza armata avrebbero dovuto espugnare le prime linee austriache dal Sabotino al Podgora.
Nel tratto meridionale, fino a Monfalcone, gli assalti avrebbero dovuto invece essere solo dimostrativi per trarre in inganno il nemico e impedire l’afflusso di rinforzi sul fronte principale.
Nel tratto nord le artiglierie della Seconda armata ebbero il compito di bombardare le linee avversarie da Tolmino a Plava per inchiodare le riserve a settentrione del fronte di attacco.
In altre parole, la battaglia di Gorizia venne concepita con l’obbiettivo di conquistare la città con un’azione risolutiva centrale contro forze che dovevano rimanere deboli anche quando il disegno veniva compreso dal comando austro ungarico.
Tale disegno non implicava sviluppi manovrali di una certa importanza, che tutti ormai ritenevano di difficile realizzazione. La strategia si concentrava in una spinta frontale localizzata, senza avvolgimenti laterali.
Fu in occasione della Sesta Battaglia dell'Isonzo che Giuseppe Ungaretti scrisse la poesia che divenne simbolo poetico dell'assurdità della Grande Guerra: San Martino del Carso.

UNGARETTI 
 San Martino del Carso 

Di queste case
Non è rimasto
Che qualche
Brandello di muro
Di tanti
Che mi corrispondevano
Non è rimasto
Neppure tanto
Ma nel cuore
Nessuna croce manca
E’ il mio cuore
Il paese più straziato

La battaglia ebbe inizio il 4 agosto.
Secondo le disposizioni del Comando supremo, la battaglia si accese sulla destra della III Armata, per attrarre l’attenzione delle forze di Boroevich e distoglierlo dalla difesa di Gorizia.
Alle 10 di mattina le artiglierie di due corpi d’armata aprirono il fuoco sulle linee austriache e continuarono fino alle 4 del pomeriggio. Stavolta il fuoco italiano fu rapido e preciso, raggiungendo un’intensità mai sperimentata prima.
La valanga ininterrotta di ferro e fuoco cadde senza tregua nelle trincee nemiche di Selz, Monte Cosich e davanti all’abitato di Monfalcone, la cui collina prese poi il triste nome di Quota Pelata.
La reazione austriaca fu disordinata, quindi allo scadere del bombardamento i fanti italiani scattarono d’impeto contro le trincee austro ungariche.
Non sapendo neanche loro che l’attacco principale si sarebbe svolto altrove, le truppe della 9ª e della 106ª divisione attaccarono con aggressività.
Gli austriaci si difesero con l’artiglieria impiegando proiettili a gas.
Come in altre occasioni, attacchi e contrattacchi portarono risultati locali che poi andarono perduti.
 

 
Il 6 agosto 1916, alle ore 7, ebbe inizio il tiro delle artiglierie italiane sull’obbiettivo principale della battaglia, a Tolmino.
Per conquistare Gorizia si doveva conquistare il Sabotino. E qui entra in gioco Pietro Badoglio.
Prima della battaglia, su autorizzazione dello stesso Cadorna, l’allora tenente colonnello Badoglio aveva fatto costruire a ridosso del Sabotino un dedalo di gallerie scavate nella roccia quasi a contatto delle posizioni nemiche. In pratica aveva costruito una vera e propria fortezza d’assalto, come venne chiamata all’epoca.
Dunque, quando fu il momento, Badoglio riuscì a espugnarne la vetta e a sorpassarla scendendo sulla sponda destra dell'Isonzo sul costone/forcella di San Mauro (Šmaver, mt 507).
Sul basso Sabotino, invece, gli austriaci resistettero agli sforzi di un'altra colonna italiana, comandata dal generale Gagliani, il quale rimase ferito e dovette cedere il comando al generale De Bono.
La quota 188 (presso Lenzuolo Bianco) e la sommità del vicino Podgora rimasero in mano austriache.
Oslavia e la sommità del Calvario (q. 184) invece vennero raggiunte e sorpassate dagli italiani.
Nella notte gli austriaci contrattaccarono violentemente ottenendo qualche vantaggio ad Oslavia e al Graffemberg (Contado) per poi venir respinti sia sul Sabotino sia sul Calvario.
Il mattino del 7 agosto rivampò la battaglia, grazie anche a rinforzi sopraggiunti in aiuto agli austriaci.
Ma l'esercito italiano conquistò Quota 188 e il Dosso del Bosniaco (collocate tra Oslavia e Lenzuolo Bianco) e le trincee della Valle Piumizza (alle pendici a sud del Sabotino).
In serata si registrarono resistenze austriache ancora sul Podgora, ma la stessa notte il Comando austriaco ordinò la ritirata sulla sponda sinistra dell'Isonzo.
La via per Gorizia era aperta.
 

 
I primi ad entrare in Gorizia, l'8 agosto 1916, furono i fanti del 28º fanteria Pavia, comandati dal sottotenente Aurelio Baruzzi, medaglia d'oro al V.M.
La brigata Pavia faceva parte della dodicesima divisione comandata dal generale Fortunato Marazzi, che per questa vittoria e altri meriti di guerra fu insignito della Croce di Savoia.
Le difese austro-ungariche a nord e ad est di Gorizia comprendevano una serie ininterrotta di alture che coronavano la città e la proteggevano. Tra queste vi erano la dorsale dal Monte Santo, il San Gabriele, il San Daniele, e le alture minori di Santa Caterina (Kekec / Sv. Katarina), di Tivoli (Pod Gričem) e di M.te San Marco (Markov hrib), col retrostante bosco di Panovizza.
La dorsale quota 383 (Prižnica) - Monte Cucco di Plava (Kuk) - Monte Santo - San Gabriele - San Daniele, si prestava egregiamente invece a celare le artiglierie austroungariche a sua volta servite da ottimi osservatori.
Dopo la caduta di Gorizia, tali alture sapientemente apprestate a difesa, valsero a sbarrare il passo verso est alle truppe italiane.
 

 
In effetti, quello che accadde dopo la presa di Gorizia fu un insieme confuso di ordini e contro ordini che Cadorna impartì.
I problemi di un’avanzata ai tempi della Grande Guerra erano legati alla difficoltà di portare avanti anche le artiglierie, primo perché gli stessi bombardamenti avevano distrutto strutture e infrastrutture, secondo perché si correva sempre il rischio di perderle in un possibile contrattacco nemico.
Cadorna aveva preso atto della disfatta austriaca, ma fu chiaro fin da subito che qualsiasi passo oltre Gorizia avrebbe preteso la progettazione di una nuova campagna.
Furono messe insieme alla meglio delle forze in grado di incalzare il nemico, per la precisione 16 squadroni di cavalleria appartenenti a varie unità disomogenee.
La sola operazione di rendere organica la forza raggruppata richiese troppo tempo, consentendo al nemico di trasformare la rotta in una difesa passiva prima e attiva poi.
Quando gli squadroni di cavalleria entrarono in Gorizia, gli austriaci si erano assestati in una nuova linea di difesa. E quando arrivarono le artiglierie, tutto era da riprogettare.
Non solo, a ben vedere, la presa di Gorizia aveva esposto le truppe che l’avevano occupata in condizioni quanto mai pericolose.
Per questo Cadorna si affrettò a disporre nuovi consistenti movimenti di truppe il giorno 14, con l’intervento di ben quattro Corpi d’Armata.
Ma non ci fu nulla da fare, se non consolidare la conquista di Gorizia, che non era cosa da poco.
 

 
La presa di Gorizia suscitò una vampata di entusiasmo in tutto il Paese e le ripercussioni furono estremamente favorevoli anche nel resto d’Europa in una guerra che sembrava non produrre risultati concreti da nessuna parte.
Se in Italia Cadorna aveva consolidato la sua leadership, la Monachia Danubiana entrò in crisi.
Conrad si trovò costretto a trasferire battaglioni svincolandoli dal Trentino, che peraltro doveva inviare sul fronte russo.
Ma se dal punto di vista strettamente nazionale il bilancio si presentava imponente, dal punto di vista militare la vittoria non aveva migliorato molto la situazione, anche se certamente l’umore delle truppe era salita alle stelle.
Anche il prezzo pagato in termini di perdite umane fu terribilmente troppo alto.
L’Italia aveva perso – tra morti e feriti – 51.234 uomini, di cui 1.759 ufficiali.
L’Austria aveva perso 40.147 uomini, di cui 862 ufficiali.
 
G. de Mozzi

Nel corso della battaglia perse la vita anche un personaggio destinato a entrare nella storia: Enrico Toti.
Enrico Toti nacque e crebbe a San Giovanni, un quartiere popolare di Roma da Nicola Toti, ferroviere di Cassino, e da Semira Calabresi, di Palestrina.
Nel 1897 all'età di quindici anni si imbarcò come mozzo sulla nave scuola Ettore Fieramosca, passando poi sulla corazzata Emanuele Filiberto e infine sull'incrociatore Coatit.
Nel 1904 fu coinvolto in scontri sul Mar Rosso contro i pirati che infestavano il mare antistante la colonia italiana dell'Eritrea.
Congedatosi, nel 1905, Toti fu assunto nelle Ferrovie dello Stato come fuochista.
 
Il 27 marzo 1908, mentre lavorava alla lubrificazione di una locomotiva, che si era fermata nella stazione di Colleferro per effettuare l'aggancio a un'altra locomotiva e per fare rifornimento d'acqua, a causa dello spostamento delle due macchine Toti scivolò rimanendo con la gamba sinistra incastrata e stritolata dagli ingranaggi.
Subito portato in ospedale, l'arto gli fu amputato al livello del bacino.
Perso il lavoro, Toti si dedicò a innumerevoli attività tra cui la realizzazione di alcune piccole invenzioni oggi custodite a Roma, nel Museo storico dei bersaglieri.
Nel 1911, pedalando in bicicletta con una gamba sola, raggiunse dapprima Parigi, quindi attraversò il Belgio, i Paesi Bassi e la Danimarca, fino a raggiungere la Finlandia e la Lapponia.
Da lì attraversò la Russia e la Polonia, rientrando in Italia nel giugno 1912. Nel gennaio 1913 partì nuovamente in bicicletta, stavolta diretto verso il sud: da Alessandria d'Egitto raggiunse il confine con il Sudan dove le autorità inglesi, giudicando troppo pericoloso il percorso, gli imposero di concludere il viaggio e lo rimandarono al Cairo da dove fece ritorno in Italia.
 

 
Allo scoppio della prima guerra mondiale, Enrico Toti presentò tre domande di arruolamento che, vista la menomazione, furono respinte.
Ma Toti decise, nonostante tutto, di inforcare la bicicletta e di raggiungere il fronte presso Cervignano del Friuli. Qui fu accolto come civile volontario e adibito ai «servizi non attivi», privo, quindi, delle stellette militari.
Una sera, però, fermato da una pattuglia di carabinieri a Monfalcone, fu obbligato a tornare alla vita civile.
Nel gennaio 1916, anche grazie all'interessamento del Duca d'Aosta, riuscì ad essere destinato al Comando Tappa di Cervignano del Friuli, sempre come volontario civile.
Destinato inizialmente alla brigata «Acqui», riuscì a farsi trasferire presso i bersaglieri ciclisti del terzo battaglione.
In aprile i medesimi bersaglieri, presso i quali si era trovato a combattere, lo proclamarono uno di loro e lo stesso comandante, il maggiore Rizzini, gli consegnò l'elmetto piumato da bersagliere e le stellette.
 
Nell'agosto 1916 cominciò la sesta battaglia dell'Isonzo che si concluse con la presa di Gorizia.
Il 6 agosto 1916, Enrico Toti, lanciatosi con il suo reparto all'attacco di Quota 85 a est di Monfalcone, fu ferito più volte dai colpi avversari, e con un gesto eroico, scagliò la gruccia verso il nemico esclamando «Nun moro io!», poco prima di essere colpito a morte e di baciare il piumetto dell'elmetto.
Nei pressi di Quota 85, nel luogo in cui cadde eroicamente, a Sablici, sopra Monfalcone, in un bosco da cui si scorge il mare, si trova un cippo eretto in suo onore tra gli evidenti segni di vecchie trincee della Grande Guerra.
Fu decorato con la medaglia d'oro al valor militare alla memoria, con motu proprio dal re Vittorio Emanuele III in persona, non essendo immatricolato come militare a causa della sua inabilità, «perché ne sia tramandato il ricordo glorioso ed eroico alle generazioni future».
La salma fu trasportata inizialmente a Monfalcone, poi il 24 maggio 1922, settimo anniversario dell'entrata in guerra dell'Italia, venne trasportata a Roma dove ricevette solenni funerali.
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