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Nel maggio di 100 anni fa si preparava la 2ª Battaglia del Piave

L’esercito austro ungarico, affamato, lacero e stanco, doveva giocare l’ultima carta

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Il Grappa, monte sacro alla Patria – foto di Gabriele Dalla Porta, Cornuda.
 
Nel maggio 1918, tutto faceva pensare che, dopo la disfatta di Caporetto e la prima battaglia del Piave, il Regno d’Italia fosse a due passi dal crollo e l’Impero Asburgico stesse per concludere la guerra vittoriosamente.
Come abbiamo scritto nella puntata precedente invece (vedi), l’Italia si era già allora rivelata il Paese del Miracolo. La situazione era drammatica, ma il Paese aveva reagito come mai era accaduto nella sua storia. E, aggiungiamo noi, come sarebbe poi accaduto negli anni da venire in situazioni altrettanto drammatiche.
Vienna, dal canto suo, da una parte sentiva di avere la vittoria a portata di mano e dall’altra sapeva che non avrebbe potuto resistere ancora molto in una guerra che la stava dissanguando.
L’Imperatore Carlo 1° d’Asburgo aveva intavolato trattative di pace in Svizzera con l’Intesa e, tramite il Vaticano, con l’Italia. Il successo di Caporetto gli aveva fatto ritornare l’ottimismo, basti pensare che aveva fatto coniare la moneta per commemorare la presa di Venezia, mentre Conrad aveva fatto coniare addirittura quella per la presa di Milano.

L'imperatore Carlo 1° d'Austria e Ungheria.

In realtà, Vienna aveva bisogno di sfondare le linee italiane per mettere le mani sulle grandi quantità di generi alimentari che l’Italia, sfacciatamente, teneva negli opulenti magazzini. Le disposizioni scritte per i soldati che immancabilmente avrebbero sfondato le linee italiane indicavano con precisione le caratteristiche del «saccheggio» che ne sarebbe dovuto seguire. Rispetto a Caporetto, tolte le immediate necessità dei razziatori, gran parte del bottino di guerra avrebbe dovuto essere inviato nell’impero che stava soffrendo la fame.
Una situazione così stava anche a indicare la gravità della situazione: se gli austriaci non fossero riusciti a sfondare, sarebbe stata la loro fine.
È documentato che da febbraio a marzo 1918, l’esercito Austro Ungarico aveva letteralmente sofferto la fame. Soltanto ai primi di giugno - con i primi raccolti - sarebbero state distribuite nuovamente le razioni normali.
 
L’Impero Asburgico stava cadendo a pezzi, basti pensare che tra il 1917 e il 1918 i mezzi tecnici stavano attraversando una crisi spaventosa. Tra dicembre ’17 e maggio ’18 si erano verificati qualcosa come 761 scontri di treni che distrussero un totale di 6.000 vagoni. In un momento in cui era in corso il trasferimento delle truppe dall’Ucraina al fronte italiano, entrarono nel caos 1.500 treni.
Non giunsero mai al fronte 15.000 vagoni di farina inviati dalla Germania e – grazie a Dio, diciamo noi – neppure gli otto treni carichi di yprite che, nella logica degli imperi centrali, dovevano precedere il primissimo assalto della battaglia di giugno.
Non arrivarono per tempo neppure i treni carichi di fieno per i cavalli (essenziali per il trasporto delle artiglierie), che morirono di fame prima che nascesse la nuova erba primaverile.

Franz, Graf Conrad von Hoetzendorf.

Sulla carta le forze austriache erano rimaste immutate, ma una relazione riservata dipingeva la situazione nella sua drammatica realtà.
Le divisioni erano sì 60, contro le 55 italiane, ma la maggior parte di esse contava solo dai 5 agli 8.000 fucili, contro i 10.500 in organico.
Ogni divisione era composta da due sole brigate, a loro volta composte da due soli battaglioni, ognuno su due reggimenti.
Insomma le 60 divisioni potevano contare su 680 battaglioni, contro i 720 in organico.
Ma anche la situazione interna del Paese era assai precaria.
Sempre secondo la relazione ufficiale e riservata del ministero della Guerra asburgico, le retrovie erano malsicure. Migliaia di disertori formavano unità brigantesche armate di mitragliatrici e qualcuna anche di cannoni, il cui unico scopo era quello di sopravvivere.
A questa situazione si aggiungevano i proseliti delle idee bolsceviche. Vi furono problemi a sedare rivolte tra i marinai della flotta a Cattaro (gennaio 1918) e una dozzina di ammutinamenti avvennero un po’ in tutto l’impero.
E questa era la situazione di un paese che si era portato a due passi dalla vittoria e che stava per sferrare l’assalto finale.
 
Ma torniamo alla situazione propriamente militare.
Come si può immaginare, c’erano più scuole di pensiero sul come attivare quella che avrebbe dovuto essere l’assalto finale all’Italia.
Conrad era il più esperto, ma anche perdente in quanto non gli era andata bene neanche una delle sue operazioni.
La sua pianificazione venne comunque presa in grande considerazione: un forte attacco tra l’Astico e il Piave, con uno sfondamento a ovest del fiume Brenta e la conquista del monte Grappa. In questa maniera avrebbe inferto un grave colpo alle linee più lontane dalle riserve italiane e si sarebbe portato nell’opulenta pianura veneta.
Se poi Boroevic avesse voluto scattare sulla linea Oderzo-Treviso, sosteneva Conrad, avrebbero chiuso a tenaglia la massa di manovra italiana.
Il 22 gennaio Conrad suggerì di aggiungere un attacco lungo l’asta del fiume Adige per bloccare eventuali spostamenti di riserva italiane.

Feldmarschall Svetozar Boroević von Bojna.

L’8 marzo il Comando supremo austriaco ipotizza un attacco a cavallo del fiume Brenta (Valsugana) e un altro alle Grave di Papadopoli (il Piave vicino al mare). Si tratta sempre di una manovra a tenaglia, ma più ristretta e spostata più a oriente. Per il Capo di Stato Maggiore Atz, infatti, l’idea di Conrad di sfondare dagli altipiani dei Sette Comuni è piena di incognite e ritiene troppo pericolosa l’operazione sul Montello.
Ma il carisma nutrito da Conrad ha il suo peso e il 23 marzo lo Stato maggiore si orienta la sua linea ma con una significativa modifica, l’aggiunta di una ulteriore azione d’attacco sul Tonale-Ponte di Legno, denominata Lawine (Valanga) per richiamare le riserve italiane a ovest del Lago di Garda.
L’operazione principale viene definita Radetzky, per spaventare gli Italiani richiamando loro un militare che aveva tenuto saldamente il Lombardo Veneto durante il primo Risorgimento. Consiste nell’attacco in forze a cavallo dell’altipiano di Asiago e la Valsugana.
L’altra operazione, denominata Albrecht, punterà su Treviso scendendo sulla sponda destra del Piave.
La decisione finale viene presa il 21 aprile. Preceduti di qualche giorno dall’operazione Lawine, vi saranno due attacchi principali in contemporanea: Conrad dagli altipiani al Grappa e Boroevic sul Piave.
 
Nessuno sembra rendersi conto che il tempo ha giocato esclusivamente a favore degli Italiani. Da una parte Diaz è riuscito a ricostituire in pieno il suo esercito, dall’altra ha avuto tutto il tempo di predisporre solide e funzionali linee di difesa.
Da parte austriaca non si sono resi conto che le forze sono ormai in assoluta parità, condizione che mette in pieno svantaggio la forza di chi attacca. Inoltre, nonostante le note ufficiali riservate sullo stato dell’esercito, la parte austriaca è fortemente indebolita per le ragioni che abbiamo visto sopra.
Comunque sia, a fine aprile – esattamente cento anni fa – il piano di attacco comincia a prendere forma.
Boroevic presenta il piano operativo della Isonzo Armee al Comando supremo. L’attacco principale partirà da Oderzo puntando su Treviso attraversando il piano in più punti.

Armando Diaz.

Un secondo poderoso attacco scatterà in contemporanea dalla valle del Piave, dove la 4ª Armata potrà scendere sulla sponda destra del Piave.
Un terzo attacco, meno importante ma tatticamente funzionale, avverrà da San Donà a Cortellazzo.
Conti alla mano, sono necessarie a Boroevic 19 divisioni di fanteria e quattro di cavalleria (per sfruttare il successo).
Di riserva ci sono quattro divisioni a disposizione del Comando Supremo.
Boroevic fa presente che saranno necessarie altre riserve, nel caso fossero necessarie per dare la spallata finale. In realtà non ci saranno ulteriori riserve a disposizione né di Boroevic né di Conrad.
In buona sostanza, gli austriaci non hanno a disposizione forze sufficienti.
Da parte sua, Conrad dovrà attaccare con la sua 11ª armata – dotata di quattro corpi d’armata – raggiungendo «con un sol balzo» [questa frase è spesso citata negli ordini di servizio, come se muovere decine di migliaia di soldati fosse uno scherzo] la pedemontana veneta Schio-Thiene-Breganze-Marostica-Bassano-Asolo-Cornuda.
In conclusione, tutte le forze a disposizione dell’Impero avrebbero dovuto sfondare un fronte 120 km dall’Astico a San Donà.
 
Con la primavera, peraltro, Vienna riuscì a inviare in Italia altri 1.500 treni di truppe fresche dalla Bucovina, dalla Romania, dalla Galizia e dalla Volinia (Ucraina occidentale).
Queste unità prendono posizione dopo un periodo di addestramento in quella che fu definita «Tattica tedesca», quella che a Caporetto portò il successo agli Imperi Centrali.
Il 28 maggio l’addestramento era a buon punto, ma mancava ogni tipo di rifornimento, in primis il vettovagliamento. Boroevic fa presente che in quelle condizioni non era in grado di sostenere un attacco e Vienna inviò un po’ di razioni e biada per gli animali.
Indipendentemente dalle considerazioni di cui sopra, viene stabilita la data dell’attacco: il 15 giugno 1918.
La scarsezza di cavalli renderà difficoltoso lo spostamento delle artiglierie, il munizionamento sarà razionato a tutti i livelli, manca nel modo più assoluto l’yprite.
Il 5 giugno i comandi diramano i piani di attacco alle unità operative. La macchina ormai è in moto e non sarà più fermata.
In tutto l’Austria ha dislocato un totale di 60 divisioni, di cui 50 destinate all’attacco principale.
Di fronte si troveranno 45 divisioni italiane, comprese due britanniche e una francese, ma con un numero di effettivi sostanzialmente uguale.

Ferdinand Foch.

Da parte italiana non si ha una chiara percezione di dove attaccherà il nemico. Il servizio informazioni aveva quasi tutti i dettagli tattici, ma non quelli strategici.
L’unica cosa certa era che i tedeschi non avrebbero preso parte alla battaglia, in quanto Ludendorff aveva scagliato l’intera sua forza in Francia.
Sul numero degli effettivi austro ungarici, il Comando Supremo italiano era a conoscenza. E di fronte alla parità numerica, sia Diaz che il francese Foch ritenevano improbabile che l’Austria volesse attaccare davvero.
Secondo il generale francese, se l’Austria avesse attaccato, sarebbe stato possibile contro manovrare e rovesciare le sorti della battaglia. Anzi, visto il soddisfacente stato delle nostre truppe, perché non prendere l’iniziativa e compiere noi un attacco preventivo? Per la stessa ragione che avrebbe dovuto consigliare gli austro ungarici a non attaccare: la parità delle forze in campo.
All’alba del 14 giugno, due disertori romeni si presentano alle linee italiane sugli altipiani e annunziano l’ora esatta dell’attacco, previsto per la mattina dopo.
Come a Caporetto, i nostri comandi non prendono sul serio l’informazione e non vien diramato alcun allarme speciale, solo un semplice preavviso.
Solo il comandante dell’artiglieria della 6ª Armata prende le precauzioni del caso, sposta le artiglierie più esposte e, dopo aver ottenuto il permesso dal Comando Supremo, inizia il fuoco dell’artiglieria sulle probabili basi di partenza dell’attacco.
Alle ore 20 del 14, altri quattro disertori annunciano che l’attacco sarebbe partito sette ore dopo.
 
Guido de Mozzi
(Tutti i servizi nella rubrica Centenario della Grande Guerra)

(Continua)

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