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Il 12 settembre di cent’anni fa D’Annunzio occupava Fiume

L’avventura durò 16 mesi, fino al Trattato di Rapallo del 12 novembre 1920, quando la città divenne lo «Stato Libero di Fiume»

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Prima di esprimere giudizi, è bene ricordare alcuni aspetti della situazione dell’epoca.
La prima è che l’Italia aveva appena mandato a casa un milione di uomini che per anni erano stati obbligati a sparare per uccidere altri esseri umani.
Frutto di questa situazione sottovalutata, le stragi rosse prima e le stragi nere poi, avvenute fino alla Marcia su Roma, erano sostanzialmente «tollerate» dal Governo, che riteneva più pericoloso provare a soffocarle.
Non c’è da meravigliarsi dunque se D’Annunzio convinse 2.600 militari a lui fedellissimi a seguirlo per compiere un’operazione che, a detta di tutti, andava compiuta per riparare con la forza la cosiddetta «Pace mutilata».
Gli alleati infatti avevano promesso all’Italia addirittura la Dalmazia in cambio dell’entrata in guerra. Con la Pace di Parigi, invece, la Francia preferì «darci» il Sud Tirolo.
D’Annunzio, una volta giunto a Fiume, confidava nell’intervento di Benito Mussolini, il quale invece sapeva che l’Avventura di Fiume era destinata a fallire. Non era ancora il momento.
In tutto questo, a fare la figura più brutta fu il Governo Nitti.


 
L’avventura di Fiume cominciò all’alba dell’11 settembre 1919 quando Gabriele D’Annunzio, per quanto febbricitante, si alzò dal letto della sua abitazione a Venezia, indossò la sua divisa bianca con i gradi di tenente colonnello, salì sul motoscafo che lo attendeva e si fece portare in terraferma. Lì lo aspettava un’automobile rossa cabriolet destinata a portarlo a Ronchi dei Legionari. E, nonostante la febbre, la capotte fu tenuta abbassata.
Ad attenderlo a Ronchi c’erano una trentina di camion militari Fiat, che caricarono i suoi uomini che lo stavano attendendo, di fatto tutti ribelli che disobbedivano agli ordini precisi dell’Alto Comando.
Al confine D’Annunzio trovò il generale italiano Pittaluga che, al comando delle truppe alleate presenti a Fiume, ordinò a D’Annunzio di fermarsi. Lo accusava di «voler rovinare l’Italia». A difendere l’autorità del generale, c’erano tre autoblinde e i bersaglieri con le baionette inastate.
E qui il poeta uscì con un primo colpo di teatro. Si scoprì il mantello e mostrò la divisa bianca che ostentava le medaglie che aveva sul petto.
- Avanti allora, – esclamò. – Sparate su queste medaglie!
I militari, soggiogati dal nastrino giallo delle medaglie d’oro, si fecero da parte. D’Annunzio ripartì per Fiume, con le fila ingrossate.
Le truppe di D’Annunzio entrarono a Fiume poco dopo le 11 del mattino del 12 settembre 1919.
Ad attenderlo la folla in tripudio. Finalmente si era realizzato il sogno di appartenere all’Italia. Il poeta salì sul balcone del palazzo del governo e si rivolse alla folla dichiarando come «oggi Fiume sia il simbolo della libertà, della vittoria».
 
Avuta la notizia, il Governo incaricò il Generale Badoglio si sedare la rivolta. Il generale si acquartierò a Trieste, fece preparare dei volantini che fece gettare da un aereo sulla vittà di Fiume. Esortavano i militari a lasciare Fiume. L’appello cadde nel vuoto e allora Badoglio inviò tre reggimenti di bersaglieri con l’incarico di liberare Fiume dall’occupazione di D’Annunzio. Ma i bersaglieri passarono dalla parte di D’Annunzio.
Badoglio rimise l’incarico, ma il Presidente Nitti respinse le dimissioni. 
 
In Italia i servizi segreti sorvegliavano Mussolini perché il Governo temeva che anche lui mobilitasse la piazza a sostegno dell’iniziativa di D’Annunzio. Già il colpo di mano di Fiume era un grattacapo interno e internazionale, per rimediare il quale Nitti non sapeva proprio cosa fare, vista la popolarità di D’Annunzio. Se poi fossero scese in campo le Camice nere di Mussolini, l’Italia sarebbe stata nei guai.
In realtà, però, Mussolini prese sì posizione a favore di D’Annunzio, ma senza alcuna intenzione di scendere in campo. Mussolini aveva disapprovato non tanto l’iniziativa, quanto i tempi per la sua realizzazione. Le bande rosse erano ancora le più numerose ad operare scorribande e omicidi nell’Italia settentrionale. Non ce l’avrebbe fatta.
E aveva ragione. Alle elezioni del 1919, non sarebbe riuscito eletto in Parlamento neppure lui, il capo. Nel giro di due anni sarebbe cambiato tutto, ma in quel momento non poteva far nulla.
Il mancato appoggio del futuro Duce segnò per sempre l’amicizia fra i due, anche perché a D’Annunzio non piaceva proprio fare il governatore di Fiume. Voleva consegnarla all’Italia e voltare pagina.
 

 
Il 22 settembre era giunta a Fiume la Nave della Regia marina «Cortellazzo» (ex incrociatore Marco Polo) che si unì ai legionari di D'Annunzio.
Il 23 settembre i francesi e gli inglesi, incaricati a «liberare Fiume» senza gli italiani, fermarono l’azione quasi subito, preferendo evitare un bagno di sangue, anche se alcuni morti in realtà vi furono.
D'Annunzio costituì un «Gabinetto di Comando» al cui vertice pose Giovanni Giuriati.
Il 7 ottobre Mussolini si recò a Fiume dove incontrò D'Annunzio, ma i due non giunsero ad alcun accordo.
Al fine di risolvere la situazione che si rendeva sempre più esplosiva Nitti acconsentì a tentare una soluzione più diplomatica. In effetti a partire dal 20 ottobre 1919 cominciarono gli incontri tra Badoglio e D'Annunzio che però, pur durando circa due mesi, non approdarono ad alcun accordo.
Badoglio rinunciò all'incarico e fu sostituiito dal generale Caviglia.
 
Il 26 ottobre si tennero a Fiume le elezioni che videro scontrarsi le due principali compagini politiche, da una parte i fautori dell'annessione all'Italia guidati da Riccardo Gigante e dall'altra parte gli autonomisti guidati da Riccardo Zanella.
Vinse la lista annessionistica con circa il 77% dei consensi e Gigante divenne sindaco della città venendo ufficialmente proclamato il 26 novembre.
In Italia, dopo le Elezioni politiche italiane del 1919 tenutesi il 16 novembre, Francesco Saverio Nitti fu riconfermato al governo (Governo Nitti II).
Il nuovo governo italiano preparò un nuovo testo, che consegnò a D'Annunzio il 23 novembre. Con questo testo il governo italiano si impegnava innanzitutto a impedire che la città potesse essere annessa al nuovo stato jugoslavo e ad ottenere per essa l'annessione all'Italia o almeno di conferirle lo status di «città libera», con relative garanzie e statuto speciale. 
 
D'Annunzio rifiutò il testo reclamando l'annessione immediata, ma nella notte il testo fu affisso sui muri della città per portarlo alla conoscenza dei cittadini fiumani.
Tuttavia il 15 dicembre il Consiglio nazionale della città di Fiume approvò le proposte del governo italiano con 48 voti favorevoli e 6 contrari.
Gli elementi più accesi della popolazione e dei legionari contestarono le decisioni prese dal Consiglio arrivando anche a intimidire gli elementi più moderati pertanto si preferì indire un plebiscito per decidere il da farsi. D’Annunzio invalidò il referendum.
Per tutta risposta, Giuriati si dimise, scrivendo a D’Annunzio: «Io sono venuto a Fiume per difendere le secolari libertà di questa terra, non per violentarle o reprimerle.»
Gli subentrò Alceste De Ambris, ex sindacalista rivoluzionario e interventista, giunto a Fiume nel gennaio del 1920.
 

 
Nella stessa Fiume gli ufficiali del Regio esercito vivevano con disagio la nuova situazione, tanto che lo stesso generale Caviglia pensò di poter fruttare un eventuale dissidio interno alla città tra monarchici e repubblicani.
Inoltre alcune decisioni dello stesso D'Annunzio alimentavano i dubbi e le polemiche interne.
Nel marzo 1920 un furto compiuto da alcuni legionari ai danni di alcuni commercianti scatenò le ire del capitano dei Carabinieri Rocco Vadalà, che richiese al Vate lo scioglimento dal giuramento per poter abbandonare la città. Dopo alcune resistenze iniziali i Reali Carabinieri abbandonarono la città seguiti da alcuni ufficiali di altre armi.
Al contempo il problema degli approvvigionamenti diventò sempre più pressante tanto che circa quattromila bambini dovettero sfollare da Fiume con il supporto dei Fasci Italiani di Combattimento e delle organizzazioni femminili.
 
La situazione di stallo in cui si trovava la città di Fiume da ormai diversi mesi e forse la rinuncia ufficiale dell'Ungheria a ogni diritto sull'antico possedimento, spinsero D'Annunzio a una nuova azione, la proclamazione di uno stato indipendente, la Reggenza Italiana del Carnaro, proclamata ufficialmente il 12 agosto 1920.
Il 12 settembre fu presentato il vessillo del nuovo Stato. Come atto di frattura la Reggenza fu il primo stato a riconoscere ufficialmente l'Unione Sovietica.
Questo risultò per molti inaccettabile, causando la defezione di molti legionari fedeli alla monarchia, in particolare dei carabinieri.
 
Nell'autunno del 1920 Fiume divenne il centro di un piano insurrezionale, che aveva lo scopo di rovesciare il governo Giolitti e imporre un nuovo regime in Italia.
Secondo le intenzioni dei golpisti, una spedizione doveva partire dal Carnaro e marciare su Roma (o passando per Trieste o con uno sbarco ad Ancona) e assumere il potere. Una sorta di Marcia su Roma ante litteram.
L'eversione era motivata da timori che riguardavano sia la politica interna, sia quella estera. Nel mese di settembre, infatti, era in corso l'occupazione delle fabbriche e la destra temeva che i socialisti potessero trasformare la protesta in un tentativo rivoluzionario, anche perché il governo si mostrava troppo morbido nei confronti degli operai, non reprimendo l'occupazione con la dovuta energia.
Al complotto presero parte vari elementi dello schieramento dannunziano. Anzitutto, i legionari che già occupavano Fiume e i nazionalisti, che furono tra i più attivi nell'invitare il poeta a «osare», tanto che elementi come Alfredo Rocco, Francesco Coppola e lo stesso Enrico Corradini si recarono più volte nel Carnaro per incontrare D'Annunzio e discutere del progetto.
Erano della partita anche i fascisti, ma il loro atteggiamento era più cauto, perché Mussolini non intendeva rischiare il suo futuro politico su un progetto dall'esito incerto.
 

 
Il piano giunse a un livello avanzato di elaborazione e nel mese di settembre e ottobre i potenziali eversori tenevano riunioni quasi quotidiane a Roma, presso la redazione dell'«idea nazionale».
I golpisti erano sostenuti da una cordata di industriali, come poi sarebbe accaduto a Mussolini per la Marcia su Roma, che intendevano finanziare l'impresa, ma altri settori del mondo industriale, sebbene contattati dagli eversori, preferirono tenersi in disparte.
I golpisti speravano di trascinare dalla loro parte alcuni ufficiali del Regio Esercito, in particolare l'ammiraglio Enrico Millo, governatore della Dalmazia, e il generale Enrico Caviglia.
Senza l'appoggio dei militari, infatti, il piano era destinato al fallimento. Si aspettavano, inoltre, che i corpi di pubblica sicurezza, in particolare i Reali Carabinieri, non avrebbero preso le armi contro di loro.
 
Le voci sull'organizzazione del colpo di stato divennero di pubblico dominio alla fine di settembre e tutti i giornali italiani se ne interessarono.
Giolitti, con un'abile manovra, riuscì a stroncare sul nascere i propositi dannunziani: da un lato, fece avvicinare da suoi emissari gli elementi più malleabili del fronte golpista, a partire da Mussolini, che fecero venire meno il sostegno; dall'altro, si assicurò la fedeltà degli alti gradi dell'esercito.
I golpisti, pertanto, vistisi privati del sostegno dei militari, furono costretti a recedere dai loro propositi.
Il piano insurrezionale non fu messo in atto, ma tra i potenziali eversori restò l'idea di prendere il potere con la forza, che sarebbe stata realizzata nel 1922 con la Marcia su Roma.
 
Poche settimane dopo, il 12 novembre 1920, Italia e Jugoslavia firmarono il «Trattato di Rapallo», in cui si impegnarono a rispettare l'indipendenza dello Stato libero di Fiume.
Tutti i partiti politici italiani accolsero favorevolmente l'accordo stipulato. Anche Mussolini e De Ambris considerarono positivo il nuovo Trattato. Mussolini lo difese inoltre sul Popolo d'Italia cercando di convincere la propria recalcitrante base.
Pochi giorni dopo il generale Caviglia comunicò a D'Annunzio i dettagli del trattato di Rapallo. Il capo gabinetto De Ambris avvertì D'Annunzio del desiderio di pace espresso dalla popolazione e dagli amici in Italia.
D'Annunzio, pochi giorni dopo, decise di rifiutare il trattato. Seguirono alcuni giorni di frementi contatti ma, quando il Trattato di Rapallo fu ufficialmente approvato dal Regno d'Italia, il generale Caviglia si risolse a intimare l'ultimatum a D'Annunzio.
Al rifiuto del Vate, Fiume fu completamente circondata e, dopo 48 ore di tempo concesse per far evacuare i cittadini stranieri, il mattino della vigilia di Natale fu sferrato l'attacco.
 

 
Un primo attacco a Fiume fu sferrato la vigilia di Natale, che D'Annunzio battezzò come il «Natale di sangue».
Dopo una tregua di un giorno la battaglia ricominciò il 26 dicembre 1920 e, vista la resistenza dei legionari, verso mezzogiorno incominciò il bombardamento navale della città da parte della nave Andrea Doria, che proseguì fino al 27 dicembre.
Vi furono alcune decine di morti da entrambe le parti nel corso degli scontri.
Il 28 dicembre D'Annunzio riunì il Consiglio nazionale e si decise ad accettare un incontro con gli emissari del governo italiano e ad accettare i termini del Trattato di Rapallo.
Rassegnò conseguentemente le proprie dimissioni con una lettera fatta consegnare dal comandante dei legionari Giovanni Host-Venturi e dal sindaco Riccardo Gigante.
Il 31 dicembre 1920, al termine del Natale di sangue, vista la sconfitta, D'Annunzio firmò la resa e da quel momento ebbe vita lo Stato libero di Fiume.
 
Nel gennaio 1921 i legionari fiumani cominciarono ad abbandonare Fiume, mentre D'Annunzio partì per ultimo il 18 gennaio alla volta di Venezia.
Antonio Gramsci difese dalle colonne de L'Ordine Nuovo tanto D'Annunzio quanto la Legione di Fiume, mentre i dirigenti dei Fasci Italiani di Combattimento elaborarono una mozione di condanna per l'attacco a Fiume da parte dell'esercito regio, firmata all'unanimità con l'unica astensione di Benito Mussolini.
La conquista della città durò poco, ma il suo valore simbolico fu rilevantissimo.
L'adesione di Mussolini al trattato causò l'indignazione del Vate e di molti degli stessi fascisti lontani dal centro direttivo di Milano, i quali manifestarono la propria contrarietà alla decisione degli organi centrali, scatenando un moto di protesta interno al partito e auspicando la successione del poeta abruzzese alla guida dei Fasci Italiani di Combattimento.
 
In Italia, la legislatura a causa delle reazioni nel Paese si chiuse anticipatamente e le elezioni politiche si tennero nel maggio 1921, dopo le quali Giovanni Giolitti non fu più capo del governo.
Nell'anno 1921 si tennero le prime elezioni parlamentari anche a Fiume nelle quali parteciparono gli autonomisti e i Blocchi Nazionali pro-italiani. Il Movimento Autonomista ricevette 6.558 voti e i Blocchi Nazionali (Partito Nazionale Fascista, Partito Liberale e Partito Democratico) 3.443 voti.
Presidente divenne il capo del Movimento Autonomista, ossia Riccardo Zanella che intraprese una politica di allontanamento dall'Italia.
Fiume verrà annessa a tutti gli effetti allo stato italiano solo nel 1924 dallo stesso Mussolini. Come nelle altre regioni annesse vi fu introdotta una politica di italianizzazione.

G. de Mozzi
g.demozzi@ladigetto.it


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