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Da una foto una storia/ 3 – Di Maurizio Panizza

Rovereto, 19 di novembre 1900: duplice omicidio nella Città della Quercia

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 Testi e immagini © Maurizio Panizza.

Ci sono immagini che nascondono segreti.
Saperle osservare senza pregiudizio, collegare più elementi, interpretare il contesto, consultare altre fonti, può diventare un’operazione molto interessante.
Un’operazione che a volte può rivelare sorprese inaspettate. 

L’uomo che vedete nella fotografia è un morto che cammina. Si chiama Floriano Grossrubatscher ed è stato condannato all’impiccagione.
Siamo nel 1900, esattamente il 19 di novembre, un lunedì grigio e piovviginoso. Come deciso dal tribunale di Rovereto, in provincia di Trento (all’epoca Austria), oggi quest’uomo dovrà essere giustiziato.
Si dice che in aula, dopo il verdetto, il Presidente del tribunale abbia chiesto di non assistere alla condanna a morte.
Pure i rappresentanti comunali, invitati ufficialmente, quando sta per iniziare il rito funesto dell’esecuzione non sono ancora presenti. Disertando l’estrema cerimonia, pare abbiano voluto condannare un atto di barbarie, simile a quello perpetrato dall’omicida, sebbene questa volta compiuto con giustificata motivazione in nome della giustizia e dell’imperatore.
Comunque sia, all’interno del carcere di Rovereto tutto è pronto: non saranno di certo queste eccellenti assenze a fermare la macchina dell’esecuzione.

Alle sette del mattino piove. Piove a dirotto. Nel cortile della prigione, la sera precedente è stata allestita una forca, mentre da Vienna sono arrivati in treno i due boia che provvederanno a dare compimento alla sentenza.
Tutto è pronto, dicevamo. Vicino alla forca, in piedi, impassibili, vestiti di nero, i guanti infilati, i boia attendono il condannato a morte.
Ecco, adesso entra il Grossrubatscher, pallidissimo, scortato da quattro guardie che lo conducono davanti alla Commissione giudiziale.
Nell’aria suonano orribili i rintocchi dell’agonia.
«Prima del momento supremo, avete qualcosa da dire?» – chiede il Presidente.
Il condannato risponde: «Sì. Domando perdono del mio delitto. Do un addio a tutti nel mondo e a mia madre. Come mi è stato richiesto, sono disposto affinché il mio corpo venga sezionato.»
Poi l’uomo chiede la grazia che dal denaro trovatogli addosso vengano prelevati cinque fiorini per far celebrare delle messe per la sua anima.
Infine dichiara: «Affronterò contento la pena per espiazione di quanto ho fatto.»
Ma di quale infame delitto si era macchiato Floriano Grossrubatscher? Vediamo insieme quella triste vicenda.

Circa otto mesi prima, a Rovereto, il ventiseienne della Val Badia era penetrato nell’appartamento del professor Giovanni Alton, anch’egli originario della stessa valle.
Qui, colto probabilmente di sorpresa, il giovane aveva reagito estraendo un coltellaccio e colpendo a morte il professore.
Successivamente, sentendo i rumori della colluttazione, era accorsa anche la nipote dell’Alton, Maria, la quale veniva strangolata dal Grossrubatscher senza alcuna pietà.
Le indagini non chiariranno mai se l’incontro fra conterranei fosse stato del tutto casuale, oppure se il giovane fosse stato spinto da oscure ragioni di vendetta.
Certo è che l’omicida fu catturato pochi giorni dopo, processato, e come detto, condannato a morte per impiccagione.

Il Presidente ora dice in tedesco al boia: «Signor carnefice, compia la sua funzione.»
In quel momento si avvicina l’aiutante: lega le mani del condannato dietro alla schiena, poi fa appoggiare l’uomo al palo della forca. Il boia sale la scaletta, fa passare il laccio per una carrucola che sta in cima al palo. Poco dopo, con un’agonia durata più di un minuto, il corpo del Grossrubatscher penzola esanime.
A questo punto, però, noi dobbiamo svelare un particolare importante: ciò che state leggendo è la cronaca dettagliata dell’esecuzione tratta dal giornale «Il Popolo» del 20 novembre 1900.
All’epoca, il direttore era Cesare Battisti, ma non è certo che sia stato lui, in prima persona, ad avere seguito per conto del quotidiano le tristi fasi dell’esecuzione.
Si sa solo che il cronista, molto scosso, dichiarò in calce al suo articolo che non fu capace di guardare l’attimo in cui il condannato moriva, né lo furono gli spettatori vicini, ai quali lui si rivolse.
Tuttavia, lo stesso giornale nell’edizione del 23 novembre, preciserà con dettagli ancora più raccapriccianti - se non addirittura gratuiti - quale fu il destino dei miseri resti del giovane condannato a morte: «I visceri vennero sepolti nel cimitero di Santa Maria, mentre il resto del corpo venne spedito a Innsbruck dove verrà spolpato e lo scheletro conservato nella raccolta dei grandi delinquenti. Inoltre, pare che la testa sia stata imprestata al Lombroso.»

Curioso, a volte, il destino! Sedici anni più tardi, in piena guerra mondiale, con un’analoga, tragica cerimonia e per mano dello stesso boia viennese, Josef Lang, Cesare Battisti - proprio lui, il direttore de «Il Popolo» - troverà la morte nella fossa del Castello del Buon Consiglio di Trento.
In quel caso, come sappiamo, l’accusa non sarà quella di omicidio, ma di alto tradimento nei confronti dell’Austria.
Il Battisti, infatti, fervido irredentista ma anche deputato al Parlamento di Vienna, per reclamare il Trentino all’Italia si era arruolato nelle file dell’esercito italiano andando a combattere contro la sua Patria.
Nel luglio del 1916, in un conflitto a fuoco sui monti della Vallarsa, era stato poi catturato e condannato a morte per impiccagione.

Maurizio Panizza - maurizio@panizza.tn.it

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