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Da una foto una storia/ 5 – Di Maurizio Panizza

Il naufragio del Mafalda, 25 ottobre 1927. La testimonianza di un trentino: Isidoro Adami (Seconda parte)

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Testi e immagini © Maurizio Panizza, il cronista della Storia.

Ci sono immagini che nascondono segreti.
Saperle osservare senza pregiudizio, collegare più elementi, interpretare il contesto, consultare altre fonti, può diventare un’operazione molto interessante.
Un’operazione che a volte può rivelare sorprese inaspettate.

Ci mise cinque ore, lunghissime e tremende, per inabissarsi nell’oceano Atlantico, ma esse non bastarono a salvare tutti i passeggeri. Il Principessa Mafalda era circondato da ben sette navi accorse in suo aiuto, ma neanche questo servì a salvarli.
Nel destino del transatlantico Mafalda era scritta la parola tragedia. E tragedia fu, miseramente.
Il 25 ottobre del 1927, la lunga carriera della nave s’interruppe a 80 miglia dalle coste del Brasile, in un mare calmo e privo di apparenti insidie.
Un disastro dettato dal fato avverso per la stampa di regime italiana; una tragedia, invece, annunciata più volte per coloro che in quella nave ormai vedevano soltanto l’ombra del suo prestigioso passato, iniziato nel 1908.
 
Erano gli anni della grande emigrazione in un’Italia che stentava a sfamare i suoi figli, dove imprenditori di pochi scrupoli speculavano senza alcuno rimorso sulla vita di tanti connazionali, depredando sistematicamente i malcapitati che sceglievano di imbarcarsi alla volta dei paesi di accoglienza.
Con poche eccezioni, la catena di speculazioni sulla vita umana prevedeva anche l’ammassamento in navi dalla dubbia tenuta.
L’11 ottobre del 1927 il Mafalda, a dispetto delle sinistre voci che correvano tra gli addetti ai lavori, venne nuovamente stivato all’inverosimile.
Ai 1.256 passeggeri si aggiunsero diversi clandestini ignari dell’ingloriosa fine di quel viaggio verso il sogno americano.
In gran parte, come detto, erano poveri emigranti che per 300 lire mangiavano all’aperto, mentre con 65 lire di supplemento potevano provare l’illusione di essere serviti a tavola in una piccola e maleodorante sala posta lontanissima dai ricchi saloni di prima classe.
Fra questi passeggeri vi era pure Isidoro Filippo Adami, di Volano, un piccolo paese agricolo della provincia di Trento. Anche Isidoro era uno di quei «sognatori».
Poco più che ragazzo, si era imbarcato a Genova per raggiungere l’Uruguay dove già avevano trovato lavoro da qualche anno 5 dei suoi 6 fratelli.
Teneva in mano il biglietto di terza classe - quella economica - e sulla nave era salito assieme ad altri trentini, fra cui uno di Pomarolo, uno di Saccone, uno di Sano, uno di Pannone e due di Mori, tutti paesi della Vallagarina.
 
Nel tardo pomeriggio del 25 ottobre, verso le 18.00, come già abbiamo ricordato, la nave andò in avaria mentre si trovava al largo della costa brasiliana. All’inizio sembrò un guasto non grave, poi rapidamente la situazione iniziò a precipitare.
L’S.O.S. lanciato dal Principessa Mafalda, fu raccolto da altre navi, tra le quali i piroscafi Alhena, Duca degli Abruzzi e i transatlantici francesi Moselle e Formose che si trovavano nelle vicinanze e che accorsero immediatamente. Tuttavia questi si fermarono ad una certa distanza dal Mafalda, poiché da esso si innalzava una vistosa colonna di fumo bianco che faceva temere l'esplosione delle caldaie e quindi il conseguente rischio di un incendio.
In realtà questo pericolo non sussisteva poiché gli operatori della sala macchine avevano già aperto le valvole del vapore prima che l’acqua raggiungesse le caldaie, ma l’unico generatore di corrente presente a bordo si era nel frattempo danneggiato e, non essendoci una dinamo supplementare, non fu possibile telegrafare alle navi vicine che la temuta esplosione delle caldaie era scongiurata.
Ad ogni modo le navi soccorritrici misero in mare tutte le proprie lance e iniziarono ad imbarcare molti naufraghi della nave italiana, mentre il comandante Gulì, munito di megafono, cercava di coordinare al meglio le operazioni di soccorso dal ponte di comando dando priorità a donne e bambini.
Ad un certo punto, resosi conto che la nave era ormai perduta, il capitano fece allora calare tutte le lance di salvataggio, ma poiché l'imbarcazione era fortemente inclinata a sinistra, quelle di dritta colpirono lo scafo danneggiandosi e divenendo inservibili.
Inoltre, numerose di quelle scialuppe che raggiunsero la superficie si rivelarono in cattivo stato, imbarcando acqua. Altre furono prese d'assalto e si rovesciarono o affondarono per il sovraccarico.
Poi sopraggiunse l’oscurità, che rese più difficoltosa qualsiasi comunicazione visiva: a bordo si era creato il panico e molti passeggeri, presi dalla disperazione, si gettarono in mare, annegando.
Allora il capitano capì che non si poteva fare più nulla per la nave e ordinò il «Si salvi chi può», mentre il caos a bordo aumentava sempre di più anche a causa dell’oscurità assoluta dovuta alla luna nuova.
In quei momenti, senza più lance di salvataggio a disposizione, vistisi perduti, alcuni passeggeri si suicidarono sparandosi. Fra questi, pure il direttore di macchina, Scarabicchi.
Intanto il Principessa Mafalda, verso le ore 22.20, essendo ormai completamente invaso dall’acqua a poppa, si alzò verticalmente di prua e colò rapidamente a picco.
 
Ma Isidoro Adami, il testimone di questa storia, dov’era in quei momenti drammatici, cosa stava facendo?
Lo possiamo apprendere da una lettera che lui stesso inviò alla sorella Candida, a Volano, meno di un mese dopo la tragedia. Eccola.

Montevideo, 14 novembre 1927.
Carissimi!
Domandandovi perdono sarebbe poco! Dopo un disagio così grande, per la trascuranza nello scrivere; ma credete non ho colpa; la disgrazia mia fu così grande e spaventosa quanto un orrido martirio. Molte volte mi misi a scrivere per raccontarvi qualche cosa, ma subito dovetti smettere poiché mi sentivo impazzire nel ricordare un così grande spavento.
Tra gli ottocento salvati del «Mafalda» sono stato uno dei quattro salvati miracolosamente; che di noi, per mezzo degli ufficiali del «Formosa» e del «Duca degli Abruzzi» giornali stranieri e Argentini si sono divertiti magnificamente a parlare di noi per una settimana. Sentite ora, che dopo venti giorni mi sento un po’ calmo, vi racconto in breve della mia tragica e spaventosa notte del 25 ottobre 1927.
Dopo quattro ore circa dalla rottura del piroscafo, dopo che le donne e i bambini erano tutti salvi, per mezzo delle barche di altre navi, tranne però i bambini annegati e che annegavano ancora quando c’era il sole perché sono affondate tre barche per troppo peso. Allora io e altri sei dei miei amici ci siamo ritirati nel salone da pranzo di prima classe che, essendo preparata la cena, abbiamo bevuto birra e mangiato peri.
Usciti dal salone con la sigaretta accesa, calmi e pacifici, perché si vedevano molte navi in aiuto e incoraggiati dagli ufficiali. Tutto un momento si è vista la nave sbandare a sinistra; allora solo io vidi il primo momento di pericolo e mi inchinai a levarmi le scarpe e i calzetti me li misi in tasca come servisse a salvarmi. Fu un attimo gridare di disperazione: in quel momento mi trovavo nella passeggiata di seconda classe aggrappato alla ringhiera fra le grida: «Addio mamma» e «Dio mio».

Si è vista la gente che non si poteva più reggere in piedi a rotolare sul bastimento come rotelle. Dopo un momento, 3-4 minuti sentii un terremoto nell’interno della nave, vetri e piatti spezzarsi. Allora mi resi conto del pericolo balzando in piedi sulla ringhiera per gettarmi in mare dall’alto di venti metri guardando il mare agitato nell’oscurità e, spinto a gettarmi, mi lasciai prendere da un affanno.
Chiudendo gli occhi in quel momento, guardando di nuovo le onde nelle tenebre, vidi la povera mamma che mi chiamava piangendo. Disperato dalla visione mi gettai in mare come fossi andato fra le sue braccia. Quando fui a galla dalla profondità che ero andato mi dirigevo verso la luce d’un’altra nave nuotando disperatamente per allontanarmi dal «Mafalda».
Fu allora il terrificante naufragio, mi trovavo 15 metri distante dalla caduta della nave. Vedendo che 1’albero davanti stava per colpirmi mi gettai sott’acqua così per evitare il colpo, ma disgraziatamente fui travolto e ferito alla fronte e alla spalla destra.
Impotente e ingombrato dai fili e dalle corde dell’albero dovetti lottare con coraggio per liberarmi nuotando poi un’ora con gli occhi quasi socchiusi dal sangue che mi cadeva dal cervello; mi accostai a un pezzo di legno per riposarmi; fu allora un tragico momento.
E mi sento dire: «Coraggio Trento!!!». Era un mio amico di Parma anche lui aggrappato al legno. Fu un attimo, il legno mi sfugge cadendo sulla schiena. Un urlo straziante sotto acqua e non vidi più nulla: l’amico era stato mangiato dai pescecani.
Rimasi in acqua ancora mezz’ora nuotando come un pazzo che mi sembrava di avere un pescecane per gamba. Raggiunta una barca francese fui salvato: mi lasciai cadere svenuto vomitando acqua. Subito dopo fui trasportato sulla nave Mosella (francese) dove fui medicato alla spalla e alla testa; poi mi fecero massaggi al ventre per l’acqua bevuta. In quel momento si fece a me vicino un frate della nave per confessarmi. A questa domanda io balzai in piedi col delirio pensando di essere in pericolo di vita; non ricordo ma mi hanno detto che l’ho offeso bestemmiando.
Dopo due ore, cioè alle due di notte, mi hanno trasportato su un’altra nave, la Formosa.

In questi giorni trovai un amico che mi ha condotto dal professore delle scuole italiane per procurarmi un bel posticino per lavorare. In vita mia non ho mai trovato un buon uomo così. Quel professore mi ha regalato pure qualche cosa da vestire e mi ha raccomandato a molti signori per il lavoro.
Spero di andare da un milionario a fare il giardiniere e servitore dove prenderò trenta pezzi al mese, spero di andare fra giorni, mi troverei molto bene. Se non andasse bene per andare a lavorare c’è un paio di posti più o meno comodi.
Ora sto bene anche per le mie ferite, sono completamente guarito; anche la notte ora dormo abbastanza tranquillo, solo i sogni mi turbano ancora per lo spavento. Ma in ora tutto è passato e vi prego di questo non parlarne più. Ora che l’America apre a me una vita molto bella.
Vi raccomando alla vigilia o prima di Natale fate dire una messa alla mamma che la sua visione mi ha salvato.
Infine per me se potete fare la comunione di Natale in ringraziamento che promisi alla Madonna che nell’ultimo istante la invocai, mi raccomando in più ricordate la povera mamma.
Se potete fatemi sapere di quelli di Mori se son proprio morti che ero proprio amico che le ultime parole le ho fatte a loro nel mentre mi sono gettato in mare loro hanno gridato: «Addio mamma».
Credo siano stati inghiottiti dalla nave. Ogni documento ogni fotografia benché un po’ rovinata, ma le ho salvate tutte.
Vi saluto tutti di cuore che ho scampato la morte sono sano e salvo.
Vostro Isidoro.

Maurizio Panizza
maurizio@panizza.tn.it 
 
(Continua)
(Prima parte)

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