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Da una foto una storia/ 12 – Di Maurizio Panizza

Rosa Broll, la «santa» bambina – Le torbide vicende di un prete e di una giovane parrocchiana raccontate da un cronista d’eccezione

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Testi e immagini © Maurizio Panizza, cronista della Storia - Nella foto: il Castello di Pergine.

Ci sono immagini che nascondono segreti.
Saperle osservare senza pregiudizio, collegare più elementi, interpretare il contesto, consultare altre fonti, può diventare un’operazione molto interessante.
Un’operazione che a volte può rivelare sorprese inaspettate.

Una mattina di febbraio del 1909, in un gelido inverno d’altri tempi, alla stazione ferroviaria di Trento scese un giornalista italiano.
Ad attendere il nuovo arrivato c’era Cesare Battisti, sua moglie Ernesta e alcuni esponenti del locale partito socialista. Fuori, poca gente e solo alcune carrozze di piazza che stazionavano in attesa di eventuali clienti.
 

 
A ventisei anni non ancora compiuti, quel giovane giornalista, ambizioso e determinato, era approdato a Trento alla ricerca di un trampolino di lancio per il suo futuro.
Prima di arrivare qui, in questi lontani confini dell’Impero Austro-Ungarico, il ragazzo dagli occhi vivaci e dai lunghi baffi sottili, per lo stesso motivo era stato dapprima in Francia e poi in Svizzera, ma con risultati deludenti: anziché trovare quel successo che cercava, era stato espulso malamente in quanto «soggetto indesiderato».
A Trento, era giunto perché chiamato dal Partito Socialista austriaco a dirigere la Camera del Lavoro e il settimanale «L’Avvenire del Lavoratore» grazie anche a quella fama di risolutezza caratteriale che l’aveva preceduto nei ristretti ambienti di partito.
In quegli anni Trento era una tranquilla città di provincia a cavallo fra la cultura italiana e quella mitteleuropea, da sempre fedele all’Imperatore e totalmente devota alla Chiesa.
Una città colta e istruita, ricca di storia e di numerosi giornali con i quali il nuovo arrivato non vedeva l’ora di mettersi in competizione. Infatti, oltre al suo, qui in Sud Tirolo c’era il settimanale «La Squilla», rigorosamente cattolico, nonché quattro quotidiani: «Il Popolo», di Cesare Battisti, «La Patria», «L’Alto Adige» e «Il Trentino».
Direttore di quest’ultimo giornale, di matrice cattolica, era Alcide Degasperi, mentre quello de «L’Avvenire del Lavoratore» - di cui abbiamo appena parlato - da qui in avanti (ora lo possiamo anche dire) sarebbe stato un romagnolo sanguigno di nome Benito Mussolini, un personaggio fino a quel momento del tutto sconosciuto, sia qui che altrove.
In uno dei primi editoriali, il neo-direttore sintetizzò chiaramente i suoi propositi con la ferma intenzione di «scuotere la tradizionale apatia del Trentino» (niente male come programma!) facendo seguire in poco tempo una tale energia produttiva e una vis polemica contro la politica locale e contro il clero che ben presto avrebbe fatto imparare quel cognome a chiunque, dentro e fuori le redazioni, e contribuito ad innalzare di colpo la tiratura del suo giornale.
 
Che il giovane socialista fosse un fiero anticlericale l’avevano già constatato in Liguria, a Oneglia, dove lui aveva diretto il giornale «La Lima». Dalle pagine di quell’organo di stampa, Mussolini si era spesso scagliato - con toni inauditi a quel tempo - contro la religione e le gerarchie ecclesiastiche affermando, ad esempio, che i Vangeli erano dei falsi, che Cristo non era mai esistito e che la Chiesa altro non era che un covo di ladri al soldo del capitalismo.
Con argomenti e toni analoghi si accostò ruvidamente anche alla cattolicissima realtà trentina, mantenendo in poco tempo quanto promesso, ma lasciando da una parte basiti gli stessi compagni di partito, dall’altra provocando lo sdegno dei suoi principali avversari: i preti (che lui chiamava pipistrelli) e gli amici dei preti. Della violenza verbale con cui attaccava gli avversari, ben presto ne fece le spese pure il mite Alcide Degasperi, il quale dalle colonne del suo giornale si trovò spesso a far fronte ad un Mussolini arrogante e offensivo.
In sostanza, ogni pretesto era sfruttato da lui per esacerbare l’annoso scontro fra socialisti e cattolici, portandolo a punte che mai più sarebbero state raggiunte in questa provincia.
Un fatto, in particolare, diede a Mussolini l’occasione per continuare in quella sua sistematica opera di discredito verso la Chiesa locale. Una vicenda dolorosa accaduta anni prima a una povera contadina di Susà di Pergine, in Valsugana, che lui riuscì a portare all’attenzione dell’opinione pubblica dalle pagine de «Il Popolo», con cui aveva iniziato da poco a collaborare.
 
Il 12 giugno, sul giornale di Cesare Battisti apparve un articolo intitolato: «La Santa di Susà intervistata da Il Popolo» - di Benito Mussolini.
Qui di seguito, riportiamo l’attacco e un estratto di quel pezzo che merita di essere letto ed ascoltato con attenzione per l’indubbio talento giornalistico che rivela.
«Come un pellegrino che muove a una Tebaide lontana per espiare nella solitudine bianca e sconfinata del deserto i dolci peccati di un tempo, sono partito da Trento all’alba sotto un cielo nubiloso e minacciante la pioggia. (...)
«La strada dispiega il suo nastro fra le colline superbe della vegetazione in fiore. Man mano che mi avvicino alla meta, i miei pensieri diventano più gravi. Quando Susà - la mia Mecca - appare sotto la montagna rossa, un raggio di sole squarcia le nubi e il mio sguardo si bea in una magnifica panoramica visione. Sopra Pergine, il castello erge le sue mura merlate di cui le feritoie sembrano occhi socchiusi di un cadavere enorme.»
 

 
È facile intuire dalle sue parole, che Mussolini, povero in canna, percorse a piedi quel tragitto di circa 12-13 chilometri (e di alcune ore), di cui buona parte in salita.
Continua così il suo reportage.
«Susà dista venti minuti di cammino da Pergine. Subito dopo il passaggio a livello della ferrovia valsuganese, il sentiero s’inoltra fra i campi con leggero pendio. Susà, come tutti i villaggi alpestri, è un mucchio di case. (…)
«Come mi piacciono questi bambini seminudi, mocciosi e ruzzanti fra le pozzanghere; come sento d’amare quest’umanità che cresce libera nell’ignoranza e nel sudiciume!»
E dopo quest’improbabile dichiarazione d’amore, prosegue.
«Prima di recarmi dalla santa faccio una visita alla casa rovinata da un incendio, pochi giorni or sono. È un dovere d’ospitalità che compio.»
Sulla porta incontra, poi, una contadina in lacrime.
«La buona donna mi dichiara singhiozzando: queste cose succedono solo a noi, poveri diavoli!»
Mussolini prosegue.
«Vorrei risponderle che anche in altri tempi e in altre parti del mondo sono scoppiati degli incendi e che è pur sempre una consolazione, ma rimetto a un’altra volta questa frase perché le anime semplici credono a un proprio dolore e non al dolore universale!»
 
In questo scritto, che pare stillare generosi e sinceri sentimenti di umana comprensione, è irriconoscibile quel Mussolini superbo e arrogante che non molti anni dopo diventerà il dittatore fascista, il guerrafondaio contro Etiopia, Somalia ed Eritrea, il complice di Hitler nell’assassinio di 6 milioni di ebrei, il responsabile di quasi mezzo milione di italiani morti in guerra. Per non dire della condanna a morte in manicomio che infliggerà all’ex-compagna Ida Dalser e al figlio, Benito Albino.
Irriconoscibile, dicevamo, questo Mussolini così particolarmente sensibile e non ancora preda di quell’insana ambizione e di quella sete di potere che porteranno al disastro l’Italia e l’Europa intera.

La storia dolorosa che il cronista si appresta a raccontare è, infatti, una di quelle storie toccanti e profondamente umane che hanno bisogno di uno speciale trasporto, fatto di compassione e di garbo, per permettere all’intervistato di potersi sentire compreso. 
E così è.
L’articolo continua descrivendo minuziosamente l’incontro di Mussolini con la protagonista.
«Dopo pochi minuti mi trovo davanti alla Santa. – Poi, una breve nota ironica. – Io m’aspettavo di vederla discendere dall’alto, adorna delle sacre costellazioni e invece compare da un uscio cigolante e sgangherato. Ho dovuto fermare il mio saluto perché lei mi ha gelato con un esordio di questo genere: I cavalieri (i bachi da seta) non mi lasciano neppure il tempo di morire». - Ma troverete una mezz’ora per me?
«La santa, al secolo Rosa Broll, accoglie la mia preghiera e si siede.»
Mussolini la descrive come una donna bassa, dai lineamenti secchi, dagli occhietti chiari, grandi, vivaci. Le chiome sono grigie, ma ricche. Età presumibile, cinquant'anni.

«Voi supponete forse lo scopo della mia visita... Ho saputo dei vostri casi giovanili... La storia la conosco; però ignoro molti dettagli. - Oh! - esclama la Rosa - tutti sanno le mie avventure. - Ma voi sapete che passando da bocca a bocca la verità si altera sino a diventare una bugia.
«Ditemi, ricordate l’anno in cui avete conosciuto don Antonio Prudel?- Fu nel 1874.- E vi conobbe subito ?- Anca massa. Avevo allora sedici anni e lui ne aveva venti. Mi faceva la corte da alcune settimane e mi conquistò. Divenni la sua amante.- E mai sua sposa?- Anca.»
Così Rosa, poco più che bambina, venne adescata dal sacerdote e usata a suo piacimento. E di questo, Mussolini annota e poi scrive sfidando la moralità cattolica, il potere clericale e la censura.
Fu amore? Difficile dirlo: di ciò la donna non ne farà menzione. Molto probabilmente fu più l’ignoranza e la fame (seppur diversa) a muovere quella relazione segreta fra i due.
 

 
Ma l’intrigo non era ancora del tutto compiuto. Infatti, una mattina di buon’ora, don Prudel accompagnò la giovane al Santuario della Madonna di Piné e in presenza di due testimoni compiacenti lesse una carta di dispensa che egli asseriva aver ricevuto dal papa e grazie alla quale poteva sposarla.
In seguito, a tutti, la giovane sarebbe stata presentata come una cugina del prete.
«La sera stessa, a tarda ora - proseguì la “Santa” - ritornammo a Susà. Il nostro appartamento era preparato nella Casa del Beneficio. Vi ho vissuto per tre anni.»
Ma perché “Santa”? Il motivo per cui quella povera contadina venne considerata tale, è lei stessa che lo rivela all’intervistatore.
«Io stavo chiusa giorno e notte in casa... La gente cominciava a mormorare... Si trovava strana la mia reclusione... Allora don Prudel si mise a propagare la novella della mia santità. Due volte alla settimana veniva a comunicarmi, seguito da un gran codazzo di fedeli… Ogni venerdì, poi, regolarmente, mi faceva sudar sangue... Diventavo santa patoca.»
Ma non è tutto.
«I contadini dei dintorni e dei paesi lontani muovevano in pellegrinaggio a Susà, mi chiedevano delle grazie e mi colmavano di regali... La gendarmeria, però, nutriva forti sospetti sull’autenticità dei miei miracoli, ma affinché i rappresentanti della forza pubblica non mi trovassero in canonica, don Prudel aveva scavato un nascondiglio nel muro e quando si annunciavano i gendarmi, io mi seppellivo in quella specie di armadio e sfuggivo a tutte le ricerche.»
 
A quel punto, Mussolini aveva compreso molto di quella storia, ma non tutto, ancora. La disponibilità della donna ad aprire i sui ricordi su quel doloroso passato, invogliò dunque il giornalista a proseguire nella sua intervista.
«Scusate, Rosa... Una domanda: il vostro matrimonio con don Prudel è stato fecondo? - Oh sì, abbastanza... ma poco fortunato... Il primo figlio - un maschio - fu abbandonato sulla porta della chiesa di Pergine da uno che non ricordo... Venne quindi raccolto ma dopo 15 mesi morì. - Permettete... Chi vi assisteva durante il parto? - Ma lui! Lui don Prudel! ... - E dopo?- Abortii di quattro mesi e poi dopo un anno e mezzo circa ebbi una bambina. Questa fu portata di notte a Levico dentro una sporta e lasciata sulla soglia della chiesa. Ma i gendarmi avevano notato l’individuo della sporta... Alla mattina il prete di Levico, aprendo la chiesa, trovò la neonata che vagiva... Fatta immediatamente la denuncia, i gendarmi non tardarono a identificare l’uomo dal misterioso carico, e trattolo in arresto ottennero da lui una confessione completa.(…)
«E la bambina? - interrompo io. - Venne raccolta e riportata a Susà da una Luisa Carlini. Morì dopo una ventina di mesi, pora popa.»
 
Quello che accadde in seguito non è affatto una novità per la nostra epoca: la denuncia, l’omertà di una Chiesa che tenta di ostacolare la verità, un lungo processo... Rosa Broll, ricoverata in ospedale per delle gravi conseguenze legate al parto, ci rimase per quasi sei mesi.
In quel periodo don Prudel non si fece mai vedere. Un giorno, invece, capitò il parroco di Santa Maria Maggiore per convincerla a dichiarare che la bambina abbandonata non era del prete, ma di un soldato o di un vagabondo che l’aveva presa con la forza. La ragazza promise che si sarebbe tenuta a questa versione per evitare scandali al Clero trentino.
Poi, però, il giorno del dibattimento, quando si trattò di giurare davanti ai giudici e davanti a Dio, la sua fede le impedì di dichiarare il falso e raccontò come effettivamente erano andate le cose.
Il dibattimento a porte chiuse, pur in presenza di testimonianze inconfutabili, si concluse senza alcuna conseguenza per don Prudel, salvo il suo trasferimento per un breve periodo al Collegio Arcivescovile e, successivamente, presso la parrocchia di San Lorenzo in Banale.
«E qui Rosa Broll accenna ad alzarsi» – racconta il giornalista. – «Restate ancora qualche minuto, vi prego. Dopo questi avvenimenti qual sorta ebbe il vostro matrimonio? - Don Prudel non mi lasciò neppure le « gioie » di sposa.... Mi portò via anche quattro abiti... - Ho capito. Grazie Rosa... Ora potete andare a pelare i gelsi pei vostri cavalieri e vi auguro buona fortuna. - A buon vederci, sior.»
 

 
Conclude, Mussolini, la sua cronaca.
«Io raccolgo melanconicamente le cartelle su cui ho gettato poche righe, e mi affretto al ritorno. Nei campi è l’ultimo fervore dell’opera quotidiana. Incontro dei contadini carichi di foglie di gelso che tornano alle loro case. Ben presto scendono le prime ombre crepuscolari; io accelero il passo. Da Povo, Trento costellata di mille luci, mi appare in una soffusa chiarità. È notte. Io distinguo la cascatella di Sardagna come una linea bianca, come un raggio di luna che filtri dalle profondità della roccia. Intorno l'anfiteatro nero cinge colle sue mura ciclopiche la città che dorme. Nel cielo le stelle hanno lunghi brividi. È l’ora in cui io accendo nel mio cuore la fiamma votiva per tutte le speranze, per tutte le fedi, per le rivolte inutili, per le passioni morte.»
 
Il 13 settembre 1909, dopo appena sette mesi dal suo arrivo in Trentino, Benito Mussolini venne espulso dalle autorità austriache perché considerato un pericoloso sobillatore.
 
Maurizio Panizza - maurizio@panizza.tn.

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