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2 settembre 1943: «Bombardate Trento!» – Di Maurizio Panizza

La storia incredibile di un capitano Usa che in gioventù era stato un bambino prodigio e che comandò la missione che distrusse la Portèla di Trento

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Le ricerche per un documentario in corso, rivelano particolari sconosciuti su quel bombardamento e soprattutto su chi era al comando della missione che distrusse il popolare quartiere della Portèla causando circa 200 morti.
È la storia incredibile di un capitano Usa che in gioventù era stato un bambino prodigio.

La morte sul quartiere della Portèla arrivò all’improvviso e lo stupore fu talmente grande che per un momento superò addirittura ciò che accadde immediatamente dopo.
Infatti, nessuno degli abitanti dell’antico borgo di Trento se lo aspettava quel tremendo bombardamento, men che meno l’immane strage che poi causò fra la popolazione.
Sì, è pur vero che da parecchio tempo si vedevano alti nel cielo gli aerei alleati che andavano a bombardare le città della Germania, ma da sempre correva voce che sarebbe stato impossibile che all’aviazione americana o inglese potesse interessare Trento perché città molto piccola e insignificante dal punto di vista strategico e troppo incassata fra le montagne.
In più, girava da tempo la «leggenda» che fra la Paganella e il Bondone - le due montagne che fiancheggiano la città - spirasse in quota una corrente talmente forte da rendere impossibile agli aerei bombardare il centro abitato.
 

Si scava fra le macerie in cerca di superstiti - Foto Fondazione Museo Storico del Trentino.
 
Erano quelli i giorni incerti di un’Italia sfinita e allo sbando. Il 25 luglio era caduto il fascismo e Mussolini era stato arrestato, mentre di lì a pochi giorni si sarebbe consumato anche in Trentino un secondo «rebaltón» dopo quello tristemente noto del 1918.
Infatti, l’8 settembre ci sarebbe stato l’armistizio: da quel momento in avanti chi ieri era stato l’alleato, ora sarebbe diventato il nemico; così come l’avversario del giorno prima, adesso avrebbe assunto il ruolo del «liberatore».
Il 12 settembre, poi, il Duce sarebbe stato liberato dal Gran Sasso e avrebbe fondato a Salò la Repubblica Sociale Italiana la quale avrebbe causato altri lutti al Paese.
Infine, in Trentino-Alto Adige l’autorità civile e militare sarebbe passata direttamente alle dipendenze dei tedeschi, diventando il nostro territorio, di fatto un’ulteriore provincia del Reich: l’Alpenvorland.
 

A lato della Torre Vanga, alcuni giorni dopo il bombardamento - Foto Fondazione Museo Storico del Trentino.
 
In questo quadro confuso e desolante, la guerra, comunque, andava avanti. L’esercito alleato, sbarcato un mese prima in Sicilia, continuava la sua lenta avanzata lungo la Penisola bombardando ponti, ferrovie e luoghi strategici per impedire da nord i rifornimenti all’esercito tedesco.
Fu dunque all’interno di quel piano bellico che gli americani programmarono il loro primo bombardamento su Trento, quello che nessuno - come detto - si sarebbe mai aspettato per via delle leggende metropolitane che aleggiavano sul capoluogo quasi a voler esorcizzare il rischio di eventuali incursioni aeree.
Ovviamente nulla di tutto ciò che si sussurrava in città era vero. La realtà, invece, sarà che quel tragico 2 settembre 1943 lascerà per sempre nella popolazione trentina una ferita talmente profonda da non poter più essere rimarginata.
Una ferita dell’anima, sospesa fra il desiderio dell’oblio e la necessità di fare memoria per le future generazioni.
 
In uno sforzo per ricordare quella data che segnò la morte di quasi duecento persone, in anni recenti la storiografia ufficiale ha fornito qualche contributo alla verità.
Chi scrive si appresta a realizzare, in collaborazione con il regista Federico Maraner, un documentario sui bombardamenti di Trento, dando però all’indagine storica un taglio diverso dai precedenti, puntando essenzialmente su quelle che furono le vittime «bambine» di quell’atroce avvenimento di guerra.
E nell’indagare su coloro che furono i martiri innocenti della Portèla, per la prima volta si cercherà di rappresentare anche chi era sopra, quelli cioè che impropriamente potremmo chiamare i «carnefici», quelli che dall’alto, stretti pericolosamente nei loro bombardieri, ubbidendo agli ordini superiori lanciarono in pochi minuti su Trento circa 34 tonnellate di bombe.
 

Il cap. Richard Headrick, in seconda fila al centro, assieme ad altri piloti prima di una missione.
 
Iniziata solo pochi mesi fa, di quest’indagine possiamo ora dire di avere già la prima sensazionale scoperta e cioè il nome di colui che si trovava al comando di quella missione.
Ma non è un nome qualsiasi quello che abbiamo rintracciato negli archivi USA grazie all’Associazione Aerei Perduti, è un personaggio singolare, una personalità poliedrica, un protagonista-bambino degli anni Venti, all’epoca conosciuto in tutti gli Stati Uniti e probabilmente anche in Europa.
Così che nel tentativo di ricordare i bambini della Portèla, non volendo ci siamo imbattuti nella vicenda di un altro bambino e quella che adesso ci accingiamo a raccontare è appunto la sua storia.
 
La mattina del 2 settembre 1943, prima di mezzogiorno, il capitano Richard Throop Headrick si trovava ai comandi del suo B17 (comunemente chiamato Fortezza volante), un bombardiere pesante quadrimotore.
Al contempo era anche il primo responsabile della missione partita alle 7 dall’aeroporto di Massicault in Tunisia con il preciso obbiettivo di bombardare il cavalcavia, il nodo stradale e la ferrovia («Railroad Junction») nei pressi della stazione di Trento.
Con lui sull’aereo c’erano altri nove ragazzi e altrettanti ne contava ognuno degli altri B17 che componevano la squadriglia.
Con ventisette anni d’età già vissuti intensamente, stavolta il suo destino non era dipeso da lui, ma erano state le vicende belliche che lo avevano spedito in Europa su di un bombardiere a combattere dal cielo i nazifascisti.
Proprio lui, Richard Headrick, giovanissimo capitano (poi colonnello) che sugli aerei ci stava già da 11 anni e che in gioventù aveva fatto ben altro.
 

Il piccolo Richard Headrick.
 
Richard era nato il 19 aprile 1917 a Chico, in California, in una famiglia religiosa e tradizionalista. Suo padre era un pastore evangelico e la madre una donna molto devota e dedita alla famiglia.
Il piccolo Headrick sin dai primissimi anni si dimostrò un bambino molto intelligente, al di sopra della media dei coetanei, un bimbo prodigio come si diceva già allora.
I suoi biografi raccontano che «Itchie» (come veniva chiamato in famiglia) amava molto stare in piscina a tal punto che già a sei mesi riusciva a nuotare a dorso.
All’età di due anni i cineasti iniziarono ad interessarsi di lui proprio grazie a questa sua incredibile abilità nel nuoto e il suo debutto cinematografico avvenne nel 1919 in «Should a Woman Tell» (a questo link l film considerato fino a pochi anni fa perduto).
 
Era l’epoca del film muto e grazie alla sua capacità di sapersi destreggiare con naturalezza sul set, all’età di tre anni Richard fu scritturato a Los Angeles come attore giovanile e si fece un nome soprattutto con il film «The Woman in Her Home» prodotto da Mildred Harris, moglie di Charlie Chaplin. 
 
A 5 anni, le riviste popolari erano innamorate di lui. Picture Play arrivò addirittura a dichiarare che «la stella del piccolo Richard Headrick era destinata ad un lungo splendore nei cieli cinematografici». 
 
Le riprese dei film per i quali il bambino veniva richiesto erano però lunghe e massacranti, per cui, al fine di tutelarne la crescita, i genitori pretesero dalla Harris la stipula di un contratto che garantiva a Richard «un pisolino ogni pomeriggio, programmando un calendario che non interferisse con i suoi pasti regolari e la proibizione di passare più tempo del necessario negli studios».
 
La presenza sul set cinematografico non interferì comunque con le altre passioni di Richard.
Nonostante i 19 film girati in quegli anni, lui continuò a nuotare vincendo coppe e medaglie nelle gare di nuoto e di tuffi e iniziò pure a suonare il violino.
Anche in questo caso dimostrò doti non comuni e un talento incredibile. All’età di 5 anni dalla stampa sportiva fu indicato come «il nuotatore più talentuoso di questi anni» preconizzando al bambino un grande futuro.
Così che quando alcuni anni dopo fu annunciato il suo nuovo impegno in tutt’altro settore, questo fu accolto dall’opinione pubblica con enorme stupore e pure con grande dispiacere. Da lì in avanti Richard Headrick sarebbe stato chiamato «The litte minister».
 
Era accaduto - non si sa bene come - che all’improvviso, all’età di 8 anni, il piccolo attore di successo, conteso da tutte le case cinematografiche americane, lasciasse il set per iniziare a «interpretare» un altro ruolo: quello del pastore evangelico.
Tuttavia, non si trattò di una scelta circoscritta alla sfera privata, in quanto la decisione andò a rafforzare ulteriormente la sua celebrità attraverso i suoi sermoni che venivano regolarmente trasmessi per radio. Richard stesso, accompagnato dai genitori, iniziò a tenere conferenze negli Stati occidentali mentre i giornali parlavano con entusiasmo di lui, sottolineando come «i suoi sermoni fossero istruttivi e portassero gli ascoltatori a vivere una vita più profondamente cristiana».
Nel 1927 gli verrà pure dedicata una biografia dal titolo «History of Richard Headrick The Little Minister.
 

Richard con la madre Hazel.
 
Fu negli anni successivi che l’ormai quindicenne Richard conobbe Orville Wright, il più grande pioniere del volo (figlio anche lui di un pastore evangelico), diventando anni dopo pure amico di Charles Linbergh, il trasvolatore dell’Atlantico.
Da quella prima amicizia scoccò una nuova scintilla, quella che lo portò in breve tempo a diventare uno fra i più giovani aviatori degli States.
Da lì in poi, la sua nuova carriera di pilota sarà ricca di successi così come prima lo era stata quella di attore e quella di predicatore.
Si arruolerà dapprima nella Royal Canadian Air Force e successivamente nella U.S. Army Air Force, l’aviazione americana, la quale con l’inizio della guerra lo invierà, ai primi del ’43, in Europa.
 
Ed è proprio da qui, da quest’ultima tappa della vita di Richard Headrick, che torniamo là dove avevamo iniziato questa nostra storia, al 2 settembre 1943, al decollo, cioè, di 90 bombardieri dalla base alleata in Tunisia e al loro volo verso il Trentino.
È da dire, tuttavia, che di quel folto gruppo di B17 del 2nd Bomber Group USAAF decollati in contemporanea verso il Nord Italia, non tutti raggiunsero Trento perché molti di essi avevano l’ordine di colpire altre città e poi rientrare alla base, altri, ancora, quello di proseguire e bombardare Bolzano.
In più, nel risalire la Penisola, qualche Flying Fortress era stata anche abbattuta dai caccia Luftwaffe o dalla contraerea tedesca.
 

Il ponte di San Lorenzo crollato nel fiume Adige. Foto Fondazione Museo Storico del Trentino.
 
Sui cieli di Trento, dunque, si presentarono in diciannove, come descrive lo storico Charles Richards nel suo libro «Second was First» attingendo dai report originali della missione.
Leggiamo così in un passaggio che curiosamente tratteggia una scena quasi poetica dei luoghi attorno a Trento.
«L’obbiettivo si trovava tra due montagne, un paesaggio molto bello. Montagne basse, verdi. In lontananza le Alpi più alte, affilate, aspre, coperte di neve. Quaranta miglia dal confine svizzero.»
Il leader del gruppo, conferma lo storico, è Richard Headrick. Poi il rapporto prosegue col linguaggio tecnico dei militari.
«Gli aerei rilasciano 152 bombe da 500 libbre (poco più di 2 quintali l’una, ndr) su di un ponte stradale. L’area del target è ben coperta (il bombardamento, cioè, è accurato, ndr) tenuto conto dei colpi che hanno raggiunto la strada. Così come quelli sul ponte del fiume Adige. Entrambi i ponti [sul fiume e sopra la ferrovia – NdR] sono stati abbattuti.»
 
Il resoconto poi continua descrivendo i risultati dell’azione ed è amaro constatare come la guerra abbia sempre due facce: quella di chi la fa e quella di chi la subisce.
«Questa missione è stata un buon esempio di bombardamento di precisione in una situazione di contrasto. L’obbiettivo era un viadotto stradale sopra la ferrovia, un incrocio chiave per le vie di comunicazione provenienti dal Passo del Brennero per il movimento di truppe e i rifornimenti dalla Germania all’Italia. Le bombe tagliarono il ponte ferroviario e fecero crollare nel fiume un ponte adiacente. Danni collaterali si sono avuti per il deposito di benzina, i capannoni merci e la stazione ferroviaria. L’interferenza del nemico - conclude il report - è stata trascurabile.»
Dunque, nulla, neppure una parola circa i numerosi edifici distrutti nelle vicinanze, né alcun riferimento alle probabili vittime.
Del tutto singolare, inoltre, il fatto che nei rapporti si esalti il bombardamento «di precisione» quando poi quei 200 morti furono per Trento un’enorme tragedia.
 

Il comandante Richard Headrick (a sinistra).
 
A questo proposito è il caso di ricordare come le forze alleate avessero visioni molto differenti. Infatti, se da una parte il Bomber Command inglese (che puntava ai bombardamenti di massa anche per spingere le popolazioni al rivolgimento politico) decise di effettuare quasi sempre operazioni notturne per evitare agli equipaggi troppe perdite, dall’altra parte gli americani riposero la massima fiducia in quello diurno di precisione, sicuri del nuovo sistema di puntamento «Norden» e degli armamenti a bordo a difesa dei propri aerei.
Chissà, forse stava proprio in questo la convinzione (o la speranza?) di Headrick di aver centrato gli obbiettivi assegnati senza aver causato gravi perdite fra la popolazione.
Del resto sappiamo bene come in guerra l'obbedienza agli ordini superiori sia sempre stato l'unico antidoto ai sensi di colpa e ai rimorsi della coscienza e quell’ordine «Bombardate Trento!» non si poteva di certo disattendere.
 

Richard Headrick, fotografato 50 anni dopo davanti a una «Fortezza volante»,
 
La sua buona stella, comunque, salverà dalla guerra il nostro protagonista, unico comandante americano - a quanto scrissero i giornali - ad aver portato a termine 96 missioni senza perdere un solo componente del proprio equipaggio.
Rientrato alla vita civile, Richard Headrick continuò le sue attività lontano dai riflettori: la guerra lo aveva disgustato e sconvolto.
Poco dopo, riprese come un tempo a tenere i suoi sermoni girando per gli Stati Uniti e non smise mai di alimentare neppure la sua eclettica e geniale personalità. Infatti, nel corso della sua vita fu ingegnere, inventore, filantropo, storico e scrittore.
Morì il 19 novembre 2001 a Chico, in California, alla veneranda età di 84 anni, ma delle vittime innocenti della Portèla, morte sotto il bombardamento di quell’ormai lontano 1943, lui non seppe mai nulla.

Ricerche storico-archivistiche dell’Associazione Aerei Perduti, Ravenna.


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