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Giovani in azione: Giulia Mattuzzi – Di Astrid Panizza

22 anni, di professione «meccanica». Con una «fissa» per tutto ciò che è in movimento

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«Già, è vero, fin da piccola ho sempre avuto un grande passione per la meccanica. Ancora da bambina volevo sapere come funzionassero tutte le cose: smontavo apparecchi da cucina, giocattoli, orologi, radio, poi li rimontavo.
«Facevo di tutto, insomma, per scoprire i segreti nascosti dentro ogni tipo di meccanismo e per capire come funzionavano.»
Storia quanto mai curiosa, questa di Giulia Mattuzzi, che vive a Rovereto, ha 22 anni e da tutta una vita è appassionata di meccanica.
Una giovane donna di certo originale a cui piace l'avventura e che non ha paura a buttarsi in un lavoro normalmente riservato ai soli uomini.

«Semplicemente mi piace mettermi in gioco – dichiara con una semplicità disarmante. – È ora che nel 2019 vengano scardinati i pregiudizi per cui una donna non può mettersi in tuta e tenere in mano una chiave inglese. Io lo faccio, e per questo inizio d’anno lo auguro anche a tante altre donne.
«Alle superiori ho seguito la mia passione, iscrivendomi al corso di meccanica dell’ITIS di Rovereto e dopo i cinque anni ho pensato di seguire il percorso di alta formazione della Provincia che mi sembrava interessante e che concluderò il mese prossimo.
«Il programma verte su argomenti non solo di meccanica, ma anche di robotica e elettrotecnica, molto attuali in quest’epoca di cambiamenti rapidissimi.
«Un corso in cui la teoria si accompagna a un sacco di pratica, e dove i mesi si susseguono tra studio e tirocinio, uno dietro l'altro.»


 
Perché non hai scelto di fare l'Università?
«Perché volevo proprio mettere le mani in pasta, lavorare da subito, mentre invece l'Università è molto più teorica. Questo percorso di alta formazione, che possiamo definire come una sorta di para università, mi ha permesso, invece, di unire lo studio al lavoro creando una connessione che permette di mettere immediatamente in pratica tutto ciò che si studia sui banchi di scuola.»
 
Cosa stai facendo di preciso in questo momento?
«Adesso sto seguendo un tirocinio in Dana, un’importante multinazionale presente in 26 Paesi con 29.000 dipendenti e che in Trentino ha due stabilimenti, uno a Rovereto e uno ad Arco.
«La Dana realizza componenti per aziende di veicoli stradali e fuoristrada, in particolare assali, cambi, sistemi di frenata e trasmissioni per macchine operatrici semoventi.
«Io sono impiegata ad Arco nel reparto sperimentale, lavoro sotto alle macchine, per dirtela con due parole, dove per macchina, intendo per esempio trattori, macchinari da miniera e altri che non ti sto nemmeno qui a spiegare perché ce ne sono davvero tanti.
«Praticamente nel mio reparto proviamo i prototipi, li smontiamo, li rimontiamo, controlliamo che i disegni siano corretti e se in seguito il cliente che ha provato la macchina nota qualcosa che non va, ce la rimanda e noi dobbiamo capire quale è il problema che ha causato il malfunzionamento.»
 

 
Domanda forse sciocca: come fai a muoverti nel tuo lavoro?
«Ci è voluto del tempo, devo ammetterlo. Ho dovuto metterci interesse, pazienza e passione perché all'inizio i miei colleghi, che hanno tutti 30-40 anni di esperienza, mi parlavano come se dessero tante cose per scontate.
«Io sono l'unica studentessa in mezzo a lavoratori già navigati, e per la verità anche l'unica donna su circa 250 lavoratori. Sono arrivata lì un po' allo sbaraglio, non sapevo nemmeno cosa producesse quella ditta. Quando le prime volte mi facevano vedere i vari pezzi da assemblare io mi chiedevo Ma cosa sono?.
«Dopo, piano piano, ho capito che ci sono varie parti da smontare, dove va messa questa o quella, oppure quando i bulloni di un pezzo vanno tirati un po' di più, quando invece un po' di meno...
«È stato difficile perché è un settore un po' particolare, di nicchia, direi, non è qualcosa a cui ti appassioni senza conoscerlo, devi proprio sbatterci la testa, provare e riprovare, anche perché personalmente non ho neanche un trattore a casa quindi non potrei nemmeno allenarmi nel tempo libero.»
 
Altra domanda, questa più scontata: come ti trovi a essere l'unica donna in un ambiente di soli uomini?
«Se la cultura di oggi sostiene che le donne devono avere accesso a ogni carriera e quindi che una quota rosa dovrebbe essere destinata a ogni settore lavorativo, devo però anche dire per esperienza che non tutti la pensano così, anzi.
«Parlando della mia storia lavorativa, ho trovato però dei colleghi che mi hanno aiutato tantissimo, non hanno avuto pregiudizi, né paura di mettermi gli attrezzi in mano.
«E già questo non è da tutte le aziende perché qui parliamo di attrezzi enormi. All'inizio mi sentivo un po' indifesa perché in realtà ogni pezzo che sposto pesa quanto me, o molto di più, anche fino a milleduecento chili.
«Ad un certo punto ho anche avuto paura di essere fuori luogo, di non essere all’altezza, mi sentivo spaesata perché tutto era più grande di me E, invece, ogni singola persona mi ha aiutata dicendomi che ce la potevo fare, spingendomi a mettermi alla prova ma nella maniera giusta, in maniera positiva, osservandomi mentre eseguivo i movimenti e dandomi i consigli appropriati.
«Non chiedevo altro che l'opportunità di provare, di dimostrare le mie capacità perché di solito mi sentivo dire che essendo una donna alcune cose mi erano per forza precluse e dovevo farmene una ragione. Invece in Dana non è stato così, anzi, ho trovato il modo affinché tutti mi aiutassero a crescere per esprimere al meglio le mie potenzialità.»
 

 
A livello fisico ti sei sentita limitata nel dover alzare ogni giorno pesi non indifferenti?
«Eh sì, non è stato facile, ammetto. Anche solo tenere in mano l'avvitatore, che pesa 4-5 chili, per avvitare 30 viti da una parte e dall'altra della macchina, alla fine la senti la stanchezza.
«È stata dura, alle volte mi fermavo un attimo per riprendere fiato ma i miei colleghi mi hanno sempre spronato a continuare. E poi uso anche le chiavi inglesi. Pensa che per avvitare alcune viti, quelle più grosse, devo letteralmente saltare sopra la chiave: non c'è nient'altro da fare.
«Certo, quando arrivavo a casa avevo dolori alle braccia e alle gambe, ma ero soddisfatta di avercela fatta anche quel giorno.» - dichiara Giulia, molto orgogliosa della sua impresa.

Fra poco finirai il tuo percorso in azienda. E dopo?
«È vero, tra un mese, a fine febbraio, finirò il mio lavoro e conquisterò anche un record: sarò la prima donna a concludere questo percorso in Dana, un percorso che peraltro esiste già da parecchi anni.
«Pensa che un giorno mentre ero ad una convention di meccatronica a Torino, il mio professore, quello che ha sempre gestito tutti i corsi di alta formazione, ad un certo punto ha realizzato con sorpresa che io ero la prima studente donna che portava a quella convention a cui andava tutti gli anni con i suoi studenti.
«Ma sono abituata a essere sempre circondata da uomini, anche alle ITIS Marconi ero l'unica ragazza in classe.»
 

 
Non ti è mai mancato avere una compagna femmina in classe?
«Dipende dai momenti, a volte è stato difficile essere l'unica ragazza perché i maschi riescono a portarti davvero al limite della sopportazione. Basta avere un brufolo, un capello fuori posto e partono le critiche. Però mi ha anche aiutato un sacco. Sono quelle critiche che hanno contribuito a rafforzarmi.
«I cinque anni di superiori sono comunque stati difficili non per via dei compagni, ma soprattutto perché i professori mi hanno sempre consigliato di cambiare scuola perché non erano abituati a vedere una ragazza nel corso di meccanica, figurati poi una bionda e con gli occhi azzurri come me.
«Ma ho resistito forse proprio come reazione ai continui richiami da parte dei miei professori. Perché se ero truccata o portavo i leggins, secondo loro potevo distrarre la classe; se un giorno non ero truccata si chiedevano il perché. Mi vedevano come lo stereotipo di ragazzina che dovrebbe frequentare un altro tipo di scuola. Ma quella non sono mai stata io.
«Volevo dimostrare che ci sarei arrivata comunque alla fine. E ce l'ho fatta. L'ultimo giorno, quando ho finito la maturità, c'era fuori da scuola il professore che mi diceva spesso che avrei dovuto cambiare scuola. Sono uscita a testa alta, per fargli vedere che era andata bene anche senza il suo supporto. Non so se l'abbia capito, ma poco importa.»
 
Se tornassi indietro rifaresti tutto?
«Sì, certamente, tutto quanto. Perché ora sono troppo felice. Sono arrivata al punto in cui comincio a veder ripagati i miei sforzi. Pensa che il mio direttore di lavoro, il supervisore di stage in pratica, ha detto che ho una grinta dentro, una voglia di fare che ha notato in pochi lavoratori. Per questo credo che il fatto di aver superato negli anni tutte queste sfide di genere, mi abbia aiutato a essere determinata così come sono ora.
«Come vedo il mio futuro? Ora posso dire di vederlo abbastanza in discesa, perché il mondo sta cominciando a capire che le donne possono essere anche altro nella vita. Ed è giusto così. Una volta che cominci a sentire che le difficoltà si allontanano e finalmente arrivano i risultati, capisci che davvero ogni sforzo paga alla fine. E mi stupisco perché non l'avrei mai detto qualche anno fa.»

Hai qualche messaggio da lasciare alle lettrici de L’Adigetto.it?
«Alle ragazze voglio dire che la cosa più importante è cercare quello che piace, anche se non è quello che bisognerebbe fare a livello di stereotipo.
«È arrivato il momento di lasciar perdere i pregiudizi e tirare fuori la determinazione che c'è dentro di noi. Poi bisogna avere pazienza e aspettare con fiducia, le soddisfazioni arriveranno certamente prima o poi. Auguri!»
 
Astrid Panizza – a.panizza@ladigetto.it
(Puntate precedenti)

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