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Giovani in azione: Giulia Maule – Di Astrid Panizza

Fibrosi cistica e nuovi orizzonti: la ricerca che sta portando avanti al Cibio di Trento nel suo dottorato in biotecnologie

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Giulia Maule. Nelle foto seguenti è col gruppo di lavoro.

Ieri abbiamo pubblicato l’intervista fatta dalla nostra giornalista Nadia Clementi al direttore del Cibio, prof. Alessandro Quattrone (vedi).
La pubblicazione sta già avendo un importante successo, sia per il numero di accessi che il pezzo sta avendo, sia per le problematiche che sta sollevando a livello politico.

Oggi è la volta della nostra Astrid Panizza che, per la sua rubrica «Giovani in azione», ha intervistato invece una dottoranda del Cibio.
Consigliamo di leggere entrambi i colloqui, perché nell’insieme emerge un quadro molto interessante di uno dei più importanti istituti di ricerca del Trentino.

Giulia Maule è una ricercatrice che sta seguendo un dottorato presso il Centro di Biologia Integrata (CIBIO) di Povo di Trento, un centro di ricerca all’avanguardia, promosso dall’Università di Trento e dalla Provincia Autonoma, dove si respira aria di freschezza e innovazione.
Spiegare in poche parole ciò di cui si occupa il Cibio non è cosa semplice. Possiamo comunque dire, che nelle attività del centro si fonde la biologia cellulare e molecolare classica con i nuovi potenti strumenti della biologia dei sistemi e la biologia sintetica.
E tutto ciò avviene attraverso un approccio altamente interdisciplinare in chimica, fisica, informatica, matematica e ingegneria.
«Attualmente sto finendo il dottorato in Biotecnologie che concluderò a maggio, – ci confida Giulia. – Qui è bello perché l’ambiente è altamente collaborativo, ma anche perché al Cibio siamo tutti giovani, ci confrontiamo e ci scambiamo opinioni in maniera diretta e leale, cercando assieme di arrivare a un risultato comune.»
 
Quale è il risultato che volete ottenere? E tu, in particolare, di cosa ti occupi?
«Il progetto su cui sto lavorando riguarda la ricerca di una possibile cura per la fibrosi cistica. Finora abbiamo raggiunto dei risultati a livello di laboratorio che devono però ancora essere testati su animali o persone.
«Quello che facciamo noi, usando parole semplici, è correggere la parte del DNA malato tagliandolo con la “CRISPR/Cas” (che noi chiamiamo semplicemente Cas), una molecola in grado di effettuare questo tipo di operazione grazie a linee guida date dal ricercatore.
«La Cas, dopo aver tagliato il DNA, lo modifica in maniera casuale. Per questo motivo non la si può ancora usare per correggere tutte le mutazioni. Al momento effettuiamo queste ricerche solo su organoidi, cioè delle parti robotiche che simulano tessuti umani.
«Il grande problema che abbiamo è la difficoltà di portare la Cas nei tessuti che sono affetti dalla malattia. Quello che sappiamo è che una volta che la Cas è nella cellula, la ripara. Tuttavia rimane ancora in sospeso per ora la quantità delle cellule che siamo in grado di raggiungere nel paziente.
«Questa, sostanzialmente, è la domanda più importante alla quale con la ricerca cerchiamo di dare delle risposte concrete.»
 

 
Da quanti anni state effettuando questo studio?
«L'ho iniziato io con la mia tesi magistrale, nel 2016. O meglio, io ho semplicemente chiesto al mio professore di fare una tesi genica con un approccio teso a curare le malattie non in maniera farmacologica, ma permanente, e lui mi ha proposto questo tema.
«È nata poi una collaborazione con l'Università di Leuven, in Belgio, la quale dispone di organoidi che in realtà durante la tesi non ho neppure visto, ma sui quali durante il mio dottorato ho avuto modo di sperimentare le mie ricerche.
«È stata un’idea che mi ha appassionato molto, fin dall'inizio. Il lavoro di laboratorio è sempre svolto in team, e per questo non ti trovi mai da solo nel progettare gli esperimenti o le tecniche da utilizzare. Poi, nella pratica, ognuno ovviamente fa la sua parte, ma alla fine però ti ritrovi insieme e confronti i tuoi risultati con quelli degli altri.
«Quando ho cominciato il dottorato, in laboratorio eravamo in quattro e io ero l'unica dottoranda assieme a tre post-doc, ovvero ricercatori che dopo il dottorato hanno deciso di continuare nel mondo della ricerca. Questa circostanza, in un certo senso, è stata la mia salvezza perché, pur con tanta fatica, sin dall’inizio mi ha spronata a studiare con impegno per riuscire a comprendere la materia di ricerca, cosa che è avvenuta poi con il tempo.
«Quando tre anni fa abbiamo iniziato, non avevamo grandi finanziamenti. Adesso, invece, la sensibilizzazione è aumentata rispetto alla ricerca sulla fibrosi cistica e quindi iniziano ad arrivare i primi risultati concreti. Inoltre i ragazzi che sono in laboratorio con me ora sono tutti giovani, e con noi ci sono due dottorandi che hanno appena iniziato.
«Pensa, adesso io sono quella che è lì da più tempo.»
 
Quando alla sperimentazione seguono risultati negativi, o neutrali, come vi comportate?
«In quei momenti tutto sta nel capire se il risultato sia davvero negativo perché il tuo trattamento non funziona, oppure se ci siano in gioco variabili esterne, o ancora se sia da ricondurre l’esito ad un problema tecnico.
«È per questo che si fanno tante prove e, una volta individuato il problema, cerchi un'altra strategia, oppure si cambia approccio, si cerca di analizzare la questione da un’altra parte. In altre parole, dopo tutte queste valutazioni, non ci si arrende: si ricomincia da capo.
«Perché non sai mai cosa aspettarti dalla ricerca, puoi metterci tutto te stesso ma il risultato finale può non dipendere da te.
«Comunque l'ansia c'è sempre. Le prime volte che guardavo i risultati base, mentre aspettavo l'immagine sulla macchina, continuavo a sperare che tutto andasse bene, che fosse la volta buona.
«Speravo con tutta me stessa che i risultati fossero promettenti ed ogni volta rimanevo con il fiato sospeso fino a quando non vedevo il risultato scritto sullo schermo.
«Sono molto restia, tuttavia, a credere al primo colpo ai risultati ottenuti. Provo e riprovo molte volte fino a che non sono del tutto sicura. Rimanere sempre con i piedi per terra è una mia caratteristica.»
 

 
Parlando di piedi per terra, quale sarà il prossimo passo ora che questa ricerca di laboratorio è risultata positiva?
«Per il momento siamo in pausa perché non abbiamo altri strumenti immediati per continuare la ricerca. Il prossimo passo sarebbe testare quest'analisi su animali della grandezza di un maiale, per esempio, per simulare tessuti simili a quelli umani.
«Abbiamo un mega-progetto fatto di tante piccole parti, quindi ce le siamo divise e stiamo lavorando sulla mutazione dei geni.
«Come ti ho descritto finora, abbiamo puntato sulla fibrosi cistica durante questi ultimi anni, noi in particolare sul Crispr/Cas, quindi tendiamo a cercare le cure continuando a battere la stessa strada che sappiamo è possibile applicare anche ad altre malattie.»
 
C'è una ragione particolare per cui hai scelto le biotecnologie?
«Finite le superiori brancolavo nel buio, mi piacevano le materie scientifiche e ho scelto ingegneria biomedica a Padova, ma è stata una mazzata. Quindi ho mollato, rendendomi conto che non era proprio quello che volevo fare. Lì ho avuto un po' di tempo per guardarmi intorno. L'anno dopo ho fatto il test a Biotecnologie a Povo e sono entrata lì. A posteriori posso dire che non avrei potuto fare scelta migliore.
«Ammetto, però, di avere fatto molta fatica durante la triennale, mentre la svolta decisiva che mi ha fatto innamorare delle biotecnologie è stato il tirocinio. Sono arrivata in laboratorio che ero stufa e non avevo più voglia di studiare. Ma poi, ho cominciato a lavorare in quest'ambiente e... come vedi sono ancora qui.»
 

 
La ricerca, sappiamo, costa molto, anche per questo sono nate molte iniziative pubbliche per sostenere lo Stato in questo settore socialmente strategico. Da voi, al Cibio come funzionano i finanziamenti per la ricerca?
«Siamo noi direttamente che dobbiamo muoverci. Partecipiamo a grants, cioè a dei concorsi europei. Elaboriamo in equipe una progettazione e trasmettiamo poi la domanda all’organismo europeo competente. Solo qualche tempo dopo sappiamo se il nostro progetto è stato ammesso oppure no. In caso positivo, si può dare inizio alla ricerca, grazie ai finanziamenti che sono stati ottenuti.
«Poi, ti dirò, nel corso del tempo la tipologia della ricerca va a periodi alterni. Ad esempio anni fa molti fondi stanziati erano a favore della ricerca sull'HIV, ora, invece, è più facile che vi siano finanziamenti per altri tipi di studi, come appunto quello sulla fibrosi cistica che stiamo portando avanti noi.
«Se fosse per me lavorerei in laboratorio tutta la vita. Mi piace molto fare ricerca, ricercare nel vero senso della parola, vedere come le varie cellule reagiscono ai mutamenti. È un lavoro fantasioso, molto difficile a volte, ma che dà davvero tanta soddisfazione quando poi vedi che i risultati positivi arrivano e che sono apprezzati anche all’esterno. In questo senso la cosa più strana che mi è capitata è vedere il mio nome su di un articolo scientifico importante, magari uno simile a quelli che ho studiato quando ancora facevo l'Università.
«Quello che facciamo noi, devo dire, è comunque solo la fase preliminare di ricerca, non arriviamo direttamente alla cura. Ci sono tantissimi fattori da valutare e da sistemare, ma con le nuove tecnologie di cui disponiamo oggi la ricerca viaggia molto più velocemente rispetto a prima, quando dalla fase preliminare alla cura vera e propria passavano decine di anni.
«Il futuro è dunque positivo, ma richiede ancora del tempo. La cosa buona della Cas è che è stata scoperta solo pochi anni fa e in così poco tempo la ricerca è già avanzata sensibilmente tanto da poter essere applicata in varie malattie.
«Questo è ciò che dà speranza agli ammalati e anche a noi che con le nostre ricerche cerchiamo di aiutarli. Perché in questo lavoro, credimi, se non sei convinto in quello che fai non vai molto avanti.»
 
Astrid Panizza – a.panizza@ladigetto.it
(Puntate precedenti)


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