Home | Rubriche | Parliamone | La molecola che ci protegge dal Covid-19 – Di Nadia Clementi

La molecola che ci protegge dal Covid-19 – Di Nadia Clementi

Ne parliamo con il dottor Alberto Beretta medico, ricercatore, immunologo

image

>
I risultati di due ricerche pubblicate sulla rivista Science dello scorso 24 settembre svelano il ruolo chiave nella protezione contro la COVID-19 dell’interferone, una delle molecole più importanti nella difesa contro le infezioni virali.
La prova viene da analisi genetiche e dalla scoperta che pazienti con forme gravi di COVID-19 hanno anticorpi che, bloccando l’interferone, impediscono al sistema immunitario di difenderci. Una scoperta che apre nuovi scenari terapeutici e che insegna come identificare i soggetti più a rischio.
L’interferone è la più importante molecola dell’immunità innata, quella capace di difendere le cellule dall’attacco di un virus stimolando una catena di eventi molecolari che portano a un vero e proprio smantellamento del virus.
Ma questa è una vecchia conoscenza degli immunologi. Al punto che hanno già a disposizione farmaci a base di interferone impiegati per la terapia di varie malattie virali.
 
Per saperne di più abbiamo contattato il dott. Alberto Beretta medico ricercatore immunologo. Il dott. Beretta ha svolto le sue prime ricerche all’Istituto Karolinska di Stoccolma, dove ha conseguito il suo dottorato di ricerca e presso l’Istituto Pasteur di Parigi dove ha collaborato con il gruppo di ricerca che ha scoperto il virus HIV.

È stato poi responsabile di una unità di ricerca su HIV all’Ospedale San Raffaele di Milano. Da due anni ha fondato, con un gruppo di colleghi medici e ricercatori, una iniziativa per promuovere l’invecchiamento in salute facendo leva sulle nuove ricerche sulla longevità e sui meccanismi che portano il sistema immune del soggetto anziano a non essere più competente a rispondere alle aggressioni virali.
 
Dottor Beretta, cosa succede quando il Covid-19 attacca l’organismo?
«L’infezione con il nuovo coronavirus (SARS-CoV-2) ha, come tutti sappiamo, delle manifestazioni variabilissime che vanno dalla completa assenza di sintomi fino alla vera e propria malattia (la COVID-19: coronavirus-disease-19) che può portare fino al decesso.
«Il motivo per il quale la maggior parte delle persone rimangono in uno stato di piena salute e assenza di sintomi dopo l’incontro con il virus ancora non è conosciuto. È molto probabile che entri in gioco quella che chiamiamo immunità naturale, un insieme di meccanismi di difesa pronti a intervenire senza ritardo, come invece accade per le altre forme di immunità, gli anticorpi o le cellule T che richiedono tempo per organizzarsi ed entrare in azione (l’immunità acquisita).
«L’immunità naturale è molto efficace nei bambini e nei giovani ma con il tempo tende a perdere efficacia. Ma esistono altre variabili che entrano in gioco. Anche la capacità di generare anticorpi e cellule T decade con il tempo.
«Gli anziani, come tutti sappiamo, sono molto suscettibili alla COVID-19. La loro tendenza a sviluppare forme gravi di malattia è probabilmente una conseguenza di una perdita di efficacia di entrambe le braccia del sistema immunitario (immunità innata, anticorpi e cellule T).
«Il problema è che, paradossalmente, gli anziani tendono ad avere il sistema immune in uno stato di costante attivazione a causa di un accumularsi con il tempo di alterazioni anche di tipo metabolico (un esempio su tutti: il diabete di tipo 2 o più semplicemente il prediabete e l’insulino-resistenza associati ad obesità e stili di vita scorretti) che a loro volta generano uno stato infiammatorio cronico spesso asintomatico.
«Quando il virus entra in contatto con le cellule delle nostre mucose o degli alveoli polmonari, scatena, se nel frattempo non entrano in funzione i meccanismi di difesa, una reazione infiammatoria che può distruggere gli stessi tessuti e che è tanto più devastante quanto più il sistema già si trovava in uno stato di infiammazione prima dell’incontro con il virus.
«La COVID-19 è, di fatto, una malattia infiammatoria acuta sistemica che attacca non solo i polmoni ma anche tanti altri tessuti.»
 

Virus e difese immunitarie, un equilibrio delicato.

Come si comporta il nostro sistema immunitario quando incontra il coronavirus?
«Possiamo semplificare la reazione del sistema immunitario all’incontro con il virus descrivendola in due fasi successive: la prima è una fase di difesa, la seconda una fase di autodistruzione.
«Inizialmente, nella fase di difesa, entra in funzione l’immunità innata. Se il virus vince contro questa prima linea di difesa entra a sua volta in funzione l’immunità acquisita, in modo particolare gli anticorpi. Se gli anticorpi prodotti sono quelli giusti (ritorniamo su questo concetto fra poco), il risultato è il contenimento del virus e la guarigione del paziente.
«Se gli anticorpi non sono del tipo giusto, il virus non trova più ostacoli e dilaga. A questo punto si scatena la seconda fase, quella della autodistruzione del sistema.
«È un fenomeno complesso ma che si può semplicemente descrivere come un vero e proprio fuoco amico. Mi spiego.
«Normalmente le cellule del sistema immunitario, per contenere un’infezione virale, si mandano dei segnali fra di loro per cercare aiuto. Questi segnali, delle vere e proprie molecole messaggere (chiamate citochine) servono ad attivare vari tipi di cellule che tutte insieme, provocano uno stato di infiammazione localizzata che blocca il virus.
«Ma se anche questa difesa non funziona, il sistema entra in una fase di surriscaldamento nella quale di citochine se ne producono troppe e scatenano una vera e propria tempesta immunitaria che devasta il tessuto.
«Non a caso, oggi, i farmaci che hanno dimostrato la migliore efficacia a contenere la malattia sono farmaci immunosoppressori come il desametasone e farmaci capaci di bloccare una o due delle varie citochine che vengono reclutate nella fase iniziale.
«Nei prossimi mesi avremo conferme sull’efficacia di questi farmaci e indicazioni precise su come e quando utilizzarli.»
 

 
Perché questo virus è così pericoloso?
«La pericolosità di questo virus è legata alla sua capacità di neutralizzare con poche mosse le nostre difese utili e, contemporaneamente, stimolare quelle inutili.
«Un esempio di difesa utile sono gli interferoni, molecole che tutte le cellule hanno a disposizione per distruggere il virus quando entra nella cellula. Ebbene, il virus, nel momento stesso in cui entra nella cellula, riesce a bloccare completamente la produzione di interferone. Il problema è che, nello stesso momento il virus attiva la produzione di molecole che normalmente hanno una funzione di difesa importante ma, in condizioni di iperattivazione come quella stimolata dal virus, diventano dannose.
«Sono le chemochine, che chiamano intorno alla cellula infettata altre cellule e scatenano la risposta autodistruttiva. Tutto questo riguarda la pericolosità del virus una volta che ha contagiato una persona.
«Ma c’è un altro fattore che lo rende molto pericoloso. La sua capacità di passare da un individuo all’altro sfruttando l’aerosol prodotto dalla respirazione e accentuato da un semplice starnuto e colpo di tosse. Spesso anche da individui assolutamente asintomatici.
«Il motivo per il quale stiamo assistendo ad un dilagare del virus nel mondo è questa sua capacità di nascondersi dietro un’apparente normalità. Se per esempio consideriamo gli altri due virus cugini del SARS-CoV-2, il virus della SARS e quello della MERS, parliamo di virus molto più letali (nel caso della MERS abbiamo osservato una letalità del 35%) ma che si diffondono solo da soggetti sintomatici. Questo ha reso molto facile il contenimento delle prime due epidemie. Cosa invece molto difficile con il SARS-CoV-2 che viene diffuso anche da soggetti completamente asintomatici.»
 


Quali sono le nuove scoperte sul fronte dell'immunologia? Ci parla delle sue ultime ricerche?
«Ogni giorno vengono pubblicati i risultati di nuove ricerche su questo virus. Siamo ormai arrivati alla cifra record di 55.000 articoli scientifici pubblicati da gennaio ad oggi. Difficile fare delle scelte di priorità. Personalmente ritengo che uno dei lavori più importanti pubblicati recentemente sia quello del gruppo di Lorenzo Piemonti e Vito Lampasona del San Raffaele.
«Studiando gli anticorpi prodotti dai pazienti ospedalizzati, hanno dimostrato che i pazienti che sono stati capaci di produrre gli anticorpi giusti sono poi guariti. Sembra banale ma è una scoperta molto importante. Fino a poche settimane fa non sapevamo ancora se questo tipo di anticorpi ci proteggeva dalla malattia. Lo supponevamo ma non ne avevamo una prova concreta.
«Spiego prima cosa intendo con l’aggettivo utile per un anticorpo. Per bloccare il virus un anticorpo deve essere capace di legarsi con forza ad una piccola parte del virus, quella che permette al virus di legarsi al suo recettore sulle cellule, la molecola ACE2. Sui pittogrammi del virus riconoscete facilmente una struttura a forma di funghetto, la proteina Spike.
«È lei che si aggancia al recettore. Ma in realtà, della proteina Spike solo una piccolissima parte serve ad attaccarsi al virus. Si chiama RBD (tralascio i dettagli). Ebbene, dei vari anticorpi che il nostro sistema produce contro il virus solo quelli capaci di legarsi al RBD sono utili perché impediscono al virus di entrare nella cellula. Tutti gli altri anticorpi sono o inutili o, addirittura, dannosi.
«La scoperta che i pazienti che guariscono sono quelli che producono gli anticorpi utili spiana la strada allo sviluppo sia del vaccino che di nuovi farmaci. Non a caso, la stampa ha definito questi anticorpi come superanticorpi e se ne è parlato tantissimo negli ultimi giorni.
«Ma veniamo agli altri anticorpi, quelli che io chiamo inutili. Da mesi mi occupo di loro. Non perché li trovo particolarmente attraenti (se ne farebbe volentieri a meno) ma perché, insieme a un paio di colleghi, abbiamo analizzato i dati sierologici pubblicati finora non solo sulla COVID-19 ma anche sulla SARS e la MERS. E ci siamo accorti che un numero ragguardevole di pazienti, quelli che hanno il decorso clinico peggiore, produce una grande quantità di anticorpi e anche in tempi molto rapidi.
«Ma, per un motivo che è ancora da capire, questi anticorpi non servono a nulla. Anzi, abbiamo buone ragioni di credere che possano peggiorare la situazione aggravando proprio quella risposta infiammatoria che causa la malattia.
«Le origini di questi anticorpi sono ormai note: si tratta di anticorpi che il nostro organismo produce quando incontra gli altri coronavirus, quelli che circolano normalmente nella stagione invernale e che causano spesso niente di più di un banale raffreddore. Quando poi avviene l’infezione con il SARS-CoV-2, il sistema immune crede di avere a che fare con un banale raffreddore e produce anticorpi che non servono a niente.
«Stiamo lavorando a questa ipotesi da qualche mese. Potrebbe spiegare, fra le altre cose, la diversa aggressività della COVID durante la stagione invernale. In ogni caso adesso sappiamo che tutti, chi più chi meno, siamo in grado di fare gli anticorpi giusti e che potremo presto stimolare la loro produzione con un vaccino. Il ruolo degli altri anticorpi andrà chiarito.»
 

Dalla genetica le informazioni sulla molecola che ci protegge: interferons.


Ci spiega in parole semplici la funzione della molecola dell’interferone nel nostro organismo?
«Più che di interferone occorre parlare di interferoni. Perché abbiamo a che fare con una vera e propria classe di proteine, tutte un po' diverse fra di loro, ma che svolgono, con modalità differenti funzioni molto simili: difendere l’organismo dai virus e potenziare il sistema immunitario.
«Conosciamo tre tipi diversi di interferoni. Il primo e il terzo sono quelli che ci interessano in questo momento. Per un motivo molto semplice: sono loro il bersaglio preferito del virus che, quando entra nella cellula, li disattiva. Se li disattiva evidentemente li teme. Una delle ricerche recenti più importanti per la comprensione della COVID-19 ha dimostrato che persone che hanno mutazioni genetiche che rendono inefficace l’azione dell’interferone di tipo 1 sono particolarmente suscettibili a sviluppare forme gravi di COVID-19.
«Nello stesso giorno, sono apparsi su Science i risultati di una ricerca che ha identificato, nel sangue di pazienti con forme gravi di COVID-19, anticorpi capaci di bloccare l’interferone. Uno in particolare, l’Interferone alfa. Sull’origine di questi anticorpi abbiamo per ora solo ipotesi.
«È importante sapere però che non è il virus ad indurre la loro produzione, perché li troviamo anche in persone che non hanno mai visto il virus. Ma questi dati ci aiutano a tracciare una strada molto promettente perché ci dicono che l’interferone di tipo 1 è una molecola importantissima nella difesa contro il virus.
«La cosa ancora più interessante è che, di interferoni di tipo 1, ne conosciamo molto bene due sottotipi. Il primo, il sottotipo alfa viene bloccato dagli anticorpi, ma non il secondo, il beta.
«La bella notizia è che l’interferone beta è già disponibile come farmaco registrato e può rapidamente essere testato sui pazienti COVID-19. Non solo, due giorni fa è stata pubblicato sul New England Journal of Medicine uno studio sull’impiego dell’interferone beta combinato a due farmaci antivirali in pazienti affetti da MERS (che è una malattia simile alla COVID-19 ma molto più grave).
«I pazienti trattati con l’interferone beta hanno avuto una riduzione della mortalità del 50%!»

Quali sono le nuove strategie anti-virali per combattere la malattia? Saranno basate sul potenziamento del sistema immunitario? Se sì perché?
«Allo stato attuale delle nostre conoscenze possiamo contare su un solo farmaco anti-virale che ha dimostrato una certa efficacia: il Remdesivir. Parziale ma utile. Ma fra poco avremo a disposizione i dati dagli studi clinici con i nuovi anticorpi monoclonali capaci di bloccare il virus prima che entri nelle cellule. S
«Stiamo parlando dei superanticorpi a cui accennavo prima. Non abbiamo ancora dati pubblicati, ma da indiscrezioni pare che siano molto efficaci anche, e questa è la vera buona notizia, quando somministrati nelle fasi molto precoci della malattia.
«Devo aggiungere che tutte le conoscenze che abbiamo su questa nuova classe di farmaci derivano dai 30 anni di ricerche sull’AIDS che ci hanno insegnato moltissimo. Oggi per esempio già sappiamo che questi farmaci hanno una emivita molto lunga nel sangue. Una volta iniettati restano in circolo anche per un mese. Non è pertanto inverosimile pensare che avremo presto a disposizione farmaci utilizzabili per la profilassi dell’infezione. Sarebbe una svolta enorme.
«In ogni caso è ormai chiaro che i farmaci antivirali dovranno essere utilizzati nelle fasi molto precoci della malattia, fino dai primi sintomi, perché se lasciamo la strada libera al virus, lui ne approfitta per scatenare quella risposta immunitaria autodistruttiva sulla quale siamo poi obbligati ad intervenire con i farmaci immunosoppressori, sempre che non sia troppo tardi.
«La scommessa è quella di avere in mano uno o più farmaci da utilizzare subito.»

A questo punto la domanda è d’obbligo, come possiamo rafforzare le nostre difese immunitarie contro il coronavirus?
«Qui si apre un discorso complesso ma molto interessante. Anche se controintuitivo, l’idea di stimolare il sistema immunitario con i classici immunostimolanti, potrebbe essere controproducente. La maggior parte degli immunostimolanti che si trovano in farmacia agiscono stimolando la produzione di quelle citochine infiammatorie che, quando prodotte in eccesso, aggravano la malattia. Il loro impiego indiscriminato e senza controllo medico potrebbe avere conseguenze negative, in modo particolare quando il soggetto è già stato infettato dal SARS-CoV-2 e la risposta infiammatoria al virus è iniziata.
«Questo non vuole dire che non abbiamo a disposizione molecole utili anche dal mondo delle piante. Anzi.
«Le faccio un esempio: da anni sappiamo che il vino rosso contiene una sostanza, il resveratrolo, che ha effetti benefici su una lunga lista di meccanismi metabolici e immunitari. In commercio si trovano numerosi prodotti a base di resveratrolo. Abbiamo anche dati che indicano che potrebbe avere una attività anti-virale contro il SARS-CoV-2.
«Ma il problema è che il resveratrolo non ha quella che in termini tecnici si definisce, una buona biodisponibilità, perché non riesce ad entrare nelle cellule dove dovrebbe fare il suo lavoro.
«Qui ci viene in aiuto una ricerca, tutta trentina, fatta dal collega Fulvio Mattivi dell’Università di Trento, che, stiamo parlando degli ultimi anni 90, ha scoperto una molecola molto simile al Resveratrolo, la Polidatina, che ha gli stessi effetti sulle cellule del resveratrolo ma ha in più il vantaggio di avere un’ottima biodisponibilità.
«Insieme ad un gruppo molto agguerrito di colleghi stiamo lavorando sulla Polidatina e su altre molecole che hanno questa squisita capacità di modulare (non attivare) il sistema immunitario e, allo stesso tempo, ridurre la capacità offensiva del virus. Il passo successivo sarà quello di verificarne l’efficacia in studi clinici randomizzati.»
 
A che punto siamo con le terapie somministrate ai malati Covid?
«A oggi abbiamo tre farmaci la cui efficacia è stata dimostrata con ragionevole certezza: il desametasone, l’eparina e il Remdesivir. Il primo, come anticipato, è impiegato come anti-infiammatorio solo in pazienti con una compromissione iniziale della funzionalità respiratoria. Il suo impiego nelle fasi iniziali della malattia non è raccomandato.
«Diverso è il discorso per l’eparina e il remdesivir. In ogni caso stiamo parlando di protocolli terapeutici che sono in fase continua di revisione. Si è parlato molto, spesso a sproposito, della idrossiclorochina ma ormai tutti gli studi clinici disponibili ne hanno dimostrato l’inefficacia nelle fasi iniziali e, peggio, un effetto di aumento della mortalità se presa nelle fasi avanzate della malattia.
«Un discorso a parte lo merita la terapia con il plasma dei convalescenti. Anche in questo caso l’eccessiva mediatizzazione ha creato aspettative che rischiano di essere deluse. Un enorme studio americano su 10.000 pazienti trattati con il plasma ha dato risultati contradditori. La ragione di questo parziale fallimento (o successo, a seconda di come si interpretano i dati) è da ricercare in quel fenomeno che ho descritto sopra. Quando una persona si infetta con il SARS-CoV-2 può fare anticorpi utili o anticorpi inutili (se non dannosi).
«In linea generale, i pazienti convalescenti, sono persone che hanno superato la malattia proprio grazie alla loro capacità di produrre anticorpi utili. Ma non è sempre così. I fattori che determinano il successo terapeutico su un paziente COVID sono numerosi. Senza avere a disposizione tecniche di laboratorio standardizzate e disponibili a tutti i centri trasfusionali che permettano di identificare con precisione il donatore ideale di plasma, in base alla presenza nel suo plasma di anticorpi utili, i risultati saranno sempre imprevedibili e, sui grandi numeri, difficili da interpretare.
«In altre parole, senza una vera standardizzazione del metodo di produzione del plasma, la terapia sarà sempre una scommessa per il paziente. Non solo, gli anticorpi tendono a scomparire dal plasma dopo 3-4 mesi.
«Questo vuole dire, per esempio, che i pazienti convalescenti da una malattia avuta in primavera non saranno disponibili per donare il plasma in autunno inverno. È possibile immaginare una situazione in cui, nel caso di una nuova ondata epidemica, non avremo abbastanza donatori per far fronte all’aumento dei pazienti.
«La risposta a questo problema è già in arrivo: sono gli anticorpi monoclonali. Una volta isolati e una volta provata la loro efficacia terapeutica, possono essere prodotti su larga scala e utilizzati come dei veri e propri farmaci. Ad aprile ne parlavamo come della terapia del futuro. Oggi siamo ad un passo dall’averli a disposizione.»
 
È ipotizzabile che anche chi ha già contratto il virus ed è guarito possa reinfettarsi? Potrebbe valere lo stesso per chi si vaccinerà?
«Per quanto riguarda le possibili reinfezioni abbiamo a disposizione una ventina di casi documentati. Per documentati intendo casi nei quali il sequenziamento del virus alla prima e alla seconda infezione abbia dimostrato chiaramente che si tratta di due virus diversi (per diversi si intende sempre il SARS-CoV-2 ma con alcune mutazioni che li distinguono).
«L’andamento clinico delle reinfezioni è stato molto variabile: da casi in cui la reinfezione è stata più grave della prima infezione a casi in cui è stata meno grave se non asintomatica. In ogni caso, stiamo parlando ancora di casi molto rari sui quali è difficile fare previsioni per il futuro.
«Quello che ancora non sappiamo è il livello di memoria immunologica che rimane dopo una prima infezione e se, nel caso permanga una memoria parziale, possa essere sufficiente a conferire un grado di protezione almeno contro le forme gravi di malattia. Per avere una risposta a questa domanda dovremo attendere qualche mese quando avremo a disposizione i risultati degli studi prospettici in corso.
«Anche il problema della durata della protezione conferita dal vaccino è, per ora, senza risposta, in ragione del fatto che le sperimentazioni sono iniziate a luglio e occorrerà attendere almeno nove mesi per valutare la durata della risposta protettiva.
«Abbiamo a disposizione dati dai vaccini sperimentali della SARS che ci suggeriscono una possibile durata di almeno 9-12 mesi. Ma è ancora presto per dirlo. Ragionevolmente avremo a che fare con un vaccino da ripetersi annualmente.»
 
Secondo lei è giusto quello che stiamo facendo per contenere l'epidemia?
«Personalmente credo che l’Italia abbia saputo contenere l’epidemia molto meglio di tanti altri paesi. E questo risultato lo dobbiamo ad una serie di decisioni giuste sui tempi e le modalità del lock-down ma anche ad una notevole e sorprendente disciplina degli italiani.
«A oggi, l’unico modo di contenere l’epidemia è l’impiego delle mascherine, del distanziamento fisico, e del tracciamento rapido dei clusters.
«Vedremo se il sistema sarà in grado di reggere l’urto di una probabile seconda ondata invernale. Per il momento non vedo alternative a queste soluzioni.»
 
Il vaccino porterà all'immunità di gregge solo se lo faranno tutti?
«L’immunità di gregge si ottiene quando almeno il 90% della popolazione è vaccinata con un vaccino che conferisca una protezione stabile nel tempo. In tutta franchezza non credo che arriveremo mai a questo traguardo.
«Per una serie di motivi, primo fra tutti una notevole diffidenza della gente a vaccinarsi che sarà difficile vincere. In ogni caso fino a quando non avremo a disposizione dati da studi di lunga durata e su numeri importanti di volontari non potremo fare previsioni serie.»

In attesa del vaccino cosa si può fare o non fare?
«In attesa del vaccino possiamo fare due tipi di prevenzione: la prevenzione dell’infezione e la prevenzione della malattia. Le regole per prevenire l’infezione le conosciamo tutti: mascherine, distanziamento fisico, e così via. Non insisto.
«Diverso è il discorso sulla prevenzione della malattia: in altre parole, come evitare di fare una COVID-19 grave nel caso in cui ci si infetti. Qui il discorso è un po' più complesso perché molto dipende da fattori come l’età e il sesso, oltre che da eventuali altre patologie di cui già si soffre.
«Prendiamo per semplicità l’esempio di una persona di 60 anni, un’età associata ad un notevole aumento del rischio di COVID-19.
«La prima cosa da fare è adattare lo stile di vita in modo da ridurre l’impatto di fattori come sovrappeso/obesità (l’obesità è un fattore di rischio molto importante per la COVID), fumo, ipertensione, diabete di tipo 2. Tutte situazioni che si possono facilmente evitare con alcune semplici regole: mangiare meno e meglio, fare attività fisica regolare, tenere sotto controllo l’infiammazione sistemica.
«Su questo ultimo aspetto ci possono venire in aiuto alcune molecole di derivazione naturale con attività anti-infiammatoria. Una ricerca recente ha dimostrato che nelle persone oltre i 60 anni si riscontrano spesso quelle alterazioni del sistema immunitario tipiche della COVID-19 con livelli di infiammazione sistemica elevati. In molto casi basta una giusta dieta anti-infiammatoria combinata con una integrazione con molecole coma la Curcuma o altre simili per ridurre l’infiammazione sistemica.
«Sugli effetti infiammatori della dieta incide molto, come ormai tutti sappiamo, la composizione della flora intestinale, il cosiddetto microbioma intestinale. Oggi abbiamo a disposizione test diagnostici molto accurati che ci permettono di stabilire se una persona ha un microbiota sfavorevole o favorevole. In ogni caso è consigliabile consultare un medico e un bravo nutrizionista per scegliere la strada più efficace e, soprattutto, per monitorare i risultati.
«Un altro aspetto secondo me molto importante riguarda la possibilità di allenare la muscolatura respiratoria con esercizi specifici in modo da aumentare al massimo la capacità polmonare. Non dimentichiamo che la conseguenza più frequente della COVID-19 è la perdita di capacità polmonare, molto difficile da recuperare perché è causata da processi fibrotici irreversibili.
«È chiaro che quando la COVID colpisce un polmone che, per varie ragioni, parte da una situazione compromessa, le conseguenze possono essere molto gravi. Aumentare la capacità polmonare vuole dire ridurre il rischio di mortalità e di sequele gravi in caso di malattia.»
 

Fulber, Fulvio Bernardini.
 
Come ultima domanda Le chiedo di rilasciare un breve commento in merito alla pubblicazione «Racconti molecolari» di Fulvio Bernardini (Fulber) stimato fumettista Trentino.
«Fulvio Bernardini ha una capacità incredibile di rappresentare sistemi complessi in un modo molto semplice. I suoi racconti molecolari sono un esempio di come si possa facilmente trasmettere ai nostri bambini una informazione scientifica di altissimo livello su un tema così delicato come quello delle difese contro un virus.
«Da quando ho iniziato la mia collaborazione con Fulvio sulla mia pagina facebook Immunologia Oggi ho avuto un riscontro di interesse incredibile e, più importante, sono riuscito a trasmettere messaggi complessi ad una platea generale che ha tanto bisogno, in questo momento particolare, di cose semplici e chiare.»
 
Nadia Clementi – n.clementi@ladigetto.it
Dottor Alberto Beretta - alberto.beretta@solongevity.com
 
Contatti: Alberto Beretta MD PhD
President & Chief Scientific Officer - via Arrigo Boito 8, 20121 Milano Italy - www.solongevity.com
Immunologia Oggi Dr Alberto Berettahttps://www.facebook.com/alberto.beretta.immunologo/

Condividi con: Post on Facebook Facebook Twitter Twitter

Subscribe to comments feed Commenti (2 inviato)

avatar
Yaroslava 20/08/2021
Quando è stata rilasciata questa intervista? Non ho trovata nessuna data della pubblicazione?

Risponde la redazione: La data c'è sempre sotto il titolo a destra.
Thumbs Up Thumbs Down
0
avatar
Federica 06/08/2021
Una curiosità: faccio terapia con interferone per sclerosi multipla, è possibile che questo farmaco abbia aumentato la produzione di anticorpi post vaccinazione COVID?! Ho fatto il sierologico e risultano 4350 anticorpi (scala da 50.0 positiva).
Thumbs Up Thumbs Down
0
totale: 2 | visualizzati: 1 - 2

Invia il tuo commento comment

Inserisci il codice che vedi sull' immagine:

  • Invia ad un amico Invia ad un amico
  • print Versione stampabile
  • Plain text Versione solo testo

Pensieri, parole, arte

di Daniela Larentis

Parliamone

di Nadia Clementi

Musica e spettacoli

di Sandra Matuella

Psiche e dintorni

di Giuseppe Maiolo

Da una foto una storia

di Maurizio Panizza

Letteratura di genere

di Luciana Grillo

Scenari

di Daniele Bornancin

Dialetto e Tradizione

di Cornelio Galas

Orto e giardino

di Davide Brugna

Gourmet

di Giuseppe Casagrande

Cartoline

di Bruno Lucchi

L'Autonomia ieri e oggi

di Mauro Marcantoni

I miei cammini

di Elena Casagrande