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A 59 anni dalla tragedia del Vajont – Di Nadia Clementi

Abbiamo raccolto la testimonianza di Arnaldo Olivier, classe 1946, uno dei sopravvissuti alla furia dell’acqua di quella sera del 9 ottobre 1963

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Foto aerea del Vajont scattata ai giorni nostri. Si vede l'invaso pieno di terra e la diga tuttora in piedi.

59 anni fa persero la vita 1.917 persone nel disastro del Vajont, una ferita che non può essere considerata chiusa ma che si aggiunge alle attuali tematiche ambientali.
Quanto è successo può servire a favorire la creazione di una consapevolezza collettiva riguardo l’antropizzazione dei nostri territori, affinché le future progettazioni e la realizzazione di opere garantiscano la sicurezza dell’uomo e del suo ecosistema.
Quella del Vajont non fu una catastrofe naturale, ma la conseguenza, prevedibile, di una scellerata opera dell’uomo che, nonostante le avvisaglie e i moniti di alcuni geologi, non prese in dovuta considerazione i rischi di frane nell’invaso.
Infatti non fu il monte Toc a causare la tragedia, ma la negligenza umana.
 

La diga prima e dopo il disastro.
 
È bene sapere cosa accadde quella sera, perché la diga resse.
Era stata costruita da poco e, man mano che l’acqua saliva riempiendo il bacino, i tecnici - che a quanto pare, lo sapevano prima di costruire la diga - si accorsero che avrebbe potuto provocare la frana del monte Toc.
Allora, anziché avvisare anzitutto la popolazione, decisero di svuotare l’invaso. E questa decisione sbagliata provocò il disastro perché, con calare dell’acqua, il versante della montagna cedette.
Erano le 22:39 del 9 ottobre 1963, quando la frana si abbatté sul bacino artificiale provocando un'onda gigantesca che scavalcò la diga, che resse l’urto, portando con sé oltre 270 milioni di metri cubi di acqua, rocce e detriti, che travolsero i paesi di Erto e Casso e poi Longarone, radendolo al suolo così come le frazioni di Pirago, Rivalta, Villanova e, parzialmente, Faé.
 

L'invaso dopo la frana è quasi vuoto.
 
Oltre 1.900 i morti, di cui 1.450 residenti nel comune di Longarone e 487 bambini. Ma si tratta di una stima, perché molti corpi non sono mai stati ritrovati.
Donne, uomini e bambini travolti dall'incontenibile forza di decine di migliaia di metri cubi d'acqua che, con un'onda alta più di duecento metri, hanno scavalcato la diga ultimata solo pochi anni prima, per abbattersi sulle sottostanti abitazioni.
Ancora oggi, nel cuore della gente, è rimasto, indelebile il ricordo di tutto quel dolore; dello smarrimento e della disperazione dei sopravvissuti; dell'orrore dei corpi straziati recuperati dal fango e dalle macerie degli edifici; di quel senso di fragilità, di precarietà e di impotenza che nella notte ha lacerato e sconvolto le coscienze di un disastro annunciato.
 

Arnaldo Olivier.
 
L’ultimo ricordo di quella terribile tragedia che sa di rumore, di fango e di paura, ce lo racconta Arnaldo Olivier, classe 1946, uno dei sopravvissuti alla furia dell’acqua che la sera del 9 ottobre del 1963 travolse la sua casa a Codissago invadendo il piano terra e trascinandolo nel gorgo, segnando per sempre la sua vita.  
Lo abbiamo conosciuto visitando la Diga del Vajont lo scorso mese di agosto.
 
Arnaldo, la sera del 9 ottobre 1963 si trovava al bar del suo paese, dove all’epoca c’era la televisione e quella sera trasmettevano la finale in differita di Coppa dei Campioni Real Madrid - Rangers Glasgow. Sul due a zero per il Real, inspiegabilmente, ricorda di aver avvertito una strana sensazione che gli suggeriva di rientrare a casa.
Quella decisione si rilevò poi, essere la sua fortuna e la salvezza dei suoi genitori.

Arrivato a casa, mentre si preparava per andare a letto, improvvisamente, è saltata la luce, e contemporaneamente ha sentito un forte rumore, indefinibile, che gli fece pensare all’arrivo di un terremoto.
Sente le grida della mamma e la cerca nel buio, ma nello stesso istante un’enorme ondata d'acqua lo trascina al piano terra tra la sala e la cucina.


 
Arnaldo si sentiva girare come in un mulinello sbattuto tra mobili e pareti. Cinque minuti interminabili di puro di terrore e poi all’improvviso l’acqua iniziava a defluire spingendolo verso l’esterno.
Pensava di essere trascinato a valle e invece, per miracolo, rimase incastrato su un qualcosa che poteva essere il pezzo di muro di una casa. Passa qualche minuto, apre gli occhi e vide passare un detrito che poteva essere un albero, invece era la sua mamma trasportata dall’acqua, fece in tempo a fermarla e assieme rimasero fermi intrappolati tra il fango e i detriti: erano salvi.
Iniziarono a gridare finché il padre di Arnoldo, che causalmente si era salvato anche lui trovandosi  all’ultimo piano della casa, ha subito individuato madre e figlio e con il suo aiuto è riuscito a liberali dal fango e a trascinarli sul pavimento di quello che era rimasto dell’abitazione.
 

 
Arnaldo, racconta con molta commozione qui momenti, ricorda che finita la tempesta di fango, era uscito seminudo da quello che rimaneva della sua casa cercando aiuto. Gridava con disperazione tra le macerie fino all’arrivo dei primi soccorsi che erano giunti velocemente dal Cadore seguiti da quelli di Belluno.
Arnaldo e i genitori furono trasportati velocemente all'ospedale; da quel momento in poi ricorda solo il buio e il rumore delle sirene.
Dopo più di un mese di ospedalizzazione, ne usci talmente traumatizzato che per ben 35 anni non ha più voluto parlare del Vajont, fino all’arrivo di Marco Paolini che con il suo monologo è riuscito a smuovere le coscienze dei sopravissuti.
Così anche Arnaldo con l’aiuto di una psicologa, ha pensato che era importante superare il trauma raccontando alla gente in visita alla diga questa sua importante testimonianza.
 

 
Il Vajont è stata una lezione di vita per lui e per la sua gente che vuole bene al passato e alla sua terra.
La sua testimonianza vuole essere motivo di profonda riflessione, soprattutto oggi sull'urgenza di non sottovalutare i segnali di allarme provenienti dai cambiamenti climatici in atto, dai sempre più frequenti casi di rischio idrogeologico e dai tanti altri pericoli innescati da uno sfruttamento irresponsabile dell'ambiente e delle sue risorse.
 

 
Ricordare questa terribile tragedia significa rappresentare un attestato di gratitudine verso l'instancabile impegno delle forze dell'ordine, dei vigili del fuoco, dei militari, degli operatori sanitari e di tutti i volontari che si adoperarono con ogni mezzo per prestare i primi soccorsi e per mettere in sicurezza i luoghi. Ma significa anche rendere merito all'incredibile capacità dimostrata da questa terra di sapersi risollevare e di trovare nei suoi abitanti la forza per ricostruire e guardare avanti con nuove speranze.

Il modo migliore di commemorare le quasi 2.000 vittime della tragedia del Vajont è quello di tramandare il loro ricordo alle future generazioni affinché simili catastrofi non accadano mai più.

Nadia Clementi - n.clementi@ladigetto.it

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