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Sinossi della fuga di cervelli – Di Nadia Clementi

La carriera del Prof. Alessandro Iannaccone dall’Italia agli Stati Uniti in un percorso di eccellenza nel campo della medicina, in particolare nell’oculistica

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Torniamo ad occuparci di uno dei mestieri più nobili e difficili del mondo. Tante volte abbiamo scritto di medici e di medicina e altrettante abbiamo scritto di giovani studiosi e professionisti italiani che hanno lasciato il nostro Paese per poter lavorare ed esprimere al meglio il proprio potenziale.
La vita e la carriera di Alessandro Iannaccone parlano di entrambe le cose: dall’Italia agli Stati Uniti in un percorso di eccellenza nel campo della medicina, in particolare nell’oculistica, la disciplina in cui si è specializzato il medico romano trapiantato in North Carolina.
Dopo la laurea in medicina e la specializzazione in Oftalmologia all’Università La Sapienza di Roma, il dottor Iannaccone si è trasferito negli Stati Uniti: nel 1995 è allo Scheie Eye Institute della University of Pennsylvania per effettuare delle ricerche sulle malattie degenerative della retina. Segue poi il Tennessee dove rimane molti anni come Professore Associato e fondatore del Servizio per le Malattie Retiniche Degenerative ed Oftalmogenetica presso l’Hamilton Eye Institute della University of Tennessee Health Science Center a Memphis. Fino alla nomina di Professore Ordinario e Direttore del Centro per la Malattie Retiniche Degenerative Oftalmogenetiche e presso il Duke Eye Center, legato al Duke University Medical Center, a Durham in North Carolina. Un incarico prestigioso in un centro di ricerca e cura nato da poco e di cui il dottor Iannaccone è il primo direttore.
La carriera di Alessandro Iannaccone è davvero ricca e disseminata di premi, pubblicazioni prestigiose, collaborazioni importanti con tutti i maggiori centri medici degli Stati Uniti.
Impossibile riassumerli qui, ma l’importante incarico affidato al dottore italiano a settembre non può che rappresentare il coronamento di un percorso lavorativo caratterizzato dal successo. Un successo che, da buoni italiani, ci piace sentire anche po’ nostro, che ci rende orgogliosi pensando ai tanti giovani che ogni giorno decidono di partire per studiare e lavorare all’estero.
Il dottor Iannaccone si trova da molti anni negli Stati Uniti e forse ne ha assorbito un po’ lo stile. Ecco dunque che nella sua pagina personale sul sito del Duke Health Center troviamo una breve descrizione scritta di suo pugno, niente curriculum o traguardi accademici, ma passione per il lavoro e non solo: «La mia ispirazione per diventare un dottore è arrivata dall’esempio dei miei genitori, entrambi professionisti nel campo della salute.
«Ho visto il mio primo paziente con una sindrome degenerativa complessa della retina quando ero tirocinante di oftalmologia, fu allora che sentii la chiamata nel campo delle degenerazioni della retina e le malattie genetiche.
«Da allora mi concentro principalmente su questo campo ma ho anche un forte interesse per le retinopatie autoimmuni, i problemi vascolari della retina e le degenerazioni maculari legate all’invecchiamento. Essere padre inoltre è una delle mie più grandi priorità nella vita, io e mio figlio abbiamo un legame speciale perché entrambi parliamo italiano e comunichiamo tra di noi nella mia lingua madre. I miei hobby sono la cucina, andare in bicicletta, la fotografia e i viaggi.»
 
Abbiamo contattato il prof. Iannaccone per farci raccontare qualcosa di più sulla sua carriera e la sua storia di medico e italiano che lavora all’estero.
 
Professor Iannaccone, vorremmo con Lei partire dal principio e dalla sua formazione qui in Italia. Come si è sviluppata l’idea di partire per gli Stati Uniti?
«Il mio legame con gli Stati Uniti è profondo e comincia dall’infanzia, quando all’età di 5-6 anni partivo per gli USA per la prima volta con la famiglia per andare a scoprire questo Paese e per trovare amici e colleghi di mio padre Guido, medico anche lui e formatosi come radiologo pediatra presso il Children’s Hospital di Boston.
«Ricordo benissimo le mie prime esperienze a Boston, New York, Los Angeles. Sono poi tornato a perfezionare il mio Inglese presso l’Università della Pennsylvania negli anni ’80, e da allora ho formato un legame molto forte con questa città e questa istituzione, dove sono tornato all'inizio degli anni ’90 quando ero ancora specializzando in Oftalmologia, un campo che ho scoperto e vissuto grazie a mia madre, e poi nel 1995-96 a fare la mia super-specializzazione (fellowship) nel campo delle degenerazioni retiniche e l’oftalmogenetica, di cui mi ero già cominciato ad occupare alla Sapienza a Roma.
«La mia visita a Philadelphia durante la specializzazione in Oftalmologia fu particolarmente importante, in quanto mi aprì gli occhi sullo spessore, il dinamismo, la collegialità e la professionalità del sistema accademico statunitense, e le opportunità che esistevano in questo Paese, caratteristiche di cui mio padre mi aveva sempre parlato attraverso la sua esperienza, ma che non avevo mai potuto toccare con mano.
«Per questo motivo, quando mi fu offerta la possibilità di tornare a fare una fellowship col Prof. Jacobson allo Scheie Eye Institute dell’Università della Pennsylvania (la Penn come la si chiama qui), ebbi ben poche esitazioni a partire.»
 
È rimasto a lavorare negli USA ininterrottamente o ha dato il suo contributo anche in qualche centro italiano?
«Quando partii per Philadelphia per la mai fellowship alla Penn, avevo ogni intenzione di rientrare in Italia e di mettere ciò che avevo appreso a disposizione dei pazienti Italiani e, francamente, pensavo e speravo di rientrare alla Sapienza.
«Ma le cose non andarono così e il mio essere partito per gli Stati Uniti per approfondire le mie conoscenze nel campo delle degenerazioni retiniche non fu visto esattamente di buon occhio dai colleghi strutturati della Sapienza e, diciamo, fui messo in condizioni di non avere l’opportunità di perseguire il mio sogno di portare avanti le mie ricerche in questo campo alla Sapienza come speravo.
«Fu una situazione piuttosto traumatica ed in buona parte inattesa. Non vedendo più prospettive, dovetti superare delusione e disillusione e sviluppare rapidamente un Piano B: le alternative che vedevo a quel punto erano queste: a) rientrare in Italia abbandonando il mio sogno di lavorare sulle degenerazioni retiniche e l’oftalmogenetica e concentrarmi sull’attività medica privata come Oculista; b) trovare il modo di perseguire il mio sogno altrove.
«Conoscendo bene le tante esperienze negative che mio padre aveva avuto nel mondo accademico Italiano e stimolato anche da vari altri medici Italiani che avevo conosciuto nel frattempo a Philadelphia, decisi di rimboccarmi le maniche, rimettermi a studiare per fare gli esami di abilitazione per avere il riconoscimento della laurea in Medicina anche negli Stati Uniti e tentare di sviluppare il mio sogno proprio negli USA.»
 
«L’opzione a) era la più facile da perseguire ma la trovavo molto riduttiva e una resa inaccettabile ad un sistema che invece di volermi indietro per valorizzarmi mi aveva ostracizzato. E poi a quel punto ero davvero entrato in un’altra dimensione mentale – come diceva Oliver Wendell Holmes Sr., The human mind, once stretched to a new idea, never returns to its former dimensions (La mente umana, una volta che si espande ad una nuova idea, non ritorna mai più alle sue dimensioni originali).
«Quindi, da combattente che sono, scelsi l’opzione b). Riuscii a trovare l’opportunità per una seconda fellowship presso l’Hamilton Eye Institute della University of Tennessee Health Science Center a Memphis, all’epoca diretto dal compianto Prof. Barrett Haik, e poi mi inserii lì come membro della facoltà.
«Mi fu data l’opportunità di sviluppare dal nulla un Servizio per le Malattie Retiniche Degenerative ed Oftalmogenetica, e fortunatamente la mia scommessa, sia professionale che di vita, si rivelò vincente.
«A dispetto di quasi vent’anni passati all’Hamilton Eye Institute, però, non ho mai abbandonato i miei rapporti con l’Italia e i tanti pazienti Italiani, e ho continuato a fare attività di consulenza privata nel mio campo a Roma.»
 
«Per tutti questi anni è stata anche questa un’esperienza molto gratificante e particolare, sia perché molti colleghi mi inviano casi complessi di retinopatie da diagnosticare e curare, sia in quanto mi ha dato l’opportunità di lavorare anche assieme a mia madre, Dott.ssa Maria Laura Ciccarelli, laureata come Ortottista e Assistente di Oftalmologia.
«Inoltre le mie collaborazioni con l’Italia includono rapporti con molti colleghi sia a livello privato che universitario e spaziano da giovani oculisti che sono venuti da me negli USA a fare lunghi periodi formativi a rapporti di collaborazione e ricerca medico-scientifica.
«Prevedo di sviluppare in questi ultimi campi dei rapporti molto più forti con l’Italia adesso che sono ad un’istituzione di livello davvero internazionale come la Duke University.»
 
 
Foto notturna dell'ingresso dell'Hudson Building, il più nuovo dei tre edifici del Duke Eye Center.
 
Quali sono le principali differenze nel suo campo, la medicina, e l’approccio americano rispetto all’Italia?
«Ci sono varie differenze importanti. Nel bene e nel male, la medicina negli Stati Uniti è molto più basata sull’esperienza diretta con mano che sull’insegnamento teorico.
«Gli specializzandi qui escono dal loro periodo formativo in grado di fare davvero tutto, anche chirurgicamente. Chi non lo è, non lo si lascia specializzare e spesso fa un anno di ripetizione fino a che impara bene.
«A loro volta, gli specializzandi possono fare rapporto ad una struttura super partes che accredita i programmi di specializzazione se i Professori che li dovrebbero educare e fargli fare esperienza non fanno il loro dovere.
«Se gli ispettori scoprono che effettivamente la scuola non educa come dovrebbe, la scuola potrebbe passare guai seri e potrebbe persino essere chiusa. L’ho visto succedere, quindi non è solo cosa teorica, e gli ispettori non guardano davvero in faccia a nessuno, in quanto il sistema è molto pulito e rigoroso.»
 
«La medicina statunitense è anche molto più pragmatica. Ricordo come, sui test di abilitazione, avevo difficoltà all’inizio a rispondere a domande su quali fossero gli esami più importanti da far fare ad un paziente con una certa malattia, in quanto tutte le risposte mi sembravano giuste – ed in un certo senso lo erano, perché noi eravamo stati educati bene ma per il sapere, non per prioritizzare.
«Ci era stato insegnato a fare le cose a tappeto e, anche se certamente questo ci da più informazioni, può alzare anche di molto i costi e, a volte, fa fare esami inutili.»
 
«Un’altra differenza profonda è che negli USA si utilizza l’educazione solo sulla base dell’evidenza (evidence-based). In Italia, ed anche in altri Paesi dell’Europa, almeno a suo tempo l’educazione era molto basata invece sull’eminenza (eminence-based).
«Se il Professore diceva che era così, doveva essere così, punto, anche se era l’unico al mondo a sostenerlo. Negli Stati Uniti, una cosa del genere sarebbe completamente inaccettabile. L’uso rigoroso di educazione sulla base dell’evidenza garantisce una certa uniformità di educazione, ma in generale anche libertà di pensiero ed apertura alla discussione di tutto sulla base di fatti verificabili, non mere opinioni.»
 
«Negli Stati Uniti si pone poi molta enfasi sul metodo. Sia i medici che i ricercatori clinici o di base seguono un metodo rigoroso nel fare le cose. Questa differenza non solo si riflette sul modo di trattare i pazienti, ma soprattutto nell’ambito della ricerca, in cui non si spera di scoprire qualcosa ma si sviluppa un’ipotesi di lavoro e si costruisce una frame work, un pensiero strutturato, nell’ambito del quale svilupparla e verificarla in modo logico e rigoroso.»
 
«Queste tendenze generalmente contribuiscono a risultati educativi, medici e di ricerca consistentemente di alto livello, anche se magari finiscono per limitare lo sviluppo della creatività.
«Chi ne ha di suo ma sa anche pensare ed operare secondo i metodi americani di solito è chi ha più successo qui, specie nel campo della ricerca.
«Da questo punto di vista debbo dire che noi Italiani in generale partiamo avvantaggiati sul profilo della creatività.»
 
«Da ultimo, negli USA normalmente trionfa la meritocrazia ed il sistema accademico è molto lineare e snello. I risultati, i fatti e quello che sai contano infinitamente molto di più di chi conosci, per cui chiunque abbia la voglia di fare e la capacità riceve spazio, viene valorizzato, ha speranze concretissime di realizzare i propri sogni, e di fare carriera anche senza conoscere nessuno.
«Sia chiaro, si deve lavorare molto sodo, ma ben poco è precluso. Conseguentemente, si fa carriera sulla base di questi risultati e questi fatti, poco altro, e le promozioni di rango normalmente avvengono anche internamente alla stessa Università sulla base di criteri ben definiti, senza concorsi o altre macchinazioni feudali-bizantine del genere.
«È così che a soli 50 anni sono arrivato ad essere Professore Ordinario di Oftalmologia ad un’una Università così prestigiosa come la Duke.»
 
Ci parli ora del suo nuovo incarico presso il Duke Eye Center, ci accennava che si tratta di una realtà nuova per la Duke University. Come funziona e quali sono le sue peculiarità?
«Il Duke Eye Center è una delle istituzioni più importanti degli Stati Uniti (al n. 6 del ranking nazionale per reputazione) e quindi, come tale, mi sento privilegiato ad avere l’opportunità di poter lavorare qui adesso. Nonostante il suo già altissimo livello e la presenza di diversi medici e ricercatori di base dediti a condurre ricerche molto importanti nel campo delle malattie degenerative della retina, dell’oftalmogenetica, e degli studi di imaging retinico, il Duke Eye Center però non aveva nessuno finora che si occupasse in modo sistematico di questo campo e non offriva a questi particolari pazienti un servizio clinico-diagnostico dedicato.
«Nel reclutare al Duke Eye Center un medico-ricercatore (un physician-scientist, come si chiamano negli USA) con oltre vent’anni di esperienza nel campo come me, il mio nuovo Direttore d’Istituto, il Prof. Ed Buckley, ed il mio nuovo Vice-Direttore per la Ricerca, il Prof. Scott Cousins, hanno voluto colmare questa mancanza in un settore di nicchia così importante al giorno d’oggi partendo da un livello consono alle ambizioni e alla reputazione del Duke Eye Center, cosa che ovviamente mi gratifica enormemente e mi ripaga di tutti questi anni di duro lavoro e sacrifici fatti in un campo, sinora ricco di successi di ricerca ma relativamente avaro di gratificazioni mediche terapeutiche.

Foto notturna della Duke Chapel, iconica chiesa al centro del campus della Duke University.

 «Adesso, tutto questo sta cambiando, e l’opportunità che mi è stata data di rilanciare il mio progetto professionale da una piattaforma di questo spessore e portata, circondato da colleghi che sono estremamente competenti ed entusiasti di lavorarci insieme, è davvero molto stimolante. Sono certo che potremo fare delle cose molto importanti dal Duke Eye Center.»

Nello specifico lei si occupa delle malattie degenerative della retina e di malattie oftalmogenetiche. Quali sono le più diffuse? E quali le recenti scoperte che possono migliorare la vita dei malati?
«La più comune in assoluto è la degenerazione maculare legata all’età, o AMD. Ci sono milioni di anziani affetti o a rischio di essere affetti da questa patologia nel mondo. L’ereditarietà dell’AMD è piuttosto complessa, più di tipo predispositivo che causale, e ci sono molti altri fattori, soprattutto infiammatori ed immunologici, che giocano un ruolo importantissimo in quest’affezione, in parte proprio assieme a queste predisposizioni genetiche.»
 
«Tra le forme più puramente ereditarie invece le più comuni sono la retinite pigmentosa (RP), che colpisce prevalentemente la visione periferica, e la maculopatia di Stargardt, che colpisce la macula come l’AMD. Accanto a queste ci sono una pletora di altre condizioni. Nell’insieme, ci sono oltre 300 geni che possono causare questo gruppo di affezioni.
«Anche in queste patologie ereditarie, però, negli ultimi anni si è cominciato a capire come altri fattori genetici ed anche fattori sia infiammatori che immunologici giocano un ruolo davvero importante e, se gestite opportunamente, possono avere un impatto favorevole importante sulla progressività della patologia geneticamente indotta.»
 
«Il terzo gruppo di malattie degenerative retiniche di cui mi occupo sono le forme autoimmuni primarie o secondarie, cosiddette paraneoplastiche, cioè scatenate dalla presenza altrove nel corpo di un tumore che fa cross-reagire il sistema immunitario a danno della propria retina e/o nervo ottico.»
 
«In questi ultimi anni le ricerche del mio gruppo hanno portato alla scoperta di un ruolo chiave dell’autoimmunità non solo in quest’ultimo gruppo di affezioni, ma anche nell’AMD e nella RP. Immagini che alcuni pazienti con RP, se trattati opportunamente per le loro problematiche autoimmuni secondarie, possono riguadagnare parecchia vista o campo visivo. La patologia di base non viene curata, ma la prognosi viene di gran lunga migliorata.
«Inoltre abbiamo scoperto l’esistenza di un enzima nella retina che è in grado di modulare la risposta infiammatoria del sistema immunitario retinico ed abbiamo visto, che quando si blocca questo enzima in animali che soffrono di RP, la gravità della retinopatia diminuisce di gran lunga.
«Questo ci dà la speranza di poter modificare in modo significativo il corso della RP a prescindere dalla sua causa genetica in un futuro non distante. Speriamo di poter avere un impatto del genere anche sull’AMD nei prossimi pochi anni.»
 

Foto 1. Espressione della proteina CD5L (in verde) scoperta per la prima volta nelle cellule di epitelio pigmentato umano coltivato in laboratorio.
I pazienti con degenerazione maculare legata all'età (AMD) sviluppano auto-anticorpi contro questa proteina molto più frequentemente che le persone anziane non affette da AMD.
I nuclei delle cellule dell'epitelio pigmentato sono visibili in blu.

  
 
 
 
Foto 2. Campi visivi dei due occhi (OD, occhio destro; OS, occhio sinistro) di paziente con retinite pigmentosa (RP) dominante complicata da infiammazione autoimmune dei nervi ottici.

Dopo protratto trattamento della complicanza autoimmune, il campo visivo èmarcatamente migliorato. Il deficit residuo corrisponde molto precisamente al danno retinico causato dalla RP.
La parte migliorata e' attribuibile al trattamento della complicanza autoimmune dei nervi ottici.

 
«Nel frattempo, seppure io sia arrivato da poco alla Duke University, sto già per partecipare a studi e trials clinici mirati a correggere il difetto genetico alla base di degenerazioni retiniche ereditarie a mezzo di terapia genica, o altri approcci farmacologici di avanguardia per trattarle.
«In aggiunta, offriamo anche impianti di retina artificiale ai casi di RP terminale e stiamo sviluppando un programma di riabilitazione visiva post-impianto di avanguardia assieme alla ditta che produce questi impianti, in modo da massimizzare il recupero visivo post-chirurgico.
«Tutti questi studi e trials hanno la potenzialità di migliorare significativamente le prospettive a lungo termine per i pazienti con RP ed altre malattie retiniche eredo-degenerative.»

Foto del giardino antistante l'Albert Eye Research Institute, il terzo dei palazzi del Duke Eye Center dove il dott. Iannaccone ha il suo ufficio.

In che modo le ricerche e la medicina applicata negli USA possono risultare utili ai medici italiani? La vostra comunità è unita oppure ci sono delle differenze di metodo inconciliabili?
«In tutti i modi. Oggi come oggi, grazie ad internet, la globalizzazione si estende anche al campo medico. I risultati di studi importanti di questo genere si sanno subito in tutto il mondo, e purché messi in condizione di accedere a questi trattamenti e ai mezzi per poterli mettere in atto, non c'è ragione per la quale i medici italiani non potrebbero applicare gli stessi trattamenti sul territorio nazionale.
«Infatti, io mi auguro di avere l’opportunità di accogliere colleghi che vengano a lavorare con noi alla Duke per un periodo formativo formale nel campo, in modo da poter poi ritornare alla base con le nozioni e l’esperienza necessarie e sufficienti a far decollare immediatamente iniziative del genere.
«Ci sono certamente delle differenze importanti negli approcci, nei metodi, e nella mentalità del mondo medico statunitense a confronto di quello italiano, ma quando si tratta di mettere in atto terapie ed altri trattamenti, a parte rare eccezioni, in linea di massima non vedo differenze davvero inconciliabili.»
 
Consiglierebbe a un giovane italiano di studiare medicina e di lavorare all’estero? All’Italia manca davvero qualcosa per formare giovani professionisti validi?
«Certamente. L’ambiente lavorativo è ottimale, e ci sono solide opportunità per tutti coloro che si formano qui. Chi si specializza in qualunque campo negli USA solitamente ha già varie offerte di lavoro ancor prima di aver completato il periodo di formazione (la residency, come si chiama qui nel Stati Uniti), e la gratificazione professionale che ne consegue è da subito di livello molto elevato, che sia attraverso contratti con gruppi privati libero-professionali, ospedalieri, o universitari come nel mio caso.
«Il consiglio principale che darei ai medici italiani presenti e futuri è di imparare prima di tutto bene l’Inglese, in modo che non sia una barriera linguistica ad impedire che si faccia il passo in tal senso. Poi senz’altro raccomando anche di fare gli esami per l’equiparazione della laurea.
«Fatti questi, chiunque può cercare di entrare in una specializzazione o, successivamente, una super-specializzazione (fellowship) clinica, chirurgica o di altro tipo. È un processo basato su un matching reciproco tra candidato e struttura, fortemente competitivo, ma del tutto esente da manipolazioni politiche di sorta. La stragrande maggioranza dei candidati riesce ad inserirsi bene.
«Da ultimo, per compensare in parte lo svantaggio che potrebbe derivare dall’essersi formati all’estero, consiglio anche a chi avessi ambizioni di venire negli USA, di cominciare a pubblicare lavori scientifici prima possibile, in modo da arrivare con un buon curriculum. Negli Stati Uniti questo conta davvero tanto, e può che aprire porte importanti ed inattese.
«Quest’ultimo discorso è particolarmente rilevante e utile per chi volesse perseguire una carriera accademica anche in ambito di ricerca, specie se avesse già fatto la specializzazione e non desiderasse rifarla.
«Una strategia seguita da molti per accumulare l’esperienza e le pubblicazioni necessarie a farsi il curriculum è anche quella di venire negli Stati Uniti a condurre qui ricerca per 1-2 anni, e poi di inserirsi nei contesti di cui sopra.
«Nel mio campo e nel luogo in cui opero sicuramente avremmo disponibilità in tal senso, specie ai fini formativi a cui alludevo prima.»
 
«All’Italia manca soprattutto il sistema giusto, il che dipende a mio avviso da almeno due cose.
1) da un sistema antico, basato sui millenni di tradizioni storiche e culturali, che non è dinamico, non è sufficientemente evidence-based, e non è basato sulla trasparenza e la meritocrazia, ma piuttosto su schemi macchinosi, tradizioni feudali-bizantine, educazione spesso troppo eminence-based e molta, troppa politicizzazione;
2) dalla mancanza di volontà di chi comanda di riformare sufficientemente (se non radicalmente) le cose, che in parte dipende dalla causa n. 1. Chiaramente anche chi fa parte del sistema deve essere disponibile al cambiamento.
 
«Se invece chi ne fa parte è contento di avere un sistema come quello attuale in quanto ne trae un giovamento o può vedere i propri interessi feudali lesi da una riforma del sistema, è chiaro che l’interesse a cambiare non ci sarà mai.
«E poi l’istruzione medica deve essere uniformata e standardizzata verso l’alto, in modo che tutti i medici imparino a saper fare davvero bene le stesse cose a prescindere da dove si formino. Serve un nuovo sistema e docenti capaci, non solo in grado e desiderosi di farlo, ma anche messi in condizione a farlo.»
 
«Da notare anche che il concetto di meritocrazia a cui facevo riferimento è stato recentemente oggetto di polemiche in Italia, suscitate dalle cosiddette Cattedre Natta, ed è stato, a mio giudizio erroneamente messo in dubbio come un parametro privo di misurabilità oggettiva. Tutt’altro. Negli Stati Uniti, ci sono criteri lineari e semplici per la quantificazione della meritocrazia, che però è poliedrica, in quanto essa deve variare in base al ruolo che ciascun medico ha.
«Se quest'ultimo ha un ruolo prevalentemente clinico, allora i meriti andranno riconosciuti in quel campo. Se invece è un physician-scientist come me, i meriti vanno suddivisi sulla base dei ruoli relativi nei due campi: clinico e di ricerca. E così via.
«Predefinire degli obiettivi chiari ed avere accountability, cioè aderenza reale ai piani fatti e senso di responsabilità da parte di tutti, può consentire di misurare la meritocrazia ed usarla come criterio per promuovere o meno un membro della facoltà, se ricevere incentivi a fine anno, e via di seguito. Questo però deve valere anche per i leader, non solo per quelli nella parte più bassa della piramide, che in Italia di solito è molto molto alta.
«Negli USA la distanza tra un direttore d’Istituto, all’apice della piramide, ed i più giovani membri dell’Istituto è molto più ridotta.»
 
«Il problema Italiano però è complesso, non solo formativo, e non può essere risolto nottetempo. Il numero di medici formati deve essere progressivamente ridotto. Ce ne sono troppi per troppe poche posizioni. La retribuzione deve essere adeguata.
«Gli stipendi dei medici Italiani sono imbarazzantemente bassi a confronto dell’estero. Negli USA uno specializzando è pagato quanto uno strutturato Italiano.
«Se poi si aggiunge che negli USA la tassazione è molto minore che in Italia, alla fine se si viene pagati meglio, vessati meno, e i servizi ci sono, tutti pagano le tasse senza problemi e a cuor leggero, e quindi si lavora e si vive meglio ed in modo assai più lineare.»
 
«A dispetto della complessità del problema, il sistema può essere cambiato, e a mio giudizio bisogna cominciare a farlo, il prima possibile ma un po' alla volta, con un piano chiaro in fasi, ma a lungo termine (minimo ventennale, direi).
«In teoria dovrebbe essere stabilito nelle sue linee guida, con l’input anche della classe accademica, da tutte le parti politiche assieme, per garantirne la sua implementazione a lungo termine a prescindere dai costanti cambi di governo e dalla direzione politica in cui ciascun leader possa voler portare il Paese di volta in volta.
«Temo però che questo tipo di riforma possa richiedere un’azione a livello di Comunità Europea, piuttosto che dall’interno. Il perfetto esempio di questo è l’assurda situazione degli specializzandi che per decenni il governo Italiano ha continuato a non pagare, me compreso, ignorando la chiara direttiva CEE che dai primi degli anni ’70 aveva stabilito diversamente.
«Solo quando l’Unione Europea minacciò con un aut aut l’Italia di rendere tutti i suoi corsi di specializzazioni fuori legge e quindi non più riconosciuti dall’Unione, l’Italia si semi-adeguò alla cosa. Ancora oggi la situazione non è stata risolta adeguatamente. Con questo atteggiamento non si va avanti!
«Quindi temo ci voglia un intervento dell’Unione Europea con altro aut aut che ci imponga di seguire delle normative uniformate. Forse allora il sistema cambierà ed invece della fuga di cervelli, saremo testimoni della persistenza e magari anche del rientro dei cervelli e tutti si potranno godere questo meraviglioso Paese in condizioni lavorative ottimali.
«Per ora, negli USA, questa potenziale speranza è già realtà e quindi incoraggio chi non può o vuole aspettare e sperare a seguire i miei consigli e la mia strada.»  
 
Nadia Clementi - n.clementi@ladigetto.it
dott. Alessandro Iannaccone - alessandro.iannaccone@duke.edu
 
 VIDEO DI PRESENTAZIONE 

Link profilo di Iannaccone.

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