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Elena Fia Fozzer, colore e movimento – Di Daniela Larentis

Dai cromosettoriali degli anni ’80 al periodo Madì, il movimento internazionale di cui è stata cofondatrice in Italia negli anni ’90, fino a tempi recenti – L’intervista

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Elena Fia Fozzer nel suo studio, 2020.
 
Non è affatto sbrigativo riassumere un’intera vita dedicata all’arte, proveremo a tratteggiare le coordinate principali del percorso artistico di una importante artista trentina vivente, Elena Fia Fozzer.
Nata a Trento il 13 luglio 1937, cresce in un ambiente stimolante, manipolando l’argilla nel laboratorio del padre alla Cervara.
Figlia del noto scultore Eraldo Fozzer, artista fra i più rilevanti nel panorama artistico nazionale del secondo dopoguerra, già da piccola dà segni di essere una bambina dotata di grande creatività e di un’intelligenza acuta fuori dal comune.
Si cimenta giovanissima con le prime sculture con le quali riceve premi e segnalazioni (in un concorso indetto dalla Provincia di Trento, a 16 anni vince il primo premio per la scultura e il terzo premio per la poesia).
Compie studi classici e artistici fra Trento, Venezia, Milano, Parigi. Insegna storia dell’arte per 22 anni in un noto liceo scientifico di Trento, parallelamente si dedica all’arte, portando avanti una ricerca personale che le dona grandi soddisfazioni.
 
Renzo Francescotti, stimato critico d’arte, le dedica l’esaustiva monografia pubblicata da Temi nel 2006. Racconta, ricordando i primi anni e inquadrando la sua personalità poliedrica.
«Da quando, sedicenne, Elena realizzava le sue prime opere di pittura e scultura è passato quasi mezzo secolo. Essere figlia di Eraldo Fozzer, artista famoso, non l’ha agevolata più di tanto: ha dovuto lavorare molto per trovare una strada sua, una sua visione artistica della realtà. Fondamentale è stato il suo incontro con il Madì, il movimento internazionale di cui è stata uno dei fondatori in Italia, oltre che uno dei suoi artisti di punta. Ha così potuto esporre in tutto il mondo, ha potuto collocare sue opere e installazioni in musei e istituzioni pubbliche e private, in Trentino e all’estero […].»
 

Elena Fia Fozzer,  Gioco, 1987.
 
Autoironica, passionale, piena di gioia di vivere, intraprende un percorso che da un confronto iniziale con la figura femminile la porta ad approfondire verso la metà degli anni Settanta le tematiche del colore e delle geometrie, staccandosi dal figurativo e abbracciando l’astratto.
Nel primo periodo realizza lavori e partecipa a mostre curate dallo storico d’arte Toni Toniato, i decenni successivi sono scanditi da cicli e filoni di ricerca ben definiti, il suo interesse è rivolto al coinvolgimento dello spettatore, non solo dal punto di vita emotivo.
Nel 1980 viene in contatto con Artestruktura a Milano, costruisce i primi «cromosettoriali» e tre anni dopo la sua mostra personale viene presentata in catalogo dal critico Carlo Belloli. Entra a far parte del movimento «Arte Costruita: incidenza italiana».
L’elemento stilistico dei suoi lavori è uno «spazialismo aperto», grazie ai suoi celebri «cromosettoriali» lo spettatore ha la possibilità di modificare l’opera, per mezzo di elementi modulari calamitati. Un’invenzione, la sua, che segna il superamento della pittura, di una staticità che non le appartiene, i suoi lavori trasmettono una grande gioia e positività.
 
Negli anni Novanta ha inizio il suo periodo Madì, è cofondatrice della sezione italiana del movimento. Nel 1993 il MART, a Palazzo delle Albere, Trento, le dedica una mostra personale a cura di Gabriella Belli e Luigi Serravalli. Nel 1995 vince la Coppa Volpi a Pisa per l’installazione Madì.   
Dagli anni Duemila partecipa a numerose mostre sia in Italia che all’estero, è del 2007-2008 la grande esposizione al Foyers S. Chiara di Trento presentata da Luciano Caramel, Renzo Francescotti e Fiorenzo Degasperi. A Trento seguono altre due importanti personali e diverse partecipazioni a collettive dal 2008 al 2013.
Realizza circa 50 mostre personali e oltre un centinaio di mostre di gruppo tra Trento, Milano, Parigi, Amersfoort (Museo Mondrianhuis), Budapest, Buenos Aires (MACLA), Madrid (Museo Reina Sofia). Viene segnalata in varie pubblicazioni sulla pittura italiana.
 

Elena Fia Fozzer, acrilico su tela e magneti, 1991.
 
Scrive della sua arte C. Arden Quin, storico fondatore del movimento Madì: «Capace di mostrare le possibilità senza limite della nuova plasticità… non c’è angoscia, incertezza, malinconia nella pittura di Elena, ma una gioia di vivere, creare e slancio appassionato verso l’avvenire.»
Nel 2011 viene insignita della Targa della PRO CULTURA «Una vita per la Pittura».
Risale a tre anni fa la cerimonia di riconoscimento alla lunga carriera artistica di Elena Fia Fozzer a Trento, presso Palazzo Geremia, seguita da una mostra a Torre Mirana dal titolo «Forma, colore, luce» (dicembre 2017).
Ha scritto di lei Gabriele Lorenzoni, curatore del Mart: «Per tutta la propria carriera Elena non ha mai rinnegato le origini trentine, mantenendo fieramente la propria residenza in città, anche quando il successo la spingeva verso Milano e verso l’estero. Un attaccamento in alcun modo confondibile con un atteggiamento localista: le sue opere, la sua poetica e la sua mente vivono dinamiche internazionali. Le radici sono a Trento, la mente è libera di muoversi verso orizzonti molto più ampi […].»
Abbiamo avuto il piacere di incontrarla e di porgerle alcune domande.
 

Elena Fia Fozzer, Attraversamento, 1993.
 
Ha iniziato la sua carriera artistica da giovanissima. Qual è stata la sua formazione?
«Essendo figlia di Eraldo Fozzer, ho respirato gli odori della polvere di marmo fin da giovanissima. Ho una formazione classica, ho studiato al Liceo Prati e poi a Venezia all’Accademia di Belle Arti. La maturità artistica mi è servita per insegnare, ho vinto il concorso nazionale per l’insegnamento del disegno e storia dell’arte all’età di 21 anni.»
 
Fra gli artisti che frequentavano la sua casa c’era Fortunato Depero…
«Sono vissuta in un ambiente stimolante, la mia casa era peraltro frequentata da artisti fra cui Fortunato Depero, amico di mio padre; io all’epoca ero una bambina, spesso chiacchierava con me a lungo mentre aspettavamo di andare a tavola a mangiare, la mamma mi diceva di fargli compagnia fino a quando era pronto.
«Me lo ricordo in maniera nitida, la nostra era una cucina povera ma mia madre era molto brava a cucinare, faceva minestroni gustosi e gnocchi buonissimi. Lui mi raccontava di New Yorke e del rumore del piroscafo, era bello stare ad ascoltarlo…»
 

Elena Fia Fozzer, Gioco di luci, 1994.
 
Lei è figlia dello scultore Eraldo Fozzer, come era caratterialmente? Può condividere un ricordo legato a suo padre?
«Mio padre era felice mentre lavorava e quando andava alle inaugurazioni delle sue mostre, qualche volta mi portava con sé. Caratterialmente era piuttosto timido, riservato, ma aveva anche uno spiccato senso dell’umorismo, era simpatico.
«Quando realizzai la testina che lei ora vede sulla mensola fusa in bronzo, dopo averla terminata gli chiesi un consiglio in merito a un orecchio che non mi riusciva e lui mi mostrò come plasmarlo. L’altro lo feci io.
«Dopo aver vinto il premio lui però mi disse: «Prima di fare concorsi e vincere premi bisogna studiare e lavorare!» I miei genitori non mi hanno incoraggiata, almeno inizialmente, specialmente per quanto riguarda la scultura, in particolar modo mia madre…»
 
In che anni possiamo collocare il passaggio dal figurativo all’astratto?
«A 15 anni dipingevo ballerine e aironi, ero colpita dall’eleganza di questo animale, mio padre realizzò una scultura, forse ispirato dai miei disegni, chissà. Agli inizi degli anni Settanta la mia pittura figurativa era molto deformata, ne sono testimonianza opere come Madre Cosmica, erano figure femminili molto stilizzate. Il passaggio all’astratto avviene più o meno a metà degli anni Settanta, quando iniziai a dedicarmi alle prove-colore pervase da un sentimento cosmico, avviando un periodo di intense sperimentazioni cromatiche.»
 

Elena Fia Fozzer, Madì Parigi, 1994.
 
Lei conobbe anche Aldo Schmid…
«Aldo Schmid, a proposito delle sfumature viste nel mio studio a metà degli anni Settanta, le prove colore a cui mi stavo dedicando in quel periodo, mi confidò che quelle erano le cose che a lui piacevano, voleva coinvolgermi in Astrazione Oggettiva.
«Io non ero interessata alla ripetizione, a ogni modo Aldo era un grande maestro nello sfumare il colore, utilizzava tutta un’altra tecnica rispetto a me. Era una persona colta, piacevole, ero affezionata a lui. Ricordo un episodio: avevo appena scoperto di essere incinta, c’erano in ballo tre mostre sull’arte astratta proposte da Toni Toniato, il quale era venuto a trovarmi e nell’occasione gli avevo detto che ero in attesa di un bambino e mi volevo fermare per un po’.
«Un paio di giorni dopo venne da me Aldo, aveva parlato con il critico e voleva convincermi a partecipare. Vedendo che ero irremovibile, alla fine capì le mie motivazioni e scherzando mi citò una frase che lui attribuì lì per lì a Rembrandt, mi disse un ma sì, aveva ragione lui, è meglio un topo vivo che una natura morta
 
Negli anni Ottanta, a Milano, venne a contatto con artisti di fama internazionale. Che ricordo conserva di questo periodo?
«Un bellissimo ricordo, è stato per me un momento importantissimo. Nel 1980 entrai nel gruppo di artisti di Artestruktura, legati all’omonima galleria diretta a Milano da Anna Canali, in via Mercato 1.
«Parlo di artisti come De Luca, Mari, Sernaglia e altri, la loro era un’arte costruita di matrice strutturalista. Il critico Carlo Belloli, la voce più autorevole in materia, rimase colpito dai miei cromosettoriali.»
 

Elena Fia Fozzer, Madre cosmica, 1972.
 
Può parlarci dell’idea di voler coinvolgere lo spettatore attraverso la possibilità di interagire con le opere?
«Mi piaceva l’idea di creare quadri componibili, non statici, di piccole o grandi dimensioni, che offrissero all’osservatore la possibilità di interagire attraverso un approccio ludico. I miei cromosettoriali sono frutto di una lunga ricerca sul colore e sulla luce.
«Inizialmente dipingevo sfumature su grandi tele, passando gradualmente a tele più piccole, era per me divertente accostarle e cambiare la loro disposizione. Nei miei primi esperimenti utilizzai gli scrocchetti magnetici delle ante degli armadi, fissandoli dietro le tele, in modo da poter variare l’accostamento e dare vita a una nuova composizione.
«Belloli rimase affascinato dalle mie ruote girandolate, come le definiva lui, dalle mie opere gioiose. Il messaggio che ho sempre voluto veicolare attraverso la mia arte è un messaggio positivo, di gioia e di speranza.»
 
Agli inizi degli anni Novanta è cofondatrice della sezione italiana del movimento Madì…
«Negli anni Novanta, io e alcuni artisti fra cui il grande Salvador Presta, alla Galleria d’arte Struktura di Milano fondammo, o meglio, rifondammo, il Movimento Madì italiano. Presta era emigrato in tenerissima età in Argentina con la sua famiglia, ritornando poi in Italia a metà degli anni Sessanta.
«È un’avanguardia che viene da lontano, dalla Buenos Aires degli anni 1946-1950, dall’Argentina peronista, in opposizione ai canoni artistici, ma anche politici, di quel regime dittatoriale. All’inizio nacque come un’arte che si imponeva anche sul piano politico, un’arte di rottura, poi ha perso la sua connotazione politica per assumere altri significati.
«Il movimento Madì, fondato da C. Arden Quin, aveva raccolto attorno a sé, in Argentina, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, i giovani di sinistra che volevano opporsi all’accademismo dell’arte ufficiale, lo stesso nome ha origine dalle iniziali del materialismo dialettico. Arden Quin si spostò poi a Parigi, il movimento cambiò anche nome.
«Nel 1995 a Madrid si riunì tutto il Madì del mondo per la spettacolare mostra internazionale al Museo Reina Sofia, fortemente voluta dallo stesso Presta, a cui parteciparono gli esponenti di 13 Paesi. Seguirono le mostre a Saragoza, Barcellona e Siviglia e il lungo viaggio in Turchia, nonché esposizioni negli Stati Uniti, in URSS e in America Latina.
«È un’idea dell’arte che suggerisce la trasformazione: le superfici si incontrano, si piegano, si intingono di colore…, l’opera è considerata un oggetto gioioso che convive con te nel tuo spazio.»
 

Elena Fia Fozzer, Pentagramma blu.
 
Può raccontarci qualcosa del viaggio in Turchia?
«Partimmo da Trieste con un cargo, nella stiva parcheggiammo l’auto carica di cataloghi, poster, inviti. La mostra era stata organizzata da Artestruktura di Milano per le cinque giornate della cultura italiana, un evento molto importante.
«Alloggiammo nel più lussuoso albergo di Ankara, con il Presidente della Repubblica Luigi Scalfaro e sua figlia, il critico d’arte Giorgio Segato, il violinista Uto Ughi e altri. Ricordo le cene, alla fine delle quali si esibivano le danzatrici del ventre, la città era meravigliosa, circondata da colline ondulate disseminate di casette colorate come tessere di mosaico. Un’esperienza indimenticabile…»
 
Parliamo delle installazioni storiche, come Pentagramma blu del 1993, esposta al Mart. Può raccontarci qualcosa della mostra?
«Nel 1993 al Mart, nella sede di Palazzo delle Albere, presentai una mostra personale curata da Gabriella Belli e da Luigi Serravalli. L’opera esposta era Pentagramma blu, occupava un’intera parete ed era realizzata su diversi pannelli metallici dipinti di blu su cui erano collocati cromosettoriali mobili. Su una parete era riportata una frase di Arden Quin, formulata per l’occasione.
«Oltre a quest’opera era esposto un piccolo cromosettoriale radiante sotto la finestra, come richiamo, con tanti colori. Ricordo che uscii dalla sala gremita di gente a braccetto con mio padre, fuori c’era un’aria tiepida, si stava proprio bene; eravamo in silenzio tutti e due quando a un certo punto lui disse un te l’hai sotradi tuti!, un complimento che ricordo con emozione.»
 
A cosa sta lavorando/progetti futuri?
«La mia è un’arte gioiosa, purtroppo a causa di un momento impegnativo che ho dovuto affrontare, a maggior ragione ora in un periodo cupo come quello che stiamo vivendo tutti, trovare l’ispirazione attingendo dalla positività non è certo facile…»

Daniela Larentis – d.larentis@ladigetto.it

Elena Fia Fozzer, Danza, 1952.

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