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Associazione Castelli del Trentino – Di Daniela Larentis

Marta Villa, docente di Antropologia culturale, il 20 ottobre 2021 parlerà di Antropologia dell’alimentazione in Trentino fra passato e presente – L’intervista

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Marta Villa.

Il ciclo di incontri «Torniamo a tavola!» a cura dell’Associazione Castelli del Trentino di Mezzolombardo, in collaborazione con l’Associazione Rosmini di Trento, ha preso il via lo scorso 13 ottobre e proseguirà tutti i mercoledì dalle 17 alle 18.30 in modalità webinar fino al 24 novembre 2021.
La protagonista dell’evento di mercoledì 20 ottobre dal titolo «Ricercando sapori e saperi. Antropologia dell’alimentazione in Trentino fra passato e presente» sarà Marta Villa, Docente di Antropologia culturale presso l’Università di Trento e di Antropologia culturale medica presso l’Università di Verona, Direttrice del Centro Studi Trentino Alto-Adige/Südtirol dell’Accademia italiana della Cucina.
I cibi hanno un alto valore simbolico e culturale, durante l’incontro verrà indagata la relazione tra uomo, cibo e territorio.

Segnaliamo il link per accedere alla stanza virtuale (accessibile anche attraverso il sito della Associazione): https://us02web.zoom.us/j/86939877870.

Da oltre trent’anni l’Associazione è attiva nell’ambito culturale provinciale soprattutto attraverso pubblicazioni, convegni e cicli di conferenze su tematiche storiche e storico-artistiche che vengono seguiti con attenzione dal pubblico e dalla stampa.
A riprova della stima di cui è circondata, le iniziative godono del patrocinio, fra gli altri, della PAT, dell’Accademia roveretana degli Agiati e della Società di Studi trentini di Scienze storiche e sono riconosciute valide ai fini dell’aggiornamento del personale docente da parte dell’Iprase.
Abbiamo il piacere di rivolgere alla professoressa Marta Villa alcune domande.
 
Su quali aspetti focalizzerà maggiormente l’attenzione nell’incontro di mercoledì 20 ottobre?
«La mia relazione cercherà di fornire una prima panoramica generale sull’antropologia dell’alimentazione: perché questa scienza si è interessata ad un certo punto ella sua storia al cibo, quali dati si sono persi nei decenni precedenti, quali sono i più importanti teorici di questo settore di studio?
«Cercherò poi di presentare i principali argomenti riguardanti la relazione tra cibo e esseri umani: cosa ci differenzia dagli altri animali e cosa ci accomuna? Perché l’uomo ad un certo punto ha inventato la gastronomia? Ci sono dei racconti mitici che narrano di cibo?
«Passerò poi a parlare della relazione tra uomo, cibo e territorio nel contesto alpino più generale approfondendo infine quello trentino. Il paesaggio è legato al cibo? Il cibo condiziona il territorio? Quanta fatica ha dovuto affrontare l’essere umano nelle Alpi per sopravvivere?
«L’alimentazione alpina è certamente un crogiolo di incontri: ha una sua propria connotazione specifica ma mescola anche prodotti e ingredienti provenienti da altre regioni.
«Questa sua specificità ha permesso di trapassare i secoli e raggiungere l’attualità: i gusti sono certamente cambiati, ma alcuni piatti hanno assunto delle connotazioni simboliche legate all’identità, all’appartenenza ad una determinata cultura e in alcuni casi sono diventati delle bandiere da mostrare per definirsi italiani o austriacanti.
«Nel periodo storico tra a fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento i ricettari conducono una sorta di battaglia culturale tra il cibo secondo la moda italiana e quello secondo la moda imperiale.
«Anche il trentino si schiera a tavola e c’è chi ostenta la propria adesione politica anche facendo preparare un determinato menù al proprio personale di cucina.
«Ora la cucina trentina dove sta andando? Anche in questo caso gli studi antropologici ci permettono di trovare punti di contatto e differenze e di indagare quanto il territorio sia specchio delle nostre abitudini alimentari.»
 
Che cosa rappresentano gli alimenti dal punto di vista antropologico?
«Gli alimenti dal punto di vista antropologico sono uno scrigno: attraverso la loro esperienza possiamo entrare dentro di noi o esplorare mondi conosciuti o sconosciuti. Portare un cibo alle labbra permette di rievocare o fare esperienze penetranti: il cibo da sempre è profondamente legato alla nostra psiche e la conturba.
«Marcel Proust aveva descritto con grande sapienza quello che il cibo produce nell’essere umano. apre la vastità della memoria e permette il contatto intimo tra il mio essere, i miei ricordi e il mondo circostante, ma nello stesso tempo mi isola, permettendomi di indagare a fondo il mio essere.
«Il cibo è anche dimensione conviviale: noi italiani siamo noti per amare sedere a tavola con ospiti e parlare di cibo, sia di quello che stiamo apprezzando sia di altro cibo che abbiamo esperito. Si crea così una sorta di metadiscorso che continua a passare dall’esperienza contingente al passato.
«Attraverso questi atti produciamo cultura: il cibo quindi è certamente uno specchio di chi siamo, della società a cui apparteniamo e della modalità che individualmente e collettivamente abbiamo trovato per addomesticare un dato ingrediente o una collezione di sapori.»
 
Ci può anticipare qualche considerazione in merito alla ricerca sul cibo da lei condotta?
«Mi occupo di cibo secondo la metodologia etnografica da circa 15 anni. Mi sono subito interessata al cibo alpino della regione trentina e sudtirolese perché distante dalla mia educazione alimentare lombarda di pianura.
«L’antropologo per svolgere con accuratezza e metodo il proprio lavoro di ricerca dovrebbe essere distante dal proprio oggetto di studio, questo permette certamente una sorta di distacco scientifico ma nello stesso tempo uno sguardo più penetrante.
«Se studiamo qualcosa di quotidiano possiamo essere tallente abituati a guardare che alla fine non vediamo più, se invece ci avviciniamo a qualcosa di sconosciuto allora siamo meno distratti dalle abitudini, riusciamo a vedere particolari che altrimenti ci sarebbero sfuggiti.
«Tuttavia l’esotico potrebbe creare in noi una sorta di pregiudizio: questa è la fatica più grande che un antropologo compie nella sua vita da ricercatore: dobbiamo cercare di stare sul campo con la mente libera, pronti ad esperienze nuove e insolite, nel campo del cibo non possiamo esimerci dall’assaggiare pietanze a noi sconosciute.»
 
L’uomo, stando al pensiero di Claude Lévi-Strauss espresso nelle «Mitologiche», è un essere biologico e allo stesso tempo un individuo sociale, in quanto con la cottura trasforma elementi naturali in prodotti culturali con forti significati simbolici. Potrebbe condividere qualche pensiero a tale riguardo?
«Il grande antropologo che per primo ha studiato le abitudini alimentari egli esseri umani e ha collegato i processi culturali di addomesticazione del cibo con una spiegazione mitica è certamente stato Lévi-Strauss. Secondo la sua teorizzazione infatti l’uomo essendo un animale sociale culturale trasforma l’atto istintivo della nutrizione in una azione dalle forti connotazioni simboliche.
«Infatti il ciò in tutte le culture del mondo passate e presenti è parte della sfera religiosa, lo troviamo nella celebrazione del culto dei morti, scandisce ogni fase della vita.
«Questo passaggio dal naturale al culturale è fondamentale per comprendere anche alcuni dei più importanti precetti alimentari delle culture che consociamo: in ogni società vivono alimenti tabù che non possono essere mangiati e neanche toccati in cloni casi, vi sono anche alimenti provenienti da animali totemici, simboli tribali o identitaria nei quali gli uomini si riconoscono.
«Perché per un popolo un alimento è mangiabile e per un altro no? Questa distinzione è totalmente culturale, ne aveva parlato anche l’antropologa culturale Mary Douglas nel suo volume Purezza e pericolo.»
 
C’è una riscoperta dell’alimentazione tradizionale nel territorio alpino?
«Negli ultimi anni si sta assistendo ad una corsa alla riscoperta dell’alimentazione tradizionale alpina. Si stanno anche apprezzando alcune qualità salutari di questo regime dietetico e si stanno valorizzando prodotti a kmzero, tipici o timidissimi, produzioni biologiche e biodinamiche, visite nei luoghi dove il cibo cresce e viene prodotto.
«Questi sono alcuni dei fenomeni che nuovamente l’antropologia è chiamata ad osservare, descrivere, analizzare… Questi interessi aprono infatti nuove prospettive e domande di ricerca: possiamo infatti cercare di comprendere se questo sia una moda oppure se queste pratiche si radicheranno nel quotidiano.
«Se questa riscoperta ha solo connotazioni turistiche oppure se anche gli abitanti della regione alpina siano nuovamente interessati ad un cibo che viene dal passato ma che necessità di innovazioni e adattamenti.
«Certamente c’è una domanda e il territorio sta rispondendo a questo bisogno creando interessanti esperienze.»
 
In che modo, a suo avviso, l’emergenza Covid19 può aver indotto le persone a ripensare al proprio modo di alimentarsi?
«L’emergenza Covid19 ha posto l’attenzione sulla nostra salute e sulle modalità per irrobustire il nostro organismo al fine di contrastare la malattia. L’alimentazione, che da qualche anno è presente come discorso anche accanto ad altre situazioni patologiche croniche (si pensi all’epidemia di obesità anche infantile nei paesi occidentali), anche nel caso della recente pandemia è diventata oggetto di discussione.
«Abbiamo infatti notato due tendenze: da un lato la ricerca soprattutto nella Fase 1 del Lockdown di alimenti e integratori naturali che potessero rendere più forte il nostro organismo: molte sono state le pubblicità e gli articoli scientifici o meno che hanno indicato quali fossero le buone abitudini alimentari per aiutare il corpo debilitato dalla malattia o quali le strategie alimentari per rinforzare le difese immunitarie.
«Dall’altro lato però abbiamo assistito anche alla ripresa di una nuova modalità di relazione con il cibo. Nei supermercati sempre nella prima fase della pandemia c’è stato un assalto all’acquisto di farine e lieviti: gli italiani costretti in casa hanno ripreso in mano i ricettari e invece di portare in tavola cibi precotti o surgelati hanno ricominciato fare da mangiare.
«Si è scoperto il tempo e la possibilità di rallentare la propria frenesia quotidiana e dedicare qualche ora a creare i piatti d portare a tavola e consumare con la famiglia. I bambini sono stati riavvicinati alla cucina, hanno rimesso le mani in pasta, come si suol dire, riscoprendo una pratica anche fino a qualche decennio fa era in uso nelle case della nostra nazione. Spesso infatti i nipoti aiutavano le nonne a preparare la pasta fatta in casa, a cucinare i dolci, a tagliare verdure…
«Abbiamo volto diverse ricerche etnografiche su questa situazione e io stessa, come altri colleghi del resto, ho documentato con interviste e dialoghi le nuove abitudini. Nella fase 2 e 3 sembra che sia rimasta la volontà di dedicare qualche momento ella settimana a rientrare in contatto con il cibo, questo è certamente un segnale interessante.»
 
Lei è autrice di diverse pubblicazioni: «L'interdetto. Saggi antropologici sul concetto di esclusione», da poco uscito, come è strutturato e a che pubblici si rivolge?
«Il volume è strutturato in saggi, ogni capitolo è un saggio e tratta uno specifico argomento, una specifica figura interdetta o esclusa. Tutti i lavori sono frutto di decenni di ricerca nel campo antropologico, quindi non solo ricerca teorica o bibliografica, ma ricerca con e tra gli esseri umani.
«C’è un capitolo sulla figura dell’orso, prima re degli animali, simbolo di forza e regalità e oggi temuto e tenuto lontano oppure addomesticato nella figura del peluche che ogni bambino ha nella propria culla.
«Ho riflettuto su un’altra figura Viminale, quella del lupo, partendo dalla teorizzazione di Giorgio Agamben ho cercato anche nella dimensione antropologica il significato di questo accostamento tra uomo e lupo. Il primo capitolo invece presenta una riflessione sulla censura e l’autocensura, sulle pratiche, anche in società lontane dalla nostra, per esprimere dissenso nei confronti del potere: anche in questo caso si tratta di interdetti, di figure che si posizionano su di un confine.
«Il capitolo che preferisco riguarda non una persona o un animale ma un luogo interdetto da millenni: la foresta e la reazione ambigua che da sempre l’uomo intrattiene con essa. In questo caso ho attinto alla storia, alla letteratura e alla filosofia oltre che all’antropologia. Questo luogo che prediligo in assoluto è una sorta di altrove che attira e nello stesso tempo terrorizza gli esseri umani.
«Ma non voglio svelarvi di più altrimenti rovino al lettore le sorprese che vi sono all’interno di ogni sezione.»
 
Progetti editoriali futuri?
«Come ricercatori siamo chiamati a scrivere in continuazione: in effetti ho in preparazione alcuni altri volumi.
«Sto lavorando ancora sul territorio e sulla relazione tra paesaggio e agricoltura e sulla viticoltura in Trentino, da un lato, e su alcuni aspetti tradizionali della zona sudtirolese.
«Usciranno infatti due volumi collettanei di cui sono curatrice un nuovo mio volume monografico. Diciamo che le Alpi restano nel mio cuore.»

Daniela Larentis – d.larentis@ladigetto.it

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