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Splendida mostra al Buonconsiglio – Di Daniela Larentis

A Trento è in corso «I colori della Serenissima. Pittura veneta del Settecento in Trentino», a cura di Denis Ton e Andrea Tomezzoli, visitabile fino al 23 ottobre 2022

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Giambettino Cignaroli, La morte di Socrate, 1763-1764, Budapest, Szépm vészeti Múzeum.

È in corso a Trento «I colori della Serenissima. Pittura Veneta del Settecento in Trentino», allestita nelle splendide sale del Castello del Buonconsiglio, il più importante monumento storico-artistico della regione, per lungo tempo residenza dei Principi vescovi di Trento.
Curata da Denis Ton (Castello del Buonconsiglio) e Andrea Tomezzoli (Università degli Studi di Padova), la straordinaria mostra potrà essere visitata fino al 23 ottobre 2022 nei seguenti orari di apertura: 10.00 - 18.00, tutti i giorni escluso i lunedì non festivi.
 
Il Principato vescovile di Trento ha svolto per secoli un ruolo di cerniera tra il mondo italiano e quello tedesco, cui, istituzionalmente, fece parte, in quanto lembo meridionale del Sacro Romano Impero, confederato alla provincia asburgica del Tirolo.
Ciò ha determinato un linguaggio artistico composito, influenzato da esperienze artistiche diverse.
Tra le presenze più importanti spicca la pittura veneta che fu sempre tra le maggiormente apprezzate non solo nel Principato, ma anche più in generale in Tirolo e in tutta la confederazione imperiale.
 
Il percorso espositivo intende fornire un quadro delle presenze di artisti come Fontebasso, Cignaroli, Pittoni, Diziani, Guardi e di opere di maestri veneti nei territori del Principe Vescovo o del Tirolo meridionale tra la fine del Seicento e il Settecento, rivelando un’intensità di scambi che si possono ben comprendere per motivazioni storiche, per ragioni di gusto, per gli interessi e la formazione culturale dei committenti, per le relazioni che le comunità locali hanno intrattenuto con i principali centri della Repubblica di Venezia.
L’idea è quella di valorizzare molte opere già presenti nel territorio, oltre a dare spazio a prestigiosi prestiti provenienti dagli Uffizi, dal Museo di Belle arti di Budapest, dal museo americano di Toledo, dai musei civici di Verona, dal Museo Mercantile di Bolzano, dalla Morgan Library di New York e da collezioni private.
 

G. Pittoni, San Matteo e l'Angelo, Chiesa parrocchiale della Natività di Maria, Borgo Valsugana.
 
La mostra, impreziosita da un esaustivo catalogo (Scripta edizioni), è organizzata in sezioni: la prima è dedicata agli Antefatti seicenteschi e costituisce anche una sorta di anticipazione di temi che affiorano lungo tutto il percorso espositivo, caratterizzati dall’invio nella terra d’origine di opere d’arte da parte di singoli mercanti o di intere comunità trentine residenti a Venezia; la seconda è dedicata a un ciclo di soggetti profani di Simone Brentana, ben noto pittore che, veneziano di origine e formazione, dalla fine del Seicento era diventato uno dei protagonisti indiscussi della scena artistica veronese insieme ad Antonio Balestra e a Louis Dorigny; la terza alla pittura devozionale per il territorio mentre la quarta, cicli pittorici degli anni Trenta, indaga i perduti interventi a fresco di Louis Dorigny in duomo e a olio su tela di Fontebasso; uno dei focus della mostra è la pittura di quest’ultimo artista: la quinta sezione è dedicata a un ciclo di diciannove tele che Francesco Fontebasso eseguì nel 1759: obiettivo della mostra non è soltanto quello di riunire le tele superstiti del ciclo - attualmente divise tra varie collocazioni - ma anche i relativi modelletti preparatori.
 
In seno ai rapporti artistici tra la Serenissima e i territori del principe vescovo di Trento assumono un ruolo qualificante le presenze veronesi.
Di Giambettino Cignaroli fra l’altro sono esposti due superbi capolavori provenienti dallo Szépmüvészeti Múzeum di Budapest, «Morte di Catone» e «Morte di Socrate», dipinti commissionati all’artista dal conte trentino Carlo Firmian, personaggio di altissima caratura intellettuale, appassionato di letteratura classica, mecenate e amante delle arti, uomo di stato asburgico (si dedicò alla politica, ricoprì l’incarico di ministro plenipotenziario, fu governatore della Lombardia austriaca).
 
Le due tele resteranno nella collezione Firmian fino al 1782, anno della morte del ministro.
Verranno poi inventariate, come spiega in catalogo Stefano Ferrari, con tutti gli altri oggetti d’arte per essere esposti all’asta (dopo alcuni passaggi, verranno infine comperati da un conte ungherese, il quale li donerà alla sua morte allo Szépmüvészeti Múzeum di Budapest).
«I due dipinti non vengono realizzati simultaneamente – evidenzia in un passo del suo intervento critico Ferrari, – ma uno di seguito all’altro. Il 19 maggio 1762 la Morte di Socrate si trova ancora nello studio del pittore.[…].
«Secondo la testimonianza di Francesco Carattoli, contenuta nella lettera a Marcello Oretti del 25 agosto 1762, il dipinto a quella data è esposto nella collezione milanese del ministro plenipotenziario a palazzo Melzi. Il cantante, apprezzato collezionista, lo definisce la cosa più bella mai vista.»
 

Giambettino Cignaroli, La morte di Catone, 1760-1762, Budapest, Szépm?vészeti Múzeum.
 
Mette in luce Ferrari, sempre a proposito dei due dipinti: «Come ha dimostrato Joseph Geiger, i quadri sono due opere intimamente connesse tra loro, frutto di un unico programma iconografico.
«Se la morte di Socrate e quella di Catone sono state dipinte separatamente numerose volte tra Cinquecento e Ottocento, il parallelo invece, realizzato da Cignaroli, costituisce a tutti gli effetti un hápax nella storia della pittura europea.
«Dalle Vite parallele di Plutarco si evince distintamente che la morte di Catone è stata modellata su quella di Socrate. Nelle sue ultime ore di vita il generale legge dal Fedone di Platone la tragica fine del filosofo greco […].»
 
«La morte di Socrate», l’olio su tela conservato al Museo di Belle Arti di Budapest, ora in mostra al Buonconsiglio, mette in scena una delle morti più celebri dell’antichità.
Il grande filosofo è ritratto semidisteso, morente, una scena che rinvia al celebre dialogo Fedone, attraverso il quale Platone racconta le ultime ore di vita del suo maestro, polarizzando l’attenzione sul problema dell’immortalità dell’anima.
Il mito esprime quella che Platone chiama speranza, e che noi chiamiamo fede, rende ragione della speranza che è in noi, filosofare infatti non è altro che prepararsi al momento in cui la nostra anima lascerà l’abitazione del corpo.
 
Osservando il dipinto, colpisce la serenità del volto del filosofo, del resto Platone presenta Socrate come un uomo di ferma fede orfica, la morte per lui è liberazione per l’anima; la serenità innanzi alla morte è ben espressa da ciò che gli fa dire, ovvero «ho ferma speranza che per i morti ci sia qualcosa e che questo qualcosa, come si dice già dai tempi antichi, sia qualcosa di migliore per i buoni che non per i cattivi», quindi la morte per lui non è da considerarsi un male ma probabilmente il bene migliore per l’uomo.

Daniela Larentis – d.larentis@ladigetto.it


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