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La Chigi, «Trame» – Di Daniela Larentis

Protagonista insieme a Luca Medici della mostra da poco conclusa a Milano, organizzata dall’associazione «Circuiti Dinamici» – L’intervista

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La Chigi.

Materiali di uso industriale e di recupero di ogni tipo, objets trouvés e piccoli personaggi, carte riciclate e frammenti di un tempo passato si incontrano nel presente, nelle opere di La Chigi, un’artista nata a Bassano del Grappa ma trentina di adozione.
La sua arte invita a una riflessione sul presente, su una società dell’accumulo non più sostenibile, la nostra, che crea un benessere illusorio.
Una società individualista e perciò infelice.
La Chigi e Luca Medici sono i protagonisti di Trame, esposizione da poco conclusa a Milano, curata da Sonia Patrizia Catena e Lorenzo Argentino, organizzata dall’associazione Circuiti Dinamici.

I due artisti, vincitori del premio «Circuiti condivisi - nuovi punti di vista dinamici», sperimentano e recuperano materie di scarto per scrivere nuove trame simboliche, attribuendo senso all’esistente.
Sottolinea in un passo del suo intervento critico Sonia Patrizia Catena, a proposito dell’arte di La Chigi: «Ogni manufatto artistico di La Chigi è apparentemente ludico e da favola eppure contiene tutta l'intensità di una commedia umana, diventando una finestra problematica sul nostro presente e pretesto per trattare temi universali quali il distanziamento sociale, il covid, l'Olocausto, l'identità con i suoi condizionamenti sociali e i disagi psicologici, la distruzione della Terra e i problemi ambientali, la violenza domestica».
 

La Chigi, Il Paradiso perduto. Eva, part.
 
 Alcune brevi note biografiche prima di passare all’intervista 
La Chigi.
Nata a Bassano del Grappa, vive e lavora a Trento. Laureata in Lettere ad indirizzo storico-artistico (Trento), lavora attraverso installazioni e ready made con materiali non convenzionali e objets trouvés sul linguaggio e sulla Casa, spazio fisico e luogo dell’anima.
Le sue opere sono state esposte in mostre collettive, nazionali e internazionali, e personali in spazi pubblici e privati in Italia e all’estero tra cui la mostra dei finalisti di «ArtKeys prize» (2022 e 2020) ad Agropoli, «Ridefinire il gioiello» (2022) a Casalmaggiore (CR), il festival DeSidera (2021) a Trieste, i progetti curatoriali «Mediterraneo. La società del rischio», BACS, Leffe (BG), a cura di Patrizia Bonardi e «What does indifference mean?», Casa Natale Antonio Gramsci, Ales (OR), a cura di Margaret Sgarra, «Human rights?» a Rovereto (2022-2020) e Pride by your side 2021 a Roma (2021), la bipersonale Trame a Circuiti dinamici, Milano (2023) in quanto vincitrice di «CIRCUITI CONDIVISI – nuovi punti di vista DINAMICI» (2022) e le personali «Questa stanza non ha più pareti», Lazzaretto di Cagliari (CA) (2021), a cura della Galleria Siotto, Distanze alla Galleria Contempo, Pergine Valsugana (2020) e Altrove presso la Regione TN.A.A. (2020).
Fanno parte di collezioni pubbliche e private in Italia, tra cui quelle del Museo Andriollo (Borgo Valsugana) e della Regione Trentino Alto-Adige e sono state pubblicate su cataloghi tra cui lo special issue Covid19 della No Name Collective Gallery.
Abbiamo avuto occasione di rivolgerle alcune domande.
 

La Chigi, Il Paradiso perduto. Eva, part.
 
Quando è nata la passione per l’arte?
«Durante gli anni del liceo, già vedendo sui libri di scuola minuscole riproduzioni - indimenticabili quelle di opere di Tiziano (ultimo periodo), Zurbaran, Bosch e Goya - e poi in viaggio d’istruzione le opere di Grünewald nella chiesa di Colmar e la cappella degli Scrovegni a Padova.
«Durante il mio primo viaggio a Trento, la città dove ora vivo, prima dell’inizio del mio percorso universitario ho poi incontrato l’Amalassunta di Licini nelle sale del Mart ed è stato amore.
«Durante gli anni universitari, in Lettere moderne a indirizzo storico-artistico, ho continuato a studiare storia dell’arte e a frequentare anche per ragioni di studio il Mart, il museo d’arte contemporanea di Trento e Rovereto, durante la direzione di Gabriella Belli.
«L'interesse per il contemporaneo è diventato sempre più forte con un corso universitario tenuto dal professor Roberto Pinto e soprattutto grazie alle costanti visite alla Galleria Civica di Trento, dalla direzione di Fabio Cavallucci, che ha portato in città artisti internazionali e Manifesta 7.
«Ho potuto così conoscere il lavoro di importantissimi contemporanei che utilizzano medium differenti, di scriverne e poi anche di collaborare a un progetto con i Superflex.
«L'idea di diventare artista è nata negli anni duemila. È stato un trauma fisico importante a farmi capire da un lato la necessità di assumere un nuovo sguardo sul mondo, solo apparentemente più leggero ma più acuto, e dall'altro il mio bisogno di relazioni e connessioni. L’arte mi aiuta in questo.»
 
Quali sono le tecniche che predilige?
«Mi affascinano da sempre i materiali e mescolare tecniche diverse. Il tatto è il mio modo per conoscere il mondo e l’arte. Per me la realtà - che è fatta di oggetti - è costituita da una serie di rompicapi da risolvere - come quei viaggi nei mercatini alla scoperta di oggetti dalla funzione ignota -, misteri da svelare e connessioni da trovare per trovarsi.
«Gli oggetti per me sono fondamentali: parlano di noi e del nostro tempo, sono parte integrante della nostra quotidianità e lo scarto è per me occasione e motore d'arte, scelta ecologica e polemica nei confronti della società e dei suoi (dis)valori dominanti, ricerca di nuova autenticità. Il collage e l’assemblaggio sono quindi le mie tecniche preferite: sono materiche, permettono di avere un maggior controllo sul risultato finale dell’opera e una maggior rispondenza dello stesso col progetto iniziale - già nella mia mente molto dettagliato, - e sono potenzialmente veloci, almeno in teoria. Infatti, nel mio caso, il processo di realizzazione delle mie opere è molto lento, proprio perché in primo luogo parto da materiale di recupero, che quindi è stato raccolto in tempi lunghi, a partire da suggestioni di tipo analogico, libere associazioni e metafore. Inoltre collage e assemblaggio sono tecniche che mi permettono di giocare con i limiti degli oggetti, con la loro fisicità e utilità/uso e anche con le loro potenzialità, intervenendo magari con tecniche più tradizionali o integrandole, riutilizzando, riciclando e ri-significando.»
 

La Chigi, Initium.
 
Può parlarci della mostra «Trame»? Come è stata pensata?
«La mostra - a cura di Sonia Patrizia Catena e Lorenzo Argentino - è il premio del concorso «Circuiti condivisi - nuovi punti di vista dinamici», organizzato dall'associazione Circuiti dinamici.
«Il concorso seleziona, nel corso dell’anno, dalle esposizioni collettive dei vincitori per poi realizzare mostre bipersonali riunendo artisti con differenti linguaggi espressivi, trovando elementi di somiglianza o dissonanza. Il progetto premiato è stato Casa di bambola, una riflessione sull’identità come costrutto mutevole nel tempo e al tempo stesso immutabile, individuale e collettivo, sensibile alle pressioni e ai condizionamenti della società, a partire dai giochi dell'infanzia.
«Ci sono ruoli precisi a cui aderire, tappe obbligate di un copione già scritto e vestiti già pronti da indossare in un processo che ancora ciclicamente si ripete e che riguarda indistintamente maschi e femmine, ma che io ho scelto di esplorare da quest’ultima prospettiva analizzando una vita dall’infanzia fino al momento della morte in cinque piccole opere.
«La mostra Trame è stata concepita come un dialogo - non solo metaforico ma reale - e un incontro tra le mie opere e quelle di Luca Medici, che sono disposte in maniera anche speculare nello spazio, in un dialogo - fisico e simbolico - che appare a volte più vicino, a volte più distante, magari solo all’apparenza.
«Il sottotitolo dell’esposizione, Quando il periferico acquista senso, permette già di intuire come nelle nostre poetiche il materiale di scarto e povero sia un punto di partenza fondamentale nei e per i nostri lavori, arrivando poi ad esiti molto differenti, più vicini ad esiti figurativi e dadaisti nel mio caso e all’informale e alla pittura nel suo, più intimisti nel suo caso e per questo universali e più impegnati nel mio (visto che affronto questioni sociali quali la violenza di genere, l’inquinamento, la memoria ecc.), più ridotti nelle dimensioni, nel mio caso, più regolari invece nel suo. I curatori hanno scelto di presentare in mostra, oltre a Casa di bambole, molti dei miei lavori nati nel periodo della pandemia: una selezione dalla serie Janas, novanta storie virali in contenuti alimentari, già esposta nel 2020 in una personale alla Galleria Contempo a Pergine Valsugana, e la Piccola farmacia portatile e in intimacy. In mostra è stato presentato poi anche The game of life - finalista ad Artkeys prize 04 -, una sorta di gioco per imparare l’empatia, e lavori dedicati alla tematica ambientale come C’era una volta e Il paradiso perduto. Eva, alla tragedia dell’Olocausto come Different seasons e alle spose bambine con Imeneo. La sposa bambina. Luca Medici ha invece esposto la serie AIR_LESS e Via Lucis e dei recenti disegni.»
 

Piccola farmacia portatile, 2021.
 
«Distanziamento» è un progetto dello scorso anno, legato al periodo della pandemia. Qual è stato il suo punto di forza? Chi vi ha partecipato?
«Distanziamento è un progetto a cui sono molto legata e che è stato per me estremamente coinvolgente.
«È un lavoro di arte relazionale realizzato con 14 signore del Centro Servizi Anziani Contrada Larga di Trento, a partire dal secondo lockdown fino a marzo 2022. Compatibilmente con le restrizioni anti-Covid, grazie alla collaborazione di un’operatrice del Centro, siamo riuscite a raccontare la responsabilità e l’importanza del contributo dei singoli per il bene della collettività.
«Il progetto Distanziamento è stato infatti un modo per ricucire, metaforicamente e letteralmente, la nostra comunità, superando quella frattura creata dal forzato distanziamento sociale, in un rito collettivo di riparazione e condivisione, a partire dagli anziani, troppo a lungo dimenticati in questi due anni e addirittura considerati untori della pandemia, e in questo progetto valorizzati.
«Ciascuna delle signore coinvolte è stata chiamata a ricamare, separatamente, ognuna con i suoi tempi e senza vedere il lavoro delle altre, su un semplice fazzoletto bianco una delle lettere che compongono la parola distanziamento, terribile e allo stesso tempo necessaria in quel momento, utilizzando i colori della speranza e dell'arcobaleno, con il doppio vincolo di rispettare una forma e un colore prestabilito.
«L’aspetto straordinario è che ogni lettera parla della sua ricamatrice, rinviando alla scelta del punto, agli imprevisti in corso d’opera, agli aneddoti collegati al lavoro.
«Tutte queste storie sono state ricostruite attraverso i colloqui con Gemma Fiori, la mediatrice del Centro, che ha prima distribuito i materiali, mi ha mandato foto dei primi lavori realizzati e poi li ha raccolti, effettuando le interviste finali alle 14 signore a conclusione del progetto; i singoli contributi sono poi stati riuniti da me in un lungo arcobaleno.
«Paradossalmente, il ricamo della parola distanziamento ha quindi consentito di risignificare il termine, superando le distanze sia fisiche che emotive, il senso di isolamento, attraverso la nostra esperienza condivisa, dando un significato al nostro vissuto, sia individuale che collettivo.»
 

La Chigi, Leggerezza.
 
Da artista come ha vissuto la pandemia?
«Scomparsa la possibilità di fruire dell’arte altrui, io, che sono una divoratrice compulsiva di arte, ho dovuto placare la mia fame autoproducendo il mio cibo - in scatolette di pesce - e riprendere così a respirare e comunicare.
«Se quindi dal punto di vista artistico questo mi ha permesso di tornare a creare, è stato però un momento difficile soprattutto perché è venuta meno la possibilità di incontrare di nuovo le persone. Il virtuale non è stato in grado di colmare la distanza tra me e le altre persone.
«Per questo ho progettato molto per rincontrare gli altri, attraverso l'arte, in particolare quella relazionale. Un modo per ritrovarsi e - letteralmente - provare a ricucire il tessuto sociale, analizzare insieme ciò che stava accadendo e il modo in cui veniva raccontato.
«A partire dall’uso (distorto) del linguaggio e le sue conseguenze a livello psicologico sono quindi riuscita a coinvolgere in due diversi progetti gli anziani, troppo a lungo dimenticati, poi, quest’anno, grazie a Liberi da dentro, alcuni carcerati della Casa circondariale di Trento, durante la scuola estiva.
«Certo, è stato tutto molto lento, soggetto a ritardi e a rimodulazioni continue (il progetto (S)confinamenti era stato progettato due anni fa e non si è ancora concluso) ma anche foriero di nuovi incontri e connessioni e quindi stimolante.
«Questa situazione contingente mi ha permesso di approfondire, oltre il tema delle relazioni, anche quello della distanza - che protegge ma isola - e della difficoltà di comunicare che può tradursi in incomunicabilità. Su questi argomenti ho realizzato dei libri d’artista relativamente al progetto (di)STANZE, in cui ho utilizzato differenti codici comunicativi, dal verbale al visivo, dal Braille al Morse al qr, e al progetto In intimacy, in cui ho analizzato gli effetti del Covid all’interno delle relazioni: continui incontri mancati, arcobaleni impossibili, intimità sognate, attese e poi negate, che hanno svuotato dall’interno i rapporti, come rose secche che conservano ancora l’aspetto del fiore ma non più la vitalità e il colore.»
 

La Chigi, Salvami!.
 
Può condividere un pensiero in merito al progetto «Piccola farmacia portatile»?
«La Piccola farmacia portatile è una farmacia che paradossalmente non cura: i contenitori per i medicamenti sono desolatamente vuoti. Non ci sono soluzioni preconfezionate e semplici, pronte e subito disponibili, quelle soluzioni a cui siamo ormai assuefatti, rimozione artificiale di sintomi senza agire sulle cause, prendendo consapevolezza del problema.
«La Piccola farmacia portatile mette in luce infatti solo i risvolti emotivi e psicologici della pandemia. E’ un richiamo al disagio di cui non siamo consapevoli ma senza consapevolezza non può esserci cura. Non è andato tutto bene. Non va tutto bene.
«Liberi da restrizioni, siamo rimasti intrappolati in un malessere che nessuno pare voler riconoscere, troppo occupati come siamo ad andare oltre, a riprendere una folle corsa e a rimuovere collettivamente ciò che è accaduto.
«La serie si innesta sul percorso iniziato dalla serie Janas, 90 lavori e storie virali con ready-made, oggetti e installazioni, concepite e realizzate durante il periodo del lockdown, case interiori per restituire spazi di vita, benessere e visibilità alle persone recluse nelle loro abitazioni, recuperando una dimensione sociale.
«Ogni opera in scatola della Piccola farmacia portatile interpreta quindi in maniera surreale un nostro disagio psicologico che però occupa metaforicamente tutto lo spazio, lente deformata per guardare il mondo, in un dialogo concettuale tra supporto - scatolette di pesce -, sfondo, omini in miniatura, oggetti e titoli prima poetici e poi scientifici: si va dai disturbi alimentari al burnout, alla sindrome della capanna agli attacchi di panico e molto altro.
«La serie non è completa ma in divenire, costante monitoraggio dell’emergere di nuovi disagi con cui è importante cominciare a fare i conti.»
 
Come è nato il progetto «Janas»?
«La serie Janas è costituita da 90 lavori, storie virali con ready-made, oggetti e installazioni, concepite e interamente realizzate durante il periodo del primo lockdown, con materiali di recupero, all’interno di contenuti ad uso alimentare. Case interiori per restituire spazi di vita, benessere e visibilità alle persone recluse nelle loro abitazioni, recuperando una dimensione sociale.
«La serie, esposta per la prima volta e per intero alla Galleria Contempo di Pergine, è stata concepita come una vera e propria terapia contro il buio, contro la paura che rischiava di soffocare le nostre vite durante quel periodo in cui eravamo ossessionati dal cibo e non pensavamo né alle nostre anime né al nostro benessere interiore e psicologico e in cui le nostre case si erano trasformate prima in fortezze e poi in prigioni.
«Con 90 piccole opere ho ripopolato il mondo deserto per l'arrivo del virus e le scatolette di pesce sono diventate nuove Case, piccole ma della giusta misura per piccoli omini in miniatura, che con l'aiuto di oggetti fuori scala, recitavano i loro sogni e i loro desideri. Piccoli mondi in cui cercarsi per specchiare se stessi e ritrovarsi.»
 

La Chigi, Vanitas, 2022.
 
La casa rappresenta uno spazio fisico ma anche mentale. Che significato le attribuisce attraverso la sua arte?
«La Casa è per me un luogo in cui rifugiarsi ma anche in cui stare, immersi nell'ozio bello tra letture e visioni, negli affetti e nella morbidezza delle gatte. È il luogo dell'interiorità in cui stazionare circondati da oggetti portatori di bellezza che generano emozioni, nutrendo occhi e cuore.
«Casa è un luogo da cui uscire per lavoro e per piacere, per immergersi in altri luoghi non solo fisici ma soprattutto mentali e spirituali, per poi farvi ritorno. Non per tutti però la Casa è questo: è più spesso solo un dormitorio per solitudini sempre maggiori, un luogo di transito e mai di stazionamento, quasi un non luogo, simile più a una prigione che non a una accogliente tana.
«Esiste quindi una distanza eccessiva tra lo spazio che abitiamo e lo spazio che siamo che io cerco di colmare costruendo nuove case in scatolette di pesce e contenitori vari.
«Durante la quarantena la scatoletta è stata per me fonte non solo di cibo per il corpo ma soprattutto per l'anima e la mente. Lo scarto e il limite - fisico e mentale delle scatolette - sono diventati possibilità e nuovo spazio di vita per umani in miniatura, riduzione lillipuziana del tutto. Le mie scatole sono quindi diventate metafora di una nuova Casa, dalla condizione di forzoso e forzato isolamento e di solitudine in cui ci eravamo trovati al superamento immaginifico di quel limite.
«Le scatolette erano il limite fisico e psicologico che abbiamo abitato - e che spesso abitiamo inconsapevolmente, - la nostra piccola Casa anche interiore, che doveva essere aperta verso l’esterno perché si stava pian piano chiudendo attorno a noi, impedendoci di respirare.
«Quel limite - fisico e mentale - da chiusura è diventato apertura e quindi le scatolette sono diventate finestre su un mondo di possibilità, nuovi spazi di vita collettiva. La scatola è diventata Casa, con il suo bagaglio di sogni e amore, ma anche di conflitti.»
 
Progetti futuri/sogni nel cassetto?
«Ad aprile le opere della serie Janas, dopo essere state esposte in luoghi fortemente simbolici, quali l’antica Farmacia Garlaschelli (Ponte in Valtellina, 2021) e il Lazzaretto di Cagliari (2021), avranno la possibilità di abitare un ex rifugio antiaereo, chiamato però bunker, instaurando un interessante dialogo tra passato e presente e invitando a una riflessione sulla funzione degli spazi e sul linguaggio.
«Nell’occasione anche l’opera Distanziamento creerà nuove connessioni con altre comunità nel tentativo di creare un nuovo tessuto sociale.»

Daniela Larentis – d.larentis@ladigetto.it

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