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Roberto Codroico espone a Trento – Di Daniela Larentis

«Volare alto, pensare altro, andare oltre», la mostra inaugurata lo scorso 20 giugno sarà visitabile per due mesi presso il Grand Hotel Trento – Intervista all’artista

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«Volare alto, pensare altro, andare oltre», è il titolo dell’ultima interessante mostra di Roberto Codroico, inaugurata mercoledì 20 giugno 2018 nelle bellissime sale del Grand Hotel Trento di Piazza Dante, con intervento critico di Nicoletta Tamanini.
L’evento è promosso da due associazioni molto attive in città, la Mafalda Donne Trento APS e la Inner Wheel Trento Castello Carf.
L’allestimento è stato curato da Nicola Cicchelli (che segue per l’hotel le esposizioni di vari artisti). Ad impreziosire l’esposizione un esaustivo catalogo i cui testi sono di Nicoletta Tamanini.
Sarà visitabile fino a fine agosto 2018.
 
È la critica d’arte Nicoletta Tamanini a presentare al folto pubblico in sala la mostra e a delineare in maniera approfondita la personalità e il percorso artistico di Roberto Codroico, un artista dotato di forte carisma che conta al suo attivo anche un’importante esperienza nel campo dell’architettura.
Nato in Germania nel 1945, vissuto per molti anni in Veneto e di adozione trentina, Roberto Codroico è, infatti, anche un noto architetto: per molti anni è stato responsabile della tutela e restauro dei principali monumenti e centri storici del Trentino, nonché autore di diversi saggi sull’argomento, docente universitario e studioso e storico dell’arte.
 
Ed è proprio la curatrice a sottolineare quanto sia ricco di sfumature il profilo biografico e psicologico dell’artista: «Profondo conoscitore delle avanguardie storiche, attento lettore delle inquietudini storiche, politiche, sociali ed artistiche di un territorio di confine come quello in cui egli opera da lungo tempo e sensibile ai fermenti culturali di un’Europa contemporanea travolta dalla globalizzazione, Roberto Codroico capta da sempre stimoli di varia provenienza e natura fondendoli in idee nuove, originali sperimentazioni e, spesso, anche divertenti proposte».
 

 
Un artista, Codroico, che ama sperimentare diversi linguaggi e che riesce ad esprimere al meglio la propria creatività attraverso sia la pittura che il sapiente uso di oggetti di varia natura, dando vita ad opere complesse, mai banali, come le sue caratteristiche «scatole», o meglio, «spazi a forma di scatola», come lui stesso le definisce, ma anche attraverso l’applicazione della sua arte a capi d’abbigliamento (lui stesso, durante l’intervista, indossa una splendida cravatta-opera).
Risalgono agli inizi degli anni Settanta del Novecento le sue prime scatole, degli oggetti prima costruiti con materiali diversi e poi in legno, entro i quali l’artista racchiude la complessità di tutto il suo universo narrativo, un intero mondo che lui crea attingendo dalla sua sconfinata immaginazione.
«Se per un certo periodo non era stato importante conservare le mie sperimentazioni – racconta, – a un certo punto ho sentito il bisogno di creare opere concrete, oggetti da possedere e da conservare, così ho iniziato a costruire degli spazi a forma di scatola.»
 
Tornando ai quadri, la sua pittura è fatta di colore e un segno grafico che lui chiama «linea» (la realizza in un tempo assai breve, che però «comporta un lungo tempo di concentrazione, fisica e mentale», ci spiega), colore che apprende dalla pittura veneta e dai grandi artisti del passato, nella città dove è cresciuto, Padova, e a Venezia, dove ha studiato architettura (e dove per un anno ha anche frequentato l’Accademia di Belle Arti).
Studente universitario, quindi, all’epoca delle contestazioni studentesche e operaie, ove – lui stesso spiega – «tra uno sciopero e l’altro, tra una manifestazione di piazza e un’assemblea studentesca, ho continuato a far scorrere la matita su piccoli pezzi di carta di recupero, iniziando così una ricerca formale, forse un po’ borghese e decadente, senza apparente ideologia e impegno politico.»
 
Nell’occasione dell’inaugurazione lo abbiamo incontrato e abbiamo avuto il piacere di porgergli alcune domande.
 

 
Architetto affermato, docente universitario, studioso e storico dell’arte, la sua è una personalità eclettica: quando nasce in lei la passione per l’arte e per la pittura in particolare?
«Presto, fin da bambino amavo disegnare. Ho iniziato a raccogliere sistematicamente i miei disegni nel 1963, la raccolta personale dei miei lavori parte da questa data, anche se ho incominciato in realtà molto prima.»
 
Lei è sempre stato molto attivo, ha prodotto moltissime opere nel corso di questi lunghi anni, non tutte le ha esposte. Può darci qualche breve informazione sugli anni che hanno preceduto il suo arrivo a Trento?
«Una volta laureato a Venezia in Architettura - a quei tempi abitavo a Padova, una città con una massiccia presenza di ingegneri e architetti per l’esistenza della nota università, vicina peraltro a quella di Venezia - vinsi un concorso a Trento, dove arrivai nel 1977 con funzioni di sovraintendenza, in una situazione piuttosto difficile nel rapporto con i colleghi architetti, in quanto in quel periodo ero molto spinto dal punto di vista artistico.
«Vivevo, infatti, la fase finale di un lungo periodo di ricerca e sperimentazione, che mi aveva portato nel 1969 a visitare spesso a Locarno lo studio di Hans Richter, maestro riconosciuto del cinema astratto, il quale mi raccontò delle sue esperienze e dei suoi rapporti con gli artisti, delle avanguardie storiche, delle sue frequentazioni e delle sue amicizie.
«Le mie sperimentazioni di quegli anni erano influenzate dalle opere di Vlado Kristl, Kurt Kren, Otto Muehl e dagli artisti della cosiddetta Scuola degli Azionisti Viennesi aggregati attorno alla P.A.P. Filmgalerie di Monaco, diretta da Karlheinz, e conosciuti a Venezia a margine di un seminario tenuto da Gianni Rondolino nell’ambito della Biennale di Venezia. Seminario che frequentai e ove ebbi occasione di entrare in contatto con questi artisti, sui quali qualche tempo dopo scrissi un articolo dal titolo Un giorno della primavera del 1961, che Guido Aristarco pubblicò sulla rivista Cinema Nuovo.
«Poi, per un certo periodo ho scelto di non esporre, continuando a lavorare e a realizzare opere, anche se ho partecipato di tanto in tanto a qualche mostra, come quella, tanto per fare un esempio, organizzata dall’arch. Sergio Giovanazzi nell’ambito del Circolo Trentino per l’Architettura Contemporanea, un’esposizione allestita nel 1994 presso il Convento dei Cappuccini a Trento, in occasione della quale ho presentato 140 opere.
«Ora che dal punto di vista lavorativo sono più libero ho iniziato nuovamente ad esporre.»
 

 
Potrebbe delineare le tappe principali della sua evoluzione artistica?
«La mia pittura inizialmente è figurativa, utilizzo in questo periodo i segni per dare vita a una pittura che ha come soggetto principale la figura. Per un lungo periodo ho continuato a dipingere teste e nudi femminili (iniziando anche a fotografarli) alternati a crocefissioni, qualche natura morta, paesaggi.
«Lentamente sono passato da un segno chiuso a un segno che è diventato sempre più astratto, la figura non è più cercata in questa fase, anche se si individua facilmente. Questa trasformazione verso l’astratto si deve anche all’incontro e alle frequentazioni con alcuni personaggi internazionali come Hans Richter, uno dei fondatori del movimento DADA, come ho anticipato prima, e con una serie di artisti, le cosiddette avanguardie viennesi, di cui scrissi in un articolo nel 1972.
«Sintetizzando, attraverso tutta una serie di sperimentazioni posso dire di essere arrivato all’astratto e poi alla pittura attuale, la quale rispetto agli anni Settanta è probabilmente più lineare, più ricercata nella forma che non nella sperimentazione. Questa mia evoluzione artistica si affianca alla mia esperienza nella tutela e restauro dei monumenti.»
 
Quali sono le tecniche da lei utilizzate nella realizzazione delle sue opere?
«La tendenza generale oggigiorno è quella di non utilizzare più un’unica tecnica, molti artisti ne usano diverse, dal colore alla matita, al collage, ecc. Anch’io amo spaziare, uso diverse tecniche fra le quali figura anche la fotografia, la tempera, l’acrilico, ma anche l’acquarello, il collage. Lavorando in casa ho escluso la pittura ad olio principalmente a causa dell’odore che provoca, mi piace anche creare capi d’abbigliamento, cravatte, abiti, borsette, mi dedico anche all’oreficeria (in mostra, in una vetrina, sono esposti alcuni gioielli ed oggetti di oreficeria che ho realizzato in collaborazione con un noto orafo, con il quale saltuariamente collaboro da anni). In quest’ultimo periodo ho dipinto anche oggetti di design come per esempio alcune sedie.»
 

 
Quali sono i soggetti o le situazioni da cui trae maggior ispirazione?
«Non essendoci oggi un committente o una richiesta di fare qualcosa di specifico, come succedeva in passato, ai giorni nostri ogni quadro rappresenta l’artista stesso. Egli nella nostra epoca è davvero libero di esprimersi. Dipingere è un po’ come sognare: in sogno diamo voce alle nostre gioie, alle nostre paure, alle nostre emozioni più profonde, non c’è controllo.
«Così anch’io, con la stessa libertà, mi metto innanzi al foglio e mi lascio trasportare: inizio e non so mai quale sarà il risultato finale. L’elemento più interessante del mio lavoro artistico è il segno e, naturalmente, il colore.
«Nella nostra epoca del consumismo esasperato, dove in una parte di mondo c’è abbondanza, spreco, cerco di ridurre tutto all’essenziale, alla pura linea, che può essere grossa, dritta, curva, spezzata, intrecciata, nervosa, calma, aggressiva, ecc., ma che per me è, soprattutto, sottile, uniforme e continua.
«Essa scivola silenziosa sul foglio, s’interseca, a volte bruscamente altre armonicamente, compone forme e spazi, rapporti e contrasti, ma soprattutto rivela sensazioni ed emozioni.»
 
Rispondendo in maniera molto sintetica, che messaggio vuole trasmettere attraverso i suoi lavori?
«Non c’è in realtà un messaggio intenzionale, tuttavia nelle mie opere si coglie l’attenzione verso l’ambiente che mi circonda e anche tutte le tematiche ad esso collegate.
«Naturalmente, la mia professione ha influenzato il mio modo di fare arte, faccio un esempio: per molti anni ho seguito il restauro del Duomo di Trento; a distanza di tempo mi sono accorto che certe forme osservabili in alcuni lavori ricordano le foglie che stanno alla base delle colonne del Duomo.
«L’architetto Sergio Giovanazzi, cogliendo proprio quest’aspetto, ha fatto un’accurata indagine sul regionalismo della mia pittura astratta.»
 

 
Che cosa rappresenta per lei, oggi, dipingere?
«Per me dipingere è un modo di vivere, una necessità che io ho, è un modo per guardarmi allo specchio, di fissare su di una superficie con segni e colori il trascorrere della vita, è un mio modo di esprimermi indipendentemente dal fatto di mostrare o meno i miei lavori. Ogni giorno produco qualcosa rimanendo in casa, evitando così di dover uscire, di andare in studio, anche se lo studio un po’ mi manca.»
 
Ha in agenda un’esposizione delle sue opere anche in spazi istituzionali?
«Non è ancora stato stabilito nulla di preciso a riguardo, anche se mi è stato chiesto di esporre le opere relative al periodo figurativo (dal 1968 al 1970 più o meno) a Torre Mirana, Trento, in via Belenzani, presumibilmente verso la fine del 2018, più o meno a Natale.
«L’intenzione sarebbe quella di mostrare il passaggio dal figurativo all’astratto, delineando le tappe principali di questa trasformazione, anche alla luce degli incontri avvenuti nel tempo con personaggi di fama nazionale e internazionale, di cui ho accennato prima, rispondendo alle sue domande.»
 
Quante sono le opere esposte e fino a quando sarà visitabile la mostra?
«Sono esposte 23 opere. La mostra sarà visitabile fino a fine agosto».
 
Progetti futuri?
«Continuare a dipingere, alzarmi ogni mattina assecondando questa necessità, dipingere è per me, come affermai anni fa in un articolo, come guardarmi allo specchio.»
 
Daniela Larentis – d.larentis@ladigetto.it

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