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Antonello Serra, l’arte antica dei simboli – Di Daniela Larentis

Il noto artista sardo di adozione trentina attraverso la sua pittura ricca di simbolismi narra la storia arcaica della sua terra di origine – L’intervista

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Antonello Serra è un artista sardo di adozione trentina, molto apprezzato sia in Italia che all’estero.
I suoi primi approcci con la pittura risalgono a una trentina di anni fa, quando nel lontano 1987 iniziò il suo percorso artistico riproducendo opere di grandi pittori, fra i quali De Chirico e poi Salvador Dalì, il suo grande maestro ispiratore.
Da allora, sempre animato da una grande passione e determinazione, di strada ne ha fatta tanta, in estrema sintesi possiamo dire che la sua avventura di pittore è iniziata a Usellus, paese natale in provincia di Oristano, da dove è partito pieno di sogni e di speranze; attraverso varie vicissitudini è giunto in Trentino dove vive e lavora da molti anni, raccogliendo molte soddisfazioni.
In trent’anni di attività conta al suo attivo numerosissime e importanti mostre, sia collettive che personali, esponendo in molte regioni italiane e in gallerie private a Barcellona e a Berlino, tanto per citarne alcune oltreconfine.
 
L’universo simbolico in cui ci si immerge, osservando le sue opere, è ricco di fascino: ogni dettaglio colpisce l’attenzione dell’osservatore, richiamando alla mente la storia della sua terra di origine.
Quei simboli non sono che dei significanti che rimandano a dei precisi significati, rinviano a quel mondo di tradizioni nuragiche a cui l’artista attinge con orgoglio, dando vita a opere contemporanee di grande suggestione.
La sua è una pittura materica dalle tonalità ricorrenti: il nero, le ocre, i verdi, gli azzurri e l’immancabile bianco, sono i colori che lui più utilizza e che meglio rappresentano le cromie naturali della sua amata Sardegna.
 

Antonello Serra.
 
A proposito della sua arte, evidenziava una decina di anni fa o poco più lo stimato critico e scrittore Fiorenzo Degasperi (il quale ha curato per lui numerose mostre, fra cui la recente «I colori dell’anima», un’importante antologica del 2018, impreziosita da due volumi dedicati alla sua arte).
«È un vaso di Pandora dell’inconscio quello che Antonello Serra ha aperto molti anni fa. I venti che ne sono usciti hanno strane forme, volumi. Uomini che hanno intessuto legami magici con il mondo vegetale, con quello minerale. Hanno intrecciato storie e umori, paure ed angosce, speranze ed illusioni.
«Ed è proprio l’ammirazione, o il timore, o ancora il desiderio di magia, intesa come strumento nato dalla volontà di togliere i sette veli che rivestono la conoscenza, che hanno portato l’artista a creare prodigiosi esseri che popolano queste opere. Che attingono alla pentola ribollente del surrealismo, alla sua grande capacità di narrare e, ancor oggi, di raccontare, gli stati d’animo, le pulsioni, le irriverenti incursioni della mente nel territorio del desiderio o del suo silenzio.»
 
Qualche anno più tardi, lo stesso curatore sottolineava un allontanamento dell’artista dalle suggestioni surrealiste per inoltrarsi nell’affascinante terreno di una nuova ricerca formale e cromatica ricca di simbolismi, collegata all’antica storia della sua terra di origine.
Scriveva Fiorenzo Degasperi nel 2010, a proposito di questa evoluzione: «Lo troviamo dopo qualche anno di lavoro con una tavolozza rielaborata. Uscito dal labirintico universo surreale, ha avuto il bisogno di riappropriarsi del proprio passato, della propria terra. E lo ha fatto utilizzando con maestria la ricchezza dei segni arcaici e archetipi che contraddistinguono la preistoria e la storia della terra sarda…
«Scorrendo queste opere si capisce come l’artista abbia voluto, più che costruire delle immagini pittoriche, offrirci delle vere e proprie porte su un al di là e su un passato ricco di miti, credenze e leggende che hanno creato con il tempo una geografia culturale stratificata da cui ancor oggi siamo affascinati, attratti, trasportati.»
 

Ciclo Civiltà Invisibili.
 
L’arte di Antonello Serra si è evoluta, ha subito una metamorfosi che lo ha condotto a nuove sperimentazioni, come del resto evidenziano i vari cicli di opere che si sono via via susseguiti nel tempo.
Spiega l’autorevole critico d’arte Maurizio Scudiero, riferendosi a «Civilità invisibili», la mostra di Antonello Serra allestita a Palazzo Thun, Trento, da lui curata nel 2016: «Credo che dopo aver visto questa mostra pochi potranno ancora pensare ad Antonello Serra come ad una promessa dell’Arte Trentina, proprio perché, di fatto, la sua è una promessa mantenuta.
«Non a caso nel mio recente libro sull’Arte Trentina del Secolo XX l’ho inserito tra quello sparuto gruppo di artisti più o meno giovani che, a mio avviso, meglio rappresentano quello che si sta agitando in Trentino a quindici anni dall’inizio del nuovo secolo. E questo perché la sua arte, che aveva preso le mosse dall’area surrealista e simbolista, e che in seguito, e specie nelle opere degli ultimi anni, aveva imboccato una via materica (nel senso dell’uso di varie materie su una base pittorica) è infine, nel 2009, approdata ad una ricerca antropologica, cioè di profondo recupero di figurazioni e simboli arcaici riferiti al Genius Loci della sua terra di origine, che è la Sardegna e che lui definisce come Infrusiadas.
«Dunque la sua è una pittura (se ancora si può definire così…) colta, perché il suo è un percorso di conoscenza che ci porta dunque a conoscere la storia arcaica della sua terra di origine. E questo è propriamente il lavoro dell’artista, che, sì, è vero, di solito è come un’antenna che sente o pre-sente le situazioni sociologiche in quanto dall’avvento delle avanguardie in poi l’Arte ha cessato di essere un’estetica-in-atto per divenire un vero e proprio evento sociologico (in atto), ma, l’artista è ormai anche un operatore culturale: è cioè chi ci fa vedere in chiave estetizzante quelle che sono tracce significative della nostra storia.
«Questo perché nessun futuro, e dunque nessuna spinta verso il futuro (anche quella delle avanguardie), è possibile senza una profonda conoscenza del nostro Passato».
 
A Maurizio Scudiero è stata affidata la direzione artistica della collettiva «Artisti a Statuto Speciale», la prestigiosa mostra giunta alla sua terza edizione che verrà inaugurata il prossimo 1° giugno a Palazzo delle Albere, Trento, a cui sono collegati una serie di importanti eventi.
Ne abbiamo parlato con lo stesso Antonello Serra, ideatore del progetto. Incontrandolo a Trento abbiamo avuto il piacere di rivolgergli alcune domande.
 

Ciclo Civiltà Invisibili.
 
Quando è nata la passione per la pittura?
«Ho sempre avuto la passione per il disegno e la pittura. Già sui banchi di scuola mi piaceva disegnare, ritraevo moltissimi animali, preferendo quelli possenti come il toro e il leone. Il toro, in particolare, era un tema ricorrente, che poi ho affrontato artisticamente anche in età adulta. Ero un bambino piuttosto timido, che amava esprimere le proprie emozioni utilizzando la matita e i colori.
«Successivamente, durante l’adolescenza, ho scoperto l’erotismo, trasferendo le mie pulsioni sulla carta, con grande gioia dei miei amici, i quali sembravano apprezzare molto i miei disegni (molto meno le mie insegnanti, che mi spedivano dal preside sollevando un gran polverone).
«Verso i 17 anni ho iniziato a sperimentare la pittura a olio. Più avanti mi sono dedicato all’approfondimento di numerose altre tecniche, senza mai abbandonare l’olio.»
 

Ciclo Fondali.
 
Che tecniche utilizza nella realizzazione delle sue opere?
«Inizialmente, quando ero ancora adolescente e nei primi anni della mia formazione artistica, mi sono dedicato alla riproduzione. Il primo quadro che ho dipinto a olio su tela è stato una riproduzione di un quadro del Depero.
«Riprodurre opere di grandi artisti mi ha consentito di esercitarmi a lungo, la riproduzione è molto importante, consente di affinare le varie tecniche, io la consiglio sempre ai giovani artisti autodidatti che vogliono imparare a dipingere.
«In particolare, amavo riprodurre le opere metafisiche di De Chirico e quelle surrealiste di Dalì. Mi piaceva molto Salvador Dalì, ho studiato a fondo tutta la sua opera, tanto che la prima parte della mia produzione artistica (quella che parte dal 1989) è stata spesso definita surrealista, proprio perché ispirata al movimento artistico di cui Dalì fu un celebre esponente.
«Poi, ho sviluppato un mio personale stile. Nel tempo ho utilizzato diversi materiali e moltissime tecniche, fra cui il frottage (dipingendo l’Inferno dantesco ho raggiunto la massima padronanza della tecnica, che prevedeva diverse stratificazioni e molti passaggi; in questo ciclo ho trasferito sulla tela ciò che l’opera di Dante ha significato per me, la mia personale interpretazione). Io nasco come surrealista, per 20 anni la mia è stata la classica pittura piatta che la maggior parte degli artisti utilizzano; poi, nella realizzazione dei vari cicli di opere che affondano le radici nella tradizione sarda nuragica, ho introdotto diverse tecniche e l’utilizzo di vari materiali poveri, come la juta, terre, pigmenti, legni.»
 

Ciclo Inferno - I ladri.
 
Ci sono dei colori che preferisce ad altri?
«Un tempo mi piacevano molto i colori scuri: il nero in particolare, un colore che utilizzo molto anche adesso. Da piccolo, l’immagine delle donne vestite di nero con il velo mi spaventava molto, è un colore che ha sempre suscitato in me forti emozioni.
«Poi mi piace il bianco e le ocre, qualche verde ossido, l’azzurro; non utilizzo molti colori in verità, sono le tinte che meglio rispecchiano i colori della Sardegna. Io stesso me li creo, non mi piacciono quelli già preparati che si trovano in commercio.»
 
Da dove trae maggiormente ispirazione, dalla natura o sono le persone a destare in lei più curiosità e interesse?
«Il mio oggetto di interesse è sicuramente il mondo delle tradizioni, quindi le persone e la loro cultura, in particolare la cultura nuragica, che si sviluppò in Sardegna in tempi antichissimi, dall’età del bronzo all’età del ferro.»
 

Ciclo Inferno - I violenti.
 
Una parte della sua produzione artistica sembra evocare scenari onirici, rimanda a visioni surrealiste. Nei «Segni» le opere assumono il ruolo di significanti che sembrano rinviare a dei precisi significati. Cosa rappresentano, brevemente, le opere di questo ciclo?
«Sono ispirate alla cassapanca sarda, realizzata in legno di castagno, incisa dagli artigiani con dei simboli floreali, geometrici e religiosi. La colombella, per esempio, era simbolo di fertilità, i cinghiali della caccia, ce ne sono moltissimi con significati diversi.
«A casa della mia mamma c’era un’antica cassapanca di 400 anni fa, io ne sono sempre stato affascinato e mi è stata di grande ispirazione (mi sono ispirato proprio a questa cassapanca). Ogni paese utilizzava oltre a simbologie comuni i propri simboli.
«Il ciclo nasce da un sogno, ho visualizzato questa grande cassapanca che scendeva dal cielo e ne ho trasferito la simbologia sulla tela. È un ciclo che mi ha impegnato per vari anni (più o meno cinque-sei anni). Poi ho sviluppato altri cicli, sempre attorno al tema della tradizione sarda nuragica, come quello delle Tracce della memoria, delle Tabelle nuragiche, ossia delle tavole su legno che riportano delle incisioni monocromatiche, Infrusiadas (passaggi veloci), Civiltà invisibili, l’ultimo ciclo a cui sto lavorando, ispirato a varie divinità, come il dio Toro; il ciclo delle Grandi madri, con la dea madre».
 
Perché le ha chiamate «civiltà invisibili»?
«Le ho chiamate così perché, chi viene in Sardegna, di solito assapora altri aspetti della nostra cultura, come il cibo, la bellezza dei nostri paesaggi, il mare, la natura, solo pochi dimostrano interesse verso queste antiche civiltà i cui resti sono sotto gli occhi di tutti, la Sardegna è un museo a cielo aperto!»
 

Ciclo Infrusiadas - Segni.
 
Si è da poco conclusa la mostra Il Muro al muro, allestita negli splendidi spazi di Torre Mirana per ricordare la caduta del Muro di Berlino. Può raccontarci qualche curiosità a riguardo? Che opere ha esposto?
«Un giorno io e Fulvio Pinna, il noto artista sardo che vive da moltissimi anni a Berlino (da prima della caduta del Muro, è un artista molto noto e fu il primo a dipingerne nel 1990 la parte est), e con il quale collaboro da anni a vari progetti (mi ha invitato a diverse esposizioni importanti), ci siamo trovati a casa mia.
«Nell’occasione, abbiamo parlato di quel preciso periodo storico, riflettendo sul fatto che sarebbe stato bello creare una mostra, coinvolgendo artisti italiani e tedeschi per ricordare quell’evento, al fine di trasmettere attraverso l’arte il valore della libertà, l’idea di libertà espressiva, anche attraverso la riscoperta del valore delle tradizioni.
«Essendo troppo impegnato, ho chiesto a un altro artista, Gentile Polo, di occuparsi lui dell’organizzazione della mostra. L’esposizione, alla quale hanno partecipato numerosi artisti italiani e due tedeschi (Fluvio Pinna e Günter Schaefer, i quali dipinsero il Muro), è stata molto apprezzata dal pubblico che è venuto numeroso a visitarla. Io ho esposto alcune opere che fanno parte del ciclo delle Civiltà invisibili
 

Ciclo Infrusiadas - Segni.
 
Il 2018 è stato un anno molto impegnativo. Fra le diverse personali potrebbe menzionarne alcune?
«La retrospettiva I colori dell’anima, allestita a Madrano in una villa del 1500, Palazzo Bertolini. Si è trattato di una mostra antologica molto importante, curata da Fiorenzo Degasperi, che copre il periodo 1989-2018. In quell’occasione ho presentato anche i due volumi, curati da Fiorenzo Degasperi, da cui è nata l’esposizione: il primo intitolato Io narrante, che va dal 1989 al 2007 e si riferisce al periodo surrealista, e il secondo, Il ritorno alle origini, che rimanda al periodo successivo, quello fino ad oggi.
«La seconda mostra era intitolata Arria, allestita a Castel Pietra, a Calliano, Trento, curata da Roberto Codroico. Arria è l’anello che veniva applicato al naso del toro per calmarlo. Questo titolo rimanda alle tradizioni sarde e si collega al dio Toro e alle corna taurine, simboli che si collegano alla storia nuragica. Avrei dovuto fare questa mostra al Castello di Drena, poi purtroppo diventato inagibile a causa del crollo di un muro.
«Una terza mostra che vorrei ricordare è quella di Borgo Valsugana allo Spazio Klien, dal titolo Infrusiadas, curata da Fiorenzo Degasperi, in cui ho proposto opere appartenenti a tre cicli pittorici: Città invisibili, il ciclo La dea Madre e Tracce della memoria
 

Ciclo Infrusiadas - Segni.
 
«Artisti a Statuto Speciale», la mostra curata da Maurizio Scudiero, prenderà il via fra qualche giorno a Palazzo delle Albere. Come è nata l’idea di questo progetto artistico ideato da lei, a cui ha collaborato Paolo Sirena?
«Si tratta di un mio progetto, in collaborazione con Paolo Sirena, direttore della Fondazione Meta di Alghero, il quale ha curato la parte relativa agli artisti sardi.
«Questo progetto artistico è alla sua terza edizione. Nel 2014, mi era venuta l’idea di creare una mostra con opere di artisti sardi e trentini, una sorta di gemellaggio artistico fra le due regioni. Furono invitati otto artisti sardi e otto trentini, i primi seguiti da Paolo Sirena in Sardegna, i secondi da Maurizio Scudiero in Trentino.
«La mostra fu inaugurata nel 2015 a Trento negli spazi di Torre Mirana, e poi portata in Sardegna, nel museo di Sa Corona Arrùbia, in provincia di Cagliari, e a Museo Deriu, a Bosa. Ebbe successo e così si decise di riproporla. Nel 2017 il progetto è stato esteso ad artisti provenienti dal Friuli Venezia Giulia e dall’Alto Adige.»
 

Ciclo Infrusiadas - Segni.
 
Qual è l’obiettivo che si pone la mostra?
«Far dialogare artisti provenienti da regioni diverse, a Statuto speciale.»
 
Quali sono le regioni coinvolte in questa edizione 2019?
«Quest’anno la mostra verrà inaugurata al Palazzo delle Albere. Sono state coinvolte le regioni della Val d’Aosta, della Sicilia oltre a quelle delle precedenti edizioni.»
 
Quali artisti vi parteciperanno per il Trentino Alto Adige?
«Complessivamente 20 artisti, 4 per il Trentino, 4 per la Sardegna, 4 per il Friuli e 4 per la Val d’Aosta. Ogni gruppo di artisti ha un curatore, per il Trentino il curatore è Maurizio Scudiero.»
 
C’è un tema comune rappresentato dai vari artisti?
«No, abbiamo lasciato la massima libertà interpretativa, in questo senso. Ognuno è libero di presentare le proprie opere senza sentirsi vincolato a un tema specifico che magari non gli appartiene.
«C’è, tuttavia, un filo conduttore che lega le opere: l’acqua. Verrà proiettato un bellissimo video in 3D di Stefano Benedetti.»
 
Progetti futuri?
«Progetti tanti, ora però mi voglio concentrare su questo evento che si terrà a breve a Palazzo delle Albere.»
 
Daniela Larentis – d.larentis@ladigetto.it

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