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Lorenzo Tugnoli, testimone del nostro tempo – Di Daniela Larentis

Il fotografo italiano che ha vinto il premio Pulitzer 2019 a breve sarà ospite della VI Biennale FIDA Trento organizzata dalla Presidente Barbara Cappello – L’intervista

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Lorenzo Tugnoli.

A Trento, sabato 14 settembre 2019 alle ore 18.30, negli splendidi spazi di Torre Mirana, Sala Thun e Cantine, verrà inaugurata la VI Biennale di FIDA Trento.
Uno degli ospiti d’onore sarà Lorenzo Tugnoli, invitato dalla Presidente Barbara Cappello a esporre parte della sua documentazione fotografica.
Il fotografo italiano conta al suo attivo due prestigiosi premi, il World Press Photo e il Premio Pulitzer 2019 per il suo lavoro che racconta la situazione di crisi nello Yemen.
Da sempre pone al centro dell’obiettivo le storie legate alle categorie più fragili, ha lavorato a lungo in Asia, è stato in zone di guerra dove ha documentato la povertà e le condizioni estreme di vita in zone del mondo tristemente note e meno note, ha vissuto per anni in Afghanistan e in Libano (dove tuttora vive).
 
Nei suoi progetti Tugnoli ha indagato la condizione dei civili nelle aree di conflitto e di crisi, ne ha documentato le conseguenze, aggiungendo ai suoi innumerevoli sguardi quello empatico verso le donne e i bambini.
Le sue fotografie mostrano una doppia anima: da una parte rendono visibile ciò che molti non immaginano né peraltro vorrebbero vedere, fanno intuire la sofferenza di persone «invisibili»; dall’altra sembrano invitare all’apertura di orizzonti inediti di riflessione, sono testimonianze di verità e di delicata bellezza.
Esse portano alla luce alcuni aspetti dei conflitti, delle contraddizioni di un mondo ancora troppo ingiusto, «parlano» di morte attraverso la vita e di vita attraverso la morte. 
 
Concetti, quelli di vita e di morte, certamente non scontati, non univoci nel loro significato, indagati dall’uomo nel tempo dal punto di vista filosofico e teologico (l’uomo si è da sempre interrogato sul tema della morte muovendo da una duplice prospettiva, quella filosofica e teologica); l’interrogativo sulla morte e sul senso della vita, sul senso di giustizia e ingiustizia, ci pone innanzi al nostro grande limite.
Nella nostra epoca, e in Occidente in particolare, viviamo come se dovessimo campare in eterno, ci dedichiamo un po’ tutti all’accumulo e non abbiamo ancora imparato davvero a condividere (caso mai a dividere), restando impermeabili per lo più ai patimenti e al dolore dei nostri simili. 
 
Il lavoro di Tugnoli ha anche questo grande merito, oltre a quello di testimoniare fatti accaduti, ossia di invitare l’osservatore a una lettura attenta della contemporaneità, spronandolo a una riflessione responsabile su concetti quali la sofferenza, l’emarginazione, la giustizia sociale, temi che hanno attraversato la storia dell’uomo e che hanno assunto via via dei significati diversi.
L’esposizione di via Belenzani fissa una sorta di tracciato invisibile articolato su diversi registri emotivi, alternando immagini più dure ad altre meno scioccanti e più positive.
Lorenzo Tugnoli è un viaggiatore del nostro tempo, un esploratore del genere umano che racconta storie di relazioni in un contesto in continua trasformazione. 
 
Abbiamo avuto il piacere di raggiungerlo telefonicamente e di porgergli alcune domande, in attesa di incontrarlo all’inaugurazione del prossimo 14 settembre.
 

Foto © Lorenzo Tugnoli - Aden, Yemen - May 20, 2018.
 
Lei parteciperà a metà settembre alla Biennale FIDA Trento, sarà uno degli ospiti d’onore invitati dalla Presidente Barbara Cappello. Quali fotografie saranno esposte in mostra?
«Io sono un fotografo, ho lavorato a lungo in Asia, e questa mostra racconterà la mia esperienza nella rappresentazione fotografica dell’Oriente.
«Ho abitato per quattro anni e mezzo a Kabul, in Afghanistan, e di conseguenza parte dell’esposizione sarà dedicata a questo Paese.
«Circa tre anni fa mi sono trasferito a Beirut, dove tuttora vivo, per cui anche il Libano sarà uno dei posti di cui tratteranno le foto.
«Saranno presenti altri due luoghi; uno è lo Yemen, sul quale ho svolto un grosso lavoro lo scorso anno e per cui ho vinto due premi importanti; e un altro è la Palestina, un luogo in cui ho lavorato spesso, e che ha a che fare con storia del fotogiornalismo e del modo di raccontare questa zona del mondo.»
 
Lei ha ricevuto due prestigiosi premi, il World Press Photo e il Premio Pulitzer 2019 per il suo lavoro che documenta la povertà e la fame nello Yemen, la situazione dei campi profughi, degli ospedali, la linea del fronte. Come è nato questo progetto?
«Questo progetto è nato come assegnato, quindi è un lavoro che ho realizzato per un giornale con cui collaboro da anni, il Washington Post.
«Dal 2012 lavoro come freelance per questa importante testata, collaboro con loro su alcuni progetti e soprattutto sono a stretto contatto con alcuni dei corrispondenti che seguono il Medio Oriente. In particolare lavoro spesso con il Caporedattore dell’ufficio del Cairo, Sudarsan Raghavan.
«Lui segue lo Yemen da anni e l’anno scorso è nata l’idea di tornare a lavorare su questo paese insieme. Abbiamo compiuto due viaggi della durata di oltre un mese ciascuno, sviluppando dieci o dodici storie, che poi sono state pubblicate sul giornale. Le storie affrontavano diversi aspetti e differenti luoghi dello Yemen ma il fulcro era la crisi umanitaria in corso.»
 
Come è riuscito ad attraversare il territorio e quali sono state le maggiori difficoltà incontrate?
«Muoversi in Yemen è molto difficile, è necessario un lavoro molto lungo e paziente, soprattutto per stabilire i contatti con le varie autorità del luogo. Quindi è stato molto importante lavorare con un giornalista con una profonda conoscenza del paese.
«Inoltre abbiamo collaborato con un giornalista yemenita che lavora per il Washington Post che è stato vitale per la costruzione dei contatti. Siamo riusciti in entrambi i viaggi a coprire una vasta zona, a raccontare sia la parte sud del Paese sia la parte nord controllata dai ribelli, una cosa non affatto semplice, in quanto diverse porzioni di territorio sono controllate da diverse fazioni armate; per entrarvi occorre ottenere l’autorizzazione, occorre poi approcciarsi con tatto e pazienza alle persone che spesso sono diffidenti, e c’è sempre poco tempo a disposizione.»
 
Che cosa l’ha spinta a raccontare la crisi umanitaria di uno dei Paesi più poveri del mondo, attraversato da una guerra spesso dimenticata?
«La prima volta che siamo andati nello Yemen avevamo l’impressione di raccontare una guerra che era completamente ignorata e che non avrebbe mai potuto raggiungere le prime pagine dei giornali.
«Lo Yemen è un paese che probabilmente molte persone non conoscevano prima del 2015, quando l’Arabia Saudita è entrata nel conflitto.
«L’Arabia Saudita sta portando avanti una campagna militare usando delle armi che ha comprato sia dagli Stati Uniti che dall’Europa. Quindi molti dei danni che vediamo, alle persone e alle città, in realtà sono causati da bombe che vengono prodotte in Occidente.
«In Yemen non siamo certamente coinvolti nello stesso modo in cui lo eravamo in Iraq o ancora di più in Afghanistan (ci sono ancora dei militari italiani in Afghanistan). In Yemen non c’è questa presenza diretta sul territorio di militari NATO, ma è importante tenere presente che se noi non vendessimo loro le armi la guerra non potrebbe andare avanti, quindi in realtà un ruolo ce l’abbiamo nel concorrere a creare una crisi umanitaria come quella in atto.»
 

Foto © Lorenzo Tugnoli - Hebron, West Bank - November 2015.
 
Cosa vuole trasmettere attraverso la fotografia, qual è l’intento principale nel raccontare una realtà che mette a rischio anche la sua stessa incolumità?
«Io penso che l’intento sia anche legato alla potenzialità di quello che creiamo con la fotografia. Ritengo che la fotografia sia un mezzo di comunicazione molto immediato e quindi che abbia la capacità di far nascere interrogativi.
«Naturalmente, lo scopo che voglio raggiungere, essendo io un fotogiornalista, è anche quello di costruire delle immagini che abbiano una funzione di testimonianza e racconto di quel particolare evento.
«Dopodiché le fotografie hanno anche la capacità di narrare non solo ciò che sta innanzi a noi ma possono anche evocare un’atmosfera o un certo stato d’animo.»
 
C’è fra tutte le foto che ha scattato un’immagine a cui è particolarmente legato?
«Mi piace citare una fotografia, in particolare, realizzata circa un anno fa nello Yemen in cui si vede una ragazza di spalle in un edificio di cemento nudo, il cui tetto è coperto da una tenda. Lei è sulla soglia di una porta. La foto è stata scattata in un campo profughi vicino ad Aden, quindi a sud del Paese.
«È una foto interessante da tanti punti di vista, per il colore, per la struttura dell’inquadratura e anche perché pur raccontando in qualche modo una tragedia, questa vita difficile dei rifugiati, trasmette anche una certa leggerezza.
«Non è soltanto legata al dramma ma sembra che ci sia anche qualcosa d’altro nell’aria che può essere anche la resilienza, può essere la bellezza delle persone che si vede anche mentre attraversano questi momenti difficili.»
 
Le donne come vivono la loro quotidianità nello Yemen, nelle zone rurali in particolare?
«Le donne hanno un ruolo molto preciso, vivono in una società conservatrice con rigide regole sociali. Quando sono in un luogo pubblico sono completamente coperte, indossano un velo che si chiama niqab; questo in Yemen come nel resto della penisola arabica. Le donne vivono quindi una situazione un po’ particolare nella sfera pubblica, però poi hanno una vita molto diversa in famiglia, in cui si occupano dei figli e della casa.
«Queste norme sociali rendono difficile poter lavorare fuori dalle mura domestiche. Per esempio, quando devono uscire devono essere accompagnate da una figura maschile della famiglia.»
 
Secondo lei sono più consapevoli o rassegnate alla loro condizione?
«Le donne vivono una situazione difficile e le cose si complicano in situazioni di povertà o guerra. Io ho vissuto tanto tempo in Afghanistan, un Paese che dal punto di vista dei costumi è abbastanza simile allo Yemen.
«A mio avviso portare il velo e non poter andare da sole in pubblico non è il problema maggiore per le donne di questi luoghi, mi sembra che le priorità siano piuttosto legate alla sopravvivenza loro e della loro famiglia.
«E queste problematiche diventano critiche in contesti di povertà e di guerra, per esempio ci sono molte donne, e questo l’ho visto sia nello Yemen che in Afghanistan, che rimangono vedove e a quel punto è molto difficile per loro affrontare la vita anche dal punto di vista materiale, visto che non possono lavorare.
«Non è facile sopravvivere, certamente il problema del costume esiste ma ce ne sono altri legati al fatto che queste norme sociali rendono difficile la situazione della vita delle donne se il supporto della famiglia allargata viene a mancare.»
 

Foto © Lorenzo Tugnoli - Jdeideh, Beirut, Lebanon - October 2017.
 
Come è nata questa passione e quando si è trasformata in professione?
«Ho sempre avuto una passione per la fotografia però il fatto di pensare di farlo diventare un mestiere è una cosa che si è realizzata per gradi; è un lavoro difficile, in cui non c’è una carriera lineare, in cui non ci sono molte sicurezze, è una carriera che bisogna fortemente volere. I miei primi lavori fotografici risalgono a quando vivevo a Bologna, durante gli studi universitari, poi ho iniziato a fare dei viaggi e subito c’è stato il Medio Oriente e lo sviluppo di lavori fotografici da vendere ai giornali.
«Non ho frequentato una scuola di fotografia ma ho lavorato con alcuni fotografi che ho conosciuto e che mi hanno aiutato e consigliato; quindi è stato un po’ questo il mio percorso.
«Diciamo che il mio legame con la fotografia e con il giornalismo è stato inizialmente un sentimento più militante, di denuncia di certe situazioni, poi invece è diventato una cosa più professionale e anche più legata all’immagine stessa e meno alla denuncia.»
 
Lei attualmente vive a Beirut, cosa le piace di questa città e dei suoi abitanti?
«Sicuramente le città che si affacciano sul Mediterraneo come Beirut o come Tripoli hanno delle forti similitudini con l’Italia, dividono lo stesso mare e spesso simili paesaggi. I Libanesi hanno molto in comune con gli abitanti del Sud Italia, dal punto di vista della famiglia, del cibo ecc.
«Quindi questo non è un luogo tanto diverso dal nostro Paese. Il mio fascino per il medio oriente poi viene anche dalle immagini che ho guardato all’inizio della mia carriera, come ad esempio le immagini dell’Intifada.
«Inconsciamente poi ho cercato di emulare questo tipo di immagini ed è mia speranza che con il tempo riuscirò a superare questi preconcetti visivi che ad ogni modo sono stati parte del mio processo di crescita.
«Per essere completamente onesti vorrei aggiungere che ho sempre vissuto nei luoghi che ho raccontato anche per ragioni di lavoro. Vivere in un luogo come Beirut o Kabul mi permette di presentarmi ai giornali come un fotografo che potenzialmente può essere chiamato se c’è la necessità di avere delle immagini da questi luoghi.»
 
Che cosa le ha donato la grande esperienza maturata in questi anni?
«Quando arriviamo in un luogo nuovo siamo affascinati per lo più dal colore, dai tratti anche più visuali, più relativi alla differenza rispetto alla nostra cultura.
«Mi ricordo che quando sono stato per la prima volta in Afghanistan, per esempio, ero molto affascinato da certi tratti della loro cultura, aspetti che amavo fotografare, come il burka, il modo di vestire, il modo di vivere di queste persone. Perché, ovviamente, è quando arriviamo in un luogo che queste cose ci sembrano molto diverse da quelle di cui abbiamo fatto esperienza e quindi ci affascinano; questo atteggiamento è anche un modo superficiale di vedere la realtà di un Paese.
«Quando invece ci si abita, si riesce anche a cogliere anche le similitudini. Anche chi vive nei luoghi più remoti dell’Afghanistan ha comunque gli stessi interessi di base di chiunque altro, come la famiglia, il lavoro, gli affetti.
«Diciamo che l’esperienza mi è servita più a costruire uno sguardo che cerca la similitudine piuttosto che lo scandalo, la differenza o l’estraneità.»
 

Foto © Lorenzo Tugnoli - Kabul, Afghanistan – December.
 
Progetti futuri?
«Lo Yemen è un luogo su cui continuerò a lavorare, appena mi faranno entrare. Purtroppo è molto difficile avere un visto, è difficile andarci.
«Ovviamente la crisi nello Yemen non è finita, la carestia e la guerra vanno avanti e quindi è importante continuare a documentarle.
«Poi ho lavorato spesso in Libia e questo è un luogo su cui continuerò a lavorare anche per i suoi legami con l’Italia e con quello che sta succedendo da noi, essendo la via principale delle migrazioni dall’Africa verso l’Europa.»
 
Cosa pensa del fenomeno migratorio in atto e di tutte quelle persone che partono lasciando la loro terra in cerca di una vita migliore e che si spostano per una svariata serie di motivazioni?
«Prima di tutto le dico che io ho una prospettiva molto personale sul fenomeno, in quanto io in qualche modo sono un migrante, ho smesso di vivere in Italia da tanto tempo e per questioni di lavoro sono andato e vado in posti dove non capisco la lingua, dove devo cercare di muovermi in diversi contesti sociali.
«Certo, lo faccio in un modo privilegiato, spesso avrò un traduttore e quindi sarò introdotto nella società in modo più facile, comunque anche io sono un migrante che per lavorare, ha deciso di andare in un Paese straniero come fanno gli africani che vengono in Italia e in Europa.
«Le posso dire una cosa. Uno dei primi lavori che ho realizzato in Libia nel 2015 era un lavoro sulla migrazione. Io e un giornalista con cui lavoravo abbiamo seguito per qualche giorno un ragazzo del Ghana che era a Tripoli e che stava aspettando di imbarcarsi su un barcone per venire in Italia.
«Stavamo con lui e cercavamo di capire come si organizzava per affrontare questo momento molto pericoloso e difficile, lui non sapeva nuotare, aveva a mala pena visto il mare nella sua vita.
«A un certo punto anche noi ci siamo un po’ chiesti che cosa avremmo fatto al suo posto. Ci siamo un po’ immedesimati con questa persona con cui condividevamo dei momenti, e io le devo dire che se fossi stato in quella stessa situazione, anche io ci avrei provato.»

Daniela Larentis – d.larentis@ladigetto.it

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