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«Alpicultura», mostra a Palazzo Trentini – Di Daniela Larentis

Curata da Massimo Parolini, la prestigiosa esposizione sulla cultura alpina nell’arte trentina da fine ’800 ai giorni nostri è visitabile a Trento fino al 7 febbraio 2020

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Bartolomeo Bezzi, Il lago di Misurina, 1889.
 
«Alpicultura – La rappresentazione dell’identità alpina nell’arte trentina dalla fine dell’800 ai giorni nostri» è una prestigiosa esposizione che indaga il paesaggio e le tradizioni alpine, raccogliendo una settantina di opere realizzate da 56 artisti.
Ideata e curata da Massimo Parolini, con allestimento di Sergio Borgogno, è stata inaugurata lo scorso 10 gennaio nel cuore di Trento ed è visitabile fino al 7 febbraio 2020 in via Manci 27, nella suggestiva ambientazione di Palazzo Trentini.
La realizzazione della mostra si è concretizzata grazie alla sensibilità dell’istituzione che la ospita e che prosegue, evidenzia Parolini, «un percorso pluridecennale di valorizzazione dell’arte trentina (e non solo) che ha reso Palazzo Trentini spazio privilegiato di esposizione e presa di coscienza del valore di artisti che spesso sono stati protagonisti a livello nazionale o internazionale».
Un evento reso possibile grazie alla collaborazione degli artisti e alla generosità dei collezionisti privati (che hanno messo a disposizione le opere affinché tutti possano goderne la bellezza).
 

Lasta - 1913 - Meriggio sul Grostè.
 
Sottolinea Parolini: «La mostra si concentra a livello esemplificativo su alcuni autori (nati o semplicemente vissuti e operanti in Trentino) che hanno scelto il soggetto del paesaggio e della cultura alpina (a fianco di altri soggetti) nel proprio percorso creativo.
In alcuni tale scelta è divenuta quasi totalizzante: se Segantini può essere considerato il padre nobile della pittura paesaggistica alpina, le montagne ch’egli fissò con i pennelli sulle sue tele furono in realtà le Prealpi lombarde e poi soprattutto le vette, gli altopiani e i ghiacciai dell’Engadina.
Spetta dunque a Bartolomeo Bezzi il ruolo di primo «cantore autoctono» delle montagne trentine, nell’ambito di una fortunata carriera di paesaggista e vedutista che lo vide operare anche in Tirolo, in Lombardia, in Veneto, a Roma e nel Lazio.
 

Eugenio Prati, Ave Maria (La preghiera della sera), 1900 circa.
 
Assieme a lui possiamo citare Eugenio Prati (pur non annoverato tra i paesaggisti puri), presente in mostra con due capolavori della Collezione Cassa rurale di Caldonazzo, il pittore che più ha raccontato, con i suoi pennelli, la vita delle genti trentine a cavallo fra Otto e Novecento; Carlo Sartori, legato al territorio giudicariese di Godenzo nelle forme del paesaggio e degli usi e costumi dei suoi abitanti; i pittori incisori Dario Wolf e Remo Wolf, che le montagne alpine non si limitarono a rappresentarle ma furono anche abituali frequentatori di creste e di vette.
O, ancora, quell’Augusto Tommasini, che dagli anni Trenta del Novecento sentì la nostalgia-sehnsucht della visione romantica delle Alpi riprendendo lo stile dell’inglese Compton. E poi Camillo Rasmo, Attilio Lasta paesaggista, Gino Pancheri, Tullio Garbari, Bruno Colorio (eccezionale xilografo negli anni ’30 e ’40 del Novecento). 


Annamaria Gelmi, Sky-Line (Trittico), 2009.

L’ultimo grande interprete del paesaggio d’alta quota in Trentino è stato forse Paolo Vallorz (1931-2017), che ha dipinto con materica ispirazione e ostinata ricerca di empatia le cime delle montagne e i ruvidi tronchi delle conifere della sua Val di Sole.
Ma rappresentazione della cultura alpina non significa solo rappresentazione di vette e paesaggi montani: a fianco delle creste, delle cime e dei canaloni anche gli artisti trentini hanno sentito (e continuano a sentire) l’esigenza di rappresentare i costumi tipici, le usanze, i riti (vedi il carnevale mocheno di Pietro Verdini), le credenze, i lavori (vedi, fra gli altri, Campestrini padre e figli) e gli oggetti tipici (il «fagotto» di Gianluigi Rocca), le forme e le strutture edilizie specifiche (i masi di Albino Rossi). Ma significa anche uno scostamento dalla visione tradizionale della montagna, nell’era della liquidità dei valori e delle culture, come nel trittico proposto dall’artista Annamaria Gelmi».
 

 
Percorriamo lo spazio espositivo guidati da un senso di curiosità crescente. Ad aprirlo idealmente, due opere diversissime in dialogo, una di Umberto Moggioli, «Senza Titolo, Gruppo del Sassolungo visto dal Passo Pordoi, una tempera su cartone realizzata attorno al 1905 (collezione privata)», e l’altra di un’artista contemporanea, Annamaria Gelmi, dal titolo Sky-Line (Trittico), un collage su tela con carta giapponese (collezione privata).
La prima è di grande suggestione, quando si pensa a Moggioli vengono in mente paesaggi lagunari, Burano, questo quadro di piccole dimensioni, invece, ci presenta una visione tradizionale delle Alpi (fra il resto il curatore ci racconta che è stato proprio durante l’organizzazione della mostra che è stato possibile titolarlo, consultando esperti di montagna fra cui il bibliotecario della SAT (Società Alpinisti Tridentini) Riccardo Decarli); la seconda è un trittico molto interessante che presenta un rovesciamento di prospettiva (le montagne sono rappresentate dal profilo bianco), un’opera che rimanda alla contemporaneità e ai confini «liquidi» di una società in continuo mutamento.
 

 
Al centro della sala ad accogliere il visitatore l’«Albero della gioia» (Vite) di Mastro 7, una gigantesca scultura realizzata in rame nativo soffiato a fuoco nel 2006.
Proseguendo, la nostra attenzione viene catturata da un arazzo moderno di grandi dimensioni dell’artista Paolo De Carli (tessuto da Katia Pustilnicov, diplomata in arazzo), un vero capolavoro che unisce tradizione e contemporaneità (la «popa» in primo piano che dà il titolo all’opera è la bambola che nella tradizione delle nostre valli, della Val di Fassa, della Val Gardena in particolare, veniva regalata tradizionalmente alle bambine).
Spettacolare il dipinto di Bartolomeo Bezzi (collezione Itas), un olio su tela di grandi dimensioni dal titolo «Il lago di Misurina» realizzato nel 1889.
Massimo Parolini ci svela una notizia poco conosciuta, ovvero che l’artista nel 1895 è stato fra i fondatori dell’Esposizione biennale internazionale d’arte di Venezia, insieme ad Augusto Sezanne (che ha affrescato peraltro anche galleria Garbari).
 

 
L’«Ave Maria (Preghiera della sera)» di Eugenio Prati, dipinta attorno al 1900, è un’opera potente intrisa di lirismo che rinvia all’identità religiosa della gente di montagna.
Quel raccoglimento della donna ritratta a fianco del grande tronco rievoca atmosfere antiche, rimanda a suggestioni di un tempo perduto in cui la religione era centrale nella vita degli individui (appartiene alla Collezione Cassa Rurale di Caldonazzo).
Di grande suggestione anche i paesaggi realizzati ad olio su tela da Gino Pancheri («Paesaggio di Canazei, Paesaggio invernale), 1938, e «Paesaggio Perginese», 1936).
 

 
Fra le splendide opere esposte non si possono non notare le cinque xilografie di Bruno Colorio realizzate fra il 1938 e il 1942 e le tre di Remo Wolf del 1939, un trittico dedicato alla vita della guida («La vita della guida. La visione»; «La vita della guida. La morte»; «La vita della guida. Il funerale»), più quella realizzata nel 1981.
Misteriose e inquietanti, di una potenza estrema, sono a nostro avviso le opere di Dario Wolf, fra le quali l’acquaforte intitolata «Il destino» datata 1926. Le figure allegoriche da lui ritratte affrontano il tema della morte, sembrano ricordare come ci riguardi dalla nascita, come dice Heidegger in «Essere e tempo», l’essere-per-la-morte è il nostro costitutivo ontologico (da quando si nasce si è un essere-per-la-morte).
Pensiamo a Heidegger, al suo concetto di anticipazione della morte, ovvero vivere ogni momento della propria vita come fosse la possibilità estrema.
    

Garbari - 1929 - Allegoria della famiglia retica.
 
Molte sono le opere che ci colpiscono per l’originalità e la grande forza evocativa, come quella di Gino Castelli dal titolo «Finestra sul fantastico Trentino» realizzata nel 1978, una china e pastello su cartoncino che sembra disvelare l’anima più profonda del paesaggio dolomitico, ricordandoci la delicatezza e la bellezza dei dipinti a china dell’arte giapponese.
La vista che si apre all’osservatore al di là della finestra mostra i solchi della terra, le ammoniti con le loro affascinanti spirali, gli alberi dai tronchi affusolati e scuri, gli edifici bianchi che richiamano il candore della roccia e altri elementi, fra cui uno spicchio di luna in un cielo appena sporcato d’azzurro, uno spazio metafisico che trasmette una mescolanza di stati d’animo, un senso di silenziosa attesa e di sorprendente meraviglia.
   

Giorgio Wenter Marini. Quiete di neve a Pocol (Ampezzano), 1930.
 
Domenico Ferrari con «Transumanza: Cima d’Asta da Forcella Valsorda», propone un dipinto di grandi dimensioni realizzato ad acrilico nel 2008, mettendo a tema la cultura pastorale, importante valore da tutelare (ricordiamo che l’Unesco ha peraltro da pochi mesi proclamato la transumanza patrimonio culturale immateriale dell’umanità) e il lavoro femminile.
Pietro Verdini presenta il rito del carnevale con il suo splendido «Febbraio. Carnevale mocheno», un olio su tavola del 1995 che non lascia certo deluso il visitatore.
È invece dei primi anni ’60 del Novecento un’opera dal sapore nostalgico che cattura la nostra attenzione, una tempera su cartone di Mariano Fracalossi dal titolo «Arrotino», uno dei mestieri da lui ritratti entrati nella memoria collettiva (l’arrotino era colui che affilava coltelli, un ambulante che rappresenta un’epoca e una professione ormai scomparsa nel mondo globalizzato in cui viviamo).
 

Paolo De Carli, Popa, 2005.

Circondati dalla bellezza indugiamo di fronte a un quadro di Giorgio Wenter Marini dal titolo «Quiete di neve a Pocol (Ampezzano)», un olio su tela eseguito nel 1929 che ci ammalia particolarmente per il suo minimalismo e un fascino difficilmente traducibile a parole.
Carlo Bernardi con il suo «Il ritorno dell’emigrante» realizzato nel 1947 affronta il tema dell’emigrazione stagionale (in questo caso chi si trasferisce altrove poi ritorna); è un quadro che fa emergere emozioni profonde e che rimanda a una figura dotata di ambivalenza: l’emigrante, lo straniero, suscita da sempre emozioni contrastanti, una mescolanza di sentimenti opposti, curiosità, interesse, ma anche ostilità, freddezza.
«Identità-Heimat-Patria» è di Claus Soraperra de la Zoch, un’opera realizzata nel 2017 che rinvia al concetto di identità ladina e al rischio di omologazione delle identità alpine.  
 

Mastro 7, Albero della gioia (Vite), 2006.

Troviamo questo lavoro, in cui il tema del riconoscimento pare centrale, concettualmente molto interessante, quello delle differenze culturali è un tema di grande attualità che ha molto a che vedere da una parte con l’universalismo che schiaccia le differenze e dall’altra con un relativismo che scivola nell’indifferenza (riconosce la differenza ma la isola).
Giuliano Orsingher, ricordando la tragedia dell'uragano Vaia dell'autunno scorso, ha perlustrato i boschi per recuperare alcuni alberi, realizzando nel 2019 una installazione intitolata Portale che, come evidenzia Parolini, «restituisce agli alberi strappati la dignità di un monumento ai caduti vegetali che valga come monito e memento mori per il tracotante uomo».
 

Mariano Fracalossi, Arrotino, primi anni '60 del '900.
 
In mostra ci sono opere meravigliose, dei veri capolavori di altri artisti che indagano diversi aspetti della vita alpina, alcuni dei quali particolarmente famosi, tutti molto apprezzati: Fortunato Depero, Carlo Bonacina, Tullio Garbari, Luigi Senesi, Giulio Cesare Prati, Luigi Ratini, Alcide Davide Campestrini, i figli Alcide Ernesto Campestrini e Gianfranco Campestrini, Giuseppe Angelico Dallabrida, Augusto Tommasini, Luigi Bonazza, Orazio Gaigher, Camillo Rasmo, Gigiotti Zanini, Luigi Vicentini, Cesarina Seppi, Ernesto Giuliano Armani, Roberto Iras Baldessari, Michelangelo Perghem Gelmi, Diego Costa, Gino Bellante, Luigi Pizzini, Raffaele Fanton, Carlo Sartori, Riccardo Schweizer, Paolo Vallorz, Marco Berlanda, Gianluigi Rocca, Albino Rossi, Lea Botteri, Guido Polo, Rosanna Cavallini, Paolo Dalponte, Eraldo Fozzer, Cirillo Grott, Bruno Lunz, Florian Grott e Giuliano Orsingher.

Daniela Larentis - d.larentis@ladigetto.it

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