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Intervista a Elisabetta G. Rizzioli/ 1ª parte – Di Daniela Larentis

Il corposo volume ancora in fieri a cui sta lavorando la storica dell’arte verte intorno a San Michele Arcangelo e altre storie|Arte della Giustizia e Giustizia nell'Arte

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Guido Reni, «San Michele Arcangelo» - 1635 - Olio su ormesino, Roma, chiesa di Santa Maria della Concezione, primo altare a destra entrando, part.

L’emergenza Coronavirus rimanda ad una delle molteplici calamità del passato quali la peste, si pensi alla medioevale Morte Nera di cui narrano Dante e Boccaccio, o a quella manzoniana, ampiamente descritta nei Promessi Sposi, che fra il 1629 e il 1633 colpì, fra le altre, diverse zone dell'Italia settentrionale, raggiungendo il Granducato di Toscana e la Repubblica di Lucca con la massima diffusione nel 1630; il Ducato di Milano, e quindi la sua capitale, fu uno degli stati più gravemente colpiti.
La Repubblica di Venezia dedicò alla Vergine Santissima la splendida basilica di Santa Maria della Salute, eretta nell’area della Punta della Dogana, ultima propaggine del sestiere di Dorsoduro verso il Bacino di San Marco in cui è collocato un bellissimo altare marmoreo, ove la raffigurazione iconografica della Peste rimane forse il dettaglio più straordinario dell’intero gruppo statuario ivi collocato.

Venezia, Balisica di S. Maria della Salute.

A parlarne è la stimata storica dell’arte Elisabetta G. Rizzioli, Ph. D. Art History all’Università di Pisa, docente e apprezzata giornalista, autrice di importanti pubblicazioni, fra le quali ricordiamo la monumentale opera intitolata «L’officina di Leopoldo Cicognara - La creazione delle immagini per la Storia della Scultura», un volume di più di mille pagine presentato qualche anno fa a Lucca, con intervento critico dello stimato storico dell’arte Carlo Sisi.
La sua prima monografia dedicata a Domenico Udine Nani risale agli anni Duemila, una ricerca che ha condotto passando al setaccio l’intera produzione dell’artista, interpretandone lo stile, mentre è dello scorso anno l’uscita di un saggio dedicato al pittore roveretano ottocentesco e ad alcune sue opere di committenza Bossi Fedrigotti attraverso inedite carte dell’archivio privato familiare, dal titolo Domenico Udine Nani, nuove carte antiche (Edizioni Osiride).
Elisabetta G. Rizzioli sta lavorando alla stesura di un corposo volume ancora in fieri che verte intorno a San Michele Arcangelo e altre storie| Arte della Giustizia e Giustizia nell'Arte.
Abbiamo avuto il piacere di intervistarla.
 

Giusto Le Court, Venezia offre il tempio votivo alla Vergine per la cessazione della peste.
 
Venezia dedicò alla Vergine Santissima la splendida Chiesa di Santa Maria della Salute in cui è collocato un bellissimo altare marmoreo. Da chi venne realizzato e in quali circostanze fu commissionato? Può condividere con noi qualche pensiero al riguardo?
«Pubblicistica e critica giornalistica (Giornale dell’Arte, la Domenica del Sole 24 Ore, e Alias del Manifesto), sull’onda della pandemia da Covid-19, hanno presentato e riproposto la storia di un concitato gruppo statuario commissionato per far scappare la peste da Venezia nel 1630, il pregevole complesso scultoreo che decora l’altare maggiore della basilica lagunare di Santa Maria della Salute eretto in loco solo nel 1679 dall’artista fiammingo Giusto Le Court, che presenta la Vergine Maria quale maestosa Signora col Bambino in braccio posta sopra le nubi con alcuni putti angelici ai suoi piedi e alla destra un angelo che scaccia e allontana la terribile personificazione della Peste (col volto rugoso, disperato, quasi grottesco e senza denti). Alla spettacolare macchina marmorea Maichol Clemente ha di recente dedicato una bellissima monografia titolata Il marmo bianco e la peste nera. White Marble and the Black Death uscita nel 2019 presso l’editore Marsilio (con il sostegno della Fondazione Venetian Heritage Onlus), che ne ripercorre la vicenda storico-artistica.
«Si apprende che invero fra le carte d’archivio della Salute non esistono specifici documenti di commissione a Giusto Le Court per il suddetto altare; tuttavia una solida tradizione di fonti assegna senza titubanze proprio a Giusto Fiamengo Scultore il fastoso gruppo marmoreo, specificandolo composto dalla statua in alto della Vergine Maria, col Bambino in braccio, quella di San Marco e di San Giustiniano […] e in disparte una vecchia scapigliata in atto di fuggire che simboleggia la peste.
«Lo spettacolare gruppo marmoreo ove lo scultore barocco immaginò la fuga del contagio dalla Serenissima, ovvero la Salute che difende Venezia dalla peste, si compone altresì di diciotto statue collocate nelle nicchie del presbiterio con i dodici apostoli e i quatto dottori della Chiesa.
«Come ricorda Marco Carminati (Domenica del Sole 24 Ore, del 22 marzo 2020, p. X) la personificazione di Venezia, sontuosamente vestita in un florilegio di marmo lavorato si genuflette rivolgendosi alla Vergine perché interceda nel cacciare la peste; bardata di pizzi, broccati, ermellino e perle, Venezia è una regina opulenta, come quelle di Veronese, simile a quella - come rileva l’autore del volume - dipinta da Pietro Liberi per il vicino altare di Sant’Antonio, ma anche a quella dipinta da Pietro Negri per lo Scalone della Scuola Grande di San Rocco, coetanea - forse con qualche mese in meno - di questa di Le Court. Come il fiammingo, anche Negri sintetizza in un’allegoria il voto del 1630: Venezia scende dal trono, si inginocchia, porge il corno dogale alla Vergine.
«E qui, sullo sfondo, al di là dell’intreccio vivido delle masse, tra cromie lussureggianti e chiaroscuri, appare la Salute. Illuminata dal sole, la chiesa rappresenta la concretizzazione del voto esaudito. La Regina celeste non può che acconsentire, e la Peste, una vecchia sghemba, macilenta, con il volto scavato e il seno cadente, scappa concitata inseguita da un piccolo angelo arrabbiato munito di torcia. Qui Giusto dà prova di una spettacolare capacità tecnica nella resa mimetica delle tramature delle diverse stoffe, ma è lo studio delle carni, del volto, delle rughe del collo, a rendere la Peste una scultura così straordinaria [Foto in alto e in basso].
«Clemente richiama l’inzegno tenebroso, e scuro (Marco Boschini) del pittore genovese Giovanni Battista Langetti arrivato in Laguna nello stesso torno di tempo di Le Court. Nelle sue tele enfatiche i corpi si disfano, soffrono, si consumano nell’effimera consistenza della vita, in un naturalismo crudo, con Tentoreto ma anche Caravaggio e Ribera in mezo al cuor. Lo studio di Clemente ripercorre la genesi dei marmi di Le Court attraverso il montaggio di documenti, testimonianze, letture critiche e immagini. Le fotografie dei Magliani ripercorrono la pelle di queste statue. Dicono bene Monica De Vincenti e Simone Guerriero nella prefazione, che Giusto rappresenta l’unica alternativa «d’alta classe» alla lezione di Bernini. Quello che per i contemporanei è stato, non per caso, il «Bernini adriatico», o «il Prassitele della nostra età».»
 

Giusto Le Court, La Peste, part.
 
Che cosa simboleggia?
«La costruzione della basilica rappresenta un ex voto alla Madonna da parte dei veneziani per la liberazione dalla peste che nel biennio 1630-1631 decimò la popolazione, come era avvenuto in precedenza per la chiesa del Redentore; il culto divenne così radicato che la Vergine Maria venne aggiunta all'elenco dei santi patroni della città lagunare. Il gruppo di Le Court che insiste sull’altare maggiore rappresenta - simbolo di auspicata salvezza - la Salute che difende Venezia dalla Peste - iconizzata da un corpo in perenne squilibrio che scopre l’onnipresenza della forza di gravità - ove l’artista, la città e la scultura si accomunano nel tentativo di esorcizzare reciprocamente la servitù dal morbo al quale sono sottoposti nel quotidiano; e il loro corpo a corpo con la malattia inventa una storia di resilienza in ordine alla conquista della bellezza, fra grazia, licenza, virtuosismo.
«Clemente ripercorrere nel volume le premesse per l’edificazione nel 1631 del nuovo tempio votivo alla Vergine in liberazione dal morbo della peste e la scelta del suo progettista, Baldassare Longhena - artefice che attesta molta attenzione ai modelli di Palladio, - a seguito di un concorso bandito dal Senato.
«Viene trattata la volontà di collocare sull’altare maggiore un gruppo scultoreo in cui fosse riconoscibile la figura di Nostra Signora; l’autore racconta poi del mancato incarico a Bernini e la questione attributiva al fiammingo Giusto Le Court, scultore foresto non nuovo però ad altre collaborazioni e realizzazioni nell’ambiente lagunare.
«L’opera, pur nella propria spettacolare unicità, rimane affine a numerosissime storie di statue o di gruppi statuari scolpiti per allontanare pestilenze o altri ammorbi; si consideri ad esempio La Religione che flagella l’Eresia, gruppo statuario più tardo (1695) di mano di Pierre Legros o Le Gros (1695), in cornu epistolae dell’altare di Sant’Ignazio nella chiesa del Gesù a Roma.»
 

Pierre Le Gros, La Religione che flagella l’Eresia.
 
Oltre alla Vergine Santissima anche San Michele Arcangelo è stato invocato nel passato per scongiurare diverse calamità. Lei da anni sta conducendo un importante studio relativo all’iconografia di San Michele. Come è nato l’interesse per questa ricerca?
«Lo studio è stato concepito oltre una quindicina d’anni fa in occasione di un contributo vergato per gli «Atti e Memorie dell’Accademia Galileiana di Scienze, Lettere ed Arti» dal titolo “Antonio Rosmini e la Caduta degli Angeli fulminati da Michele di Agostino Fasolato”, - ovvero un saggio dedicato ad una struttura piramidale di sessanta figure scolpite in un unico blocco di marmo di Carrara (di cm 168 x 80 x 81) raffigurante La caduta degli angeli ribelli di mano dello scultore padovano Agostino Fasolato (1714 - dopo il 1787), all’epoca collocato in uno dei saloni di rappresentanza del palazzo patavino dei conti Trento affrescato da un discepolo e collaboratore di Giambattista Tiepolo, Francesco Zugno; secondo le fonti il marmo era stato commissionato dal conte Marc’Antonio Trento (1704-1785), balì del Sovrano Militare Ordine di Malta nonché socio di varie accademie patavine. Nel 1805 Francesco e Alessandro Papafava dei Carraresi acquistavano il palazzo dalla loro prozia Faustina Papafava, vedova di Decio Trento (1724-1805), ultimo discendente di questa famiglia, e con esso anche la scultura di Fasolato; nel 1972 il gruppo passava dai discendenti Papafava alle collezioni della Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo e quindi, nel 2003, a quelle del Gruppo Sanpaolo IMI (dal 2006 Intesa Sanpaolo); dopo vari spostamenti e diversi depositi bancari il gruppo si trova oggi al centro della sala al piano nobile delle Gallerie vicentine di Palazzo Leoni Montanari.
«Nel gruppo scultoreo è rappresentato il combattimento fra l’esercito del bene e quello del male, comandati rispettivamente dall’Arcangelo Michele e da Satana, così come raccontato nell’Apocalisse di Giovanni; al vertice della piramide sta Michele, con la spada sguainata e lo scudo legato al polso con inciso il motto «QVIS UT DEVS» mentre di fronte a lui, con i piedi appoggiati sulla base della composizione, Satana è voltato di schiena: tiene nella destra il forcone a due punte e con la sinistra punta l’indice verso l’alto in direzione del suo avversario.
«Tra i due protagonisti del combattimento è rappresentata la moltitudine degli angeli ribelli scacciati dal paradiso, e quindi divenuti essi stessi diavoli, tra i quali si muovono altre mostruose creature demoniache in forma di serpenti e draghi. La prodigiosa maestria tecnica esibita nel gruppo è stata fonte di meraviglia per tutto l’Ottocento oltre l’ambito delle glorie artistiche locali. Il filosofo, teologo e conoscitore d’arte Antonio Rosmini ne scriveva a più riprese nella sua corrispondenza privata a partire dal 1817 e Leopoldo Cicognara gli dedicava spazio nella sua Storia della Scultura; Herman Melville, in visita a Padova nel 1857, l’anno seguente ne faceva l’oggetto di una conferenza a Cincinnati.
«Alla fama del gruppo scultoreo, non corrisponde tuttavia quella del suo autore, del quale oggi si sa ancora molto poco: due scultori con questo nome, operosi negli stessi anni, sono registrati nella Fraglia padovana dei tagliapietra e, sulla scorta della biografia di Napoleone Pietrucci, l’autore della scultura sarebbe da identificare con l’Agostino figlio di Vincenzo e Orazia Piesti, nato a Padova il 27 giugno 1714 e ancora vivente nel 1787.
«Non c’è invece alcuna certezza dell’identità di tale artista con l’Agostino al quale altri documenti assegnano lavori di intaglio per le chiese del territorio padovano (nel 1752 per il coro della Basilica del Santo, nel 1755 e nel 1760-1761 per gli altari del duomo di Montagnana). È ancora Cicognara a dare notizia di altre due opere che ai suoi tempi erano assegnate allo stesso Agostino Fasolato che aveva scolpito La caduta degli angeli ribelli: un secondo gruppo del quale non è specificato il soggetto, anch’esso commissionato dal balì Marc’Antonio Trento per farne dono al Gran Maestro di Malta ma andato perduto predato dai barbareschi durante il viaggio per mare, e un Ratto delle Sabine composto da sei figure allora conservato nella collezione padovana di Palazzo Maldura; di quest’ultimo, che intorno al 1957 si trovava nelle collezioni di Villa Emo di Battaglia Terme, si conosce una vecchia riproduzione fotografica ma non l’attuale ubicazione.
«Sulla base di queste poche opere, gli sono stati recentemente attribuiti altri tre gruppi già considerati dagli studi opera di Francesco Bertos (1679-1741). Le composizioni di Agostino Fasolato, infatti, hanno una stretta relazione con quelle di Bertos, artista nato e morto a Dolo, che deve essere considerato il suo maestro. Bertos si era specializzato in sculture in marmo e bronzo analogamente composte da più figure collocate a piramide e collezionate dall’aristocrazia veneta dell’epoca. Con La caduta degli angeli ribelli Fasolato portava alle estreme conseguenze il genere di opere rese famose dal Bertos e, evidentemente, aveva voluto superare il maestro progettando un gruppo di sessanta figure laddove quelli del primo non avevano mai superato le dodici»
 

Agostino Fasolato, Caduta degli Angeli fulminati da Michele, part.
 
Su quali aspetti ha focalizzato l’attenzione?
«Il lavoro di studio, ricerca e ricognizione sull’iconografia micaelita è tuttavia - data l’ingente vastità delle testimonianze artistiche esistenti - ancora in divenire, rappresentando sostanzialmente una sorta di excursus sull’arte della giustizia e la giustizia nell’arte, per parafrasare un grande tema, trasversale, presente nell’iconografia di tutte le epoche e raccontato in immagini devozionali, quadri, sculture, arti minori da tutti i più grandi artisti, tema che è stato oggetto di una recente mostra tenutasi a Palazzo Reale di Napoli e che ha raccontato il tema della Giustizia e dei suoi tantissimi significati attraverso l’arte con opere e interpretazioni afferenti a diversi momenti storici; in sostanza la necessità di San Michele Arcangelo, patrono e istante della giustizia.
«Se ricorrente è la memoria dell’Arcangelo con gli attributi iconografici identificativi delle proprie usuali funzioni di psicagogo e psicopompo, nonché taumaturgo, invero esso, più frequentemente - con espressione severa, imberbe e ad ali spiegate - immobilizza col piede destro il torace di Satana simbolo del male - rappresentato fra le fiamme in forma umana ad impugnare con irrefrenabile impulso difensivo, trafitto al collo dalla spada del giudice celeste, un forcone bidente - mentre esibisce arditamente, nel ruolo di pesatore delle anime, la bilancia della psicostasia.
«Dalle pietre del Gargano alla peste di Roma, San Michele Arcangelo, con i suoi prodigi, ha salvato dalla peste migliaia di persone. In ordine a scongiurare la recentissima corrente pandemia, i fedeli di Vasto hanno chiamano in soccorso proprio il loro patrono San Michele Arcangelo; la comunità vastese è molto legata a San Michele Arcangelo, invocato ogni qualvolta una calamità colpisca o minacci di colpire la città.
«È accaduto nel 1805 quando per l’esplosione di un nuovo vulcano nel vicino Matese, si sentirono ripetute scosse telluriche che causarono ingenti danni in molti paesi limitrofi, ma Vasto fu salvata; altra circostanza occorse fra il marzo del 1817 e il gennaio del 1818, quando una terribile epidemia costò la vita ad oltre 2500 persone a Vasto e anche nel 1837 allorché il colera si riaffacciò alle porte della città, ma la malattia colpì solo di sfuggita questa terra. La salute e la religione sono state sempre connesse fra loro essendo l’uomo incline a prestare culto a colui che cura e guarisce il suo corpo.
«In considerazione di questo fenomeno San Michele Arcangelo ha allontanato storicamente gli dei pagani ai quali era attributo il potere di guarigione; invocato contro le pestilenze, ha originato ad esempio alcune fonti di acqua sacra, promuovendo conseguentemente non solo la salute ma anche la devozione.»

Daniela Larentis – d.larentis@ladigetto.it

(Fine della prima parte – La seconda parte martedì 5 maggio)

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