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La gentilezza come cura – Di Giuseppe Maiolo, psicoanalista

È bene educare i bambini alla gentilezza e insegnare loro che non servono tante parole. Spesso basta dire: grazie, ti sono vicino, scusa, mi spiace

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Come al solito le giornate dedicate ad un tema sono uno stimolo. E non tanto per proporre slogan accattivanti, che non cambiano nulla, ma azioni di riflessione.
La giornata mondiale della gentilezza, di qualche giorno fa, ne è l’esempio. Serve soffermarsi su questo sentire, perché in qualche modo la gentilezza è un sentimento, e mettere in moto un processo generativo che può trasformare la realtà
Prima di tutto, dunque, c’è bisogno di costruire un significato condivisibile che dia valore a quello che è pur sempre un atteggiamento complesso.
In un mondo di arroganza e prepotenze, sentiamo sempre di più il bisogno della gentilezza, come esperienza della relazione.
 
Non di una superficiale cortesia e meno ancora del buonismo che sta dentro le frasi di apprezzamento ipocrita e formale che si usano oggi con l’idea che nelle relazioni, soprattutto educative, servano solo le gratificazioni.
Le divergenze e gli scontri, cui fanno seguito le frustrazioni, hanno pure il loro valore purché si sappia “so-stare” nel conflitto.
Ma la gentilezza in ogni caso serve, anche se non è istinto né compassione.
Quest’ultima, è un sentire insieme la sofferenza dell’altro che si impasta di empatia.
Si sviluppa con la vicinanza e l’esempio, si migliora con la pratica, ma in parte ci appartiene già alla nascita.
 
La gentilezza invece va educata in quanto è atteggiamento che ha a che fare con la capacità di ascolto, con il rispetto, la comprensione, la fiducia.
È sinonimo di cura. Competenza che si costruisce e si raggiunge come un’abilità linguistica e comunicativa.
Non per nulla Mark Twain diceva che «La gentilezza è una lingua che il sordo può sentire e il cieco può vedere».
Vale a dire che non esiste gentilezza senza attenzione e disponibilità verso l’altro. E non esiste nemmeno senza la gratitudine che è energia capace di unire e generare comunione di intenti, anche nella diversità del pensiero.
 
Gentilezza e gratitudine nelle relazioni consentono il sostegno reciproco.
Mantengono in piedi i legami e aiutano a interrompere quell’idea egoica, cioè esclusiva dell’IO, di libertà personale che permette a chiunque di fare ciò che vuole.
Sono indicatori di connessione, di solidarietà e generosità che servono a contrastare l’egoismo e a superare insieme i disagi.
La gentilezza per altro, è consapevolezza dell’importanza sia delle parole che dei gesti e delle azioni che si producono.
Una volta la chiamavano filantropia, cioè amore per gli esseri umani che doveva essere capacità reale (non digitale) di condividere l’esistenza con gli altri.
 
Un’abilità, quella di saper entrare e stare nei pensieri e nei sentimenti dell’altro, che secondo lo psicoanalista Winnicott indicava un buon livello di salute mentale.
A questo proposito oggi disponiamo di ricerche scientifiche molto interessanti come quella chiamata Biologia della gentilezza di cui parlano Immaculata De Vivo e Daniel Lumera i cui studi sembrano indicare quanto la pratica della gentilezza abbia un impatto positivo anche sui nostri geni.
 
Di certo abbiamo bisogno di approfondire, ma credo sia possibile cominciare fin da subito a educare i bambini alla gentilezza e insegnare loro che non servono tante parole per mostrarla. Spesso ne bastano due da accompagnare alle azioni: grazie, ti sono vicino, scusa, mi spiace.

Giuseppe Maiolo - psicoanalista
Università di Trento - www.officina-benessere.it

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