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Conflitti e guerre, aggressività e violenza – Di Giuseppe Maiolo

Lo psicoanalista: per coltivare la pace non serve preparare la guerra come dicevano i latini, ma si deve imparare a negoziare sempre, dalle piccole alle grandi cose

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Ci sono parole con cui descriviamo e narriamo la realtà che in certi momenti ci appartengono di più. «Conflitto» e «guerra» adesso sono termini usuali perché il martirio della popolazione ucraina e la devastazione della sua terra in queste settimane sta prevalendo su tutto.
Non è l’unica guerra che si combatte nel mondo ma questa è prossima, vicina di stanza e ci invade di terrore.
Ma usare queste due parole come sinonimi per ciò che accade tra Russia e Ucraina è fuorviante perché si tratta di una guerra devastante, di violenza distruttiva, non di un conflitto che nell’etimo vuol dire urto o scontro, dove è presente il concetto di incontro tra due parti che cercano un punto in comune.
 
Di certo il conflitto è luogo di opposizione e aggressività dove però si compie uno sforzo di adattamento per trovare soluzioni condivise.
Sicuramente si tratta di un bivio dove, guardandosi ancora negli occhi, le parti in contrasto possono scegliere la ricerca delle ragioni dell’altro oppure di farsi la guerra.
Quest’ultima, in effetti, è antagonismo, aggressività finalizzata alla distruzione.
E qui entra in campo il termine «aggressività» che è parola ricca di significati che non va ascritta esclusivamente alla violenza in quanto, dal latino «adgredior», significa avvicinarsi o andare verso.
 
Di fatto è energia che muove dal conflitto e, a seconda della direzione che scegliamo, può diventare forza che avvicina all’altro per cooperare, dialogo costruttivo, oppure tendenza e comportamento distruttivo che nasce dall’antagonismo e dalla competizione e si nutre della paura di soccombere.
In certe situazioni si attiva una risposta primordiale determinata dal cervello rettile o arcaico che è struttura preposta alla risposta immediata di attacco o fuga.
È la cosiddetta intelligenza primitiva che si esprime nella locuzione medievale «Mors tua vita mea».
 
Ed è la guerra, il fallimento della gestione del conflitto, l’allontanamento dal luogo del confronto in quanto manca il desiderio di conoscere le ragioni dell’altro e l’interesse a cercare un punto di convergenza.
È il posto in cui non si genera nulla, se non morte e devastazione.
Ugo Morelli, attento studioso delle varie forme di conflittualità nel suo prezioso «Il conflitto generativo» (ed. Citta Nuova) sostiene invece che il conflitto, se gestito bene, genera nuove risorse e consente soluzioni capaci di trovare alternative alla distruzione senza che vi siano vincitori e vinti. È la vittoria del compromesso, quello che serve oggi alle relazioni umane e all’educazione.
 
Per coltivare la pace non serve preparare la guerra come dicevano i latini, ma saper governare il conflitto, saperlo scomporre e ricomporre, so-starci dentro, non rimuoverlo o negarlo. Ma imparare a negoziare dalle piccole alle grandi cose.
La ricerca sulla conflittualità che ha molti aspetti ed è individuale, di coppia, relazionale e collettiva ci mostra che il pericolo più grande è la rimozione del conflitto, peggio ancora, la sua negazione.
Nasconderlo o fingere che non ci sia non risolve nulla, viceversa fa aumentare le sue dimensioni.
L’arte di negoziare e la capacità di mediare è quello che serve per la prevenzione della guerra.
Di tutte le guerre.
 
Perché una precoce educazione alla gestione dei conflitti da avviare già nelle scuole dell’infanzia e primarie è necessaria per sviluppare la cultura del confronto e del dialogo.

Giuseppe Maiolo – psicoanalista
Università di Trento - www.iovivobene.it

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