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1° maggio, Festa del lavoro – Di Giuseppe Maiolo, psicoanalista

Oggi è anche «San Giuseppe lavoratore» e ricordiamo le funzioni di un padre che insegna a dare senso al presente e valore all’esistenza

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Per la festa dei lavoratori, il 1° maggio, ho ricevuto auguri. Di certo per ricordare i diritti conquistati ma qualcuno anche per il Santo patrono di cui porto il nome, Giuseppe.
E allora ho pensato al protettore dei mestieri che la cristianità festeggia, ovvero al santo artigiano che, come dicono le scritture, fu falegname, carpentiere, fabbro.
Con quei lavori Giuseppe incarna simbolicamente le funzioni paterne. Un essere padre putativo, adottivo, che in ogni caso lo rende padre vero a prescindere dal biologico, in quanto incarna le funzioni simboliche.
È questo padre-lavoratore che dona al figlio il significato del lavoro artigianale. Il che vuol dire vivere della propria energia creativa e costruire l’esistenza con quello che si produce.
Il padre-artigiano in effetti rappresenta il «qui e ora» in quanto è un mestiere che dà senso al presente e valore alla creatività da impiegare nell’esistenza.
Penso allora a quanto oggi l’artigianato si sia trasformato e come sia cambiata la paternità.
Forse la carenza della figura del padre oggi è piuttosto che assenza, mancanza di funzione simbolica.
 
È ad esempio un non esserci nel qui e ora. Proiettati nel futuro da cui sono angosciati i padri sembrano più afflitti dalla smania del fare e dal non sapersi fermare, riposare, attendere.
Questo lamentano i figli. La mancanza del padre di cui ti parlano gli adolescenti è quella di un genitore che non hai goduto.
Un giovane ragazzo una volta mi ha detto «Sarebbe meglio un padre morto piuttosto che averlo e non poterlo godere».
Per essere padri non bisogna essere artigiani, ma piuttosto è necessario che le funzioni simboliche del padre-artigiano si realizzino.
A partire dalla funzione del lavoro che dovrebbe coniugare il desiderio con il dovere piuttosto che lasciare il campo solo all’obbligo e alla fatica.
Così molte paternità evaporate, prese solamente dagli obblighi, rimangono distanti dalla scena dei figli e da quel dolore interno che in un tempo di grandi insicurezze e paure li affligge, perché la gran parte di loro fatica a pensare al domani se i padri vivono il presente come tormento e il futuro come incubo.
 
Non meraviglia adesso trovare giovani incapaci di «sognare la California» come si cantava un tempo. E non sorprende vedere tanta sofferenza dentro di loro che li spinge a fuggire e a ritirarsi dal mondo piuttosto che affrontarlo.
Gli Hikikomori, i ritirati sociali, si chiudono in una cameretta-utero salvifica e protettrice per paura delle relazioni.
Altri si tagliano il corpo e la pelle, non per morire ma per controllare un dolore ingovernabile. Alcuni si fanno portare da pensieri di morte che nascondono ai padri perché li sentono deboli e incapaci di contenere quel loro acuto malessere.
Gran parte del passaggio all’età adulta ora si vive con adulti trasparenti che non danno una sponda di appoggio, e non contengono caos e la solitudine.
Numerose le adolescenze azzerate, private del presente e a cui, adesso, è stato tolto il futuro.
Molte quelle prive di sogni, non tanto perché insonni di notte, quanto perché nessuno li spinge a immaginare un volo.
Pensare al recupero del padre-artigiano credo serva a coltivare la forza di chi ha pazienza e fiducia, doti che un figlio si aspetta per imparare a camminare da solo.

Non per nulla Salvatore Quasimodo in una famosa poesia dedicata al padre scriveva: «La tua pazienza, triste, delicata, ci rubò la paura.»

Giuseppe Maiolo - psicoanalista
Università di Trento - www.iovivobene.it

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