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La legge sul testamento biologico – Di Daniele M. Bornancin

Punto d'incontro per una più intensa relazione tra paziente e medico

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Sul piano del dibattito pubblico, e su quello delle relazioni familiari capita a molte persone di trovarsi in circostanze che riguardano malattie dette terminali, di fine vita, in cui si rende necessario prendere in tempi brevi certe decisione che non si vorrebbe mai prendere o comunque avere qualche criterio per formarsi un’opinione, sia pure sofferta, dubbiosa, con la convinzione quasi della necessità.
Quando si è davanti a queste realtà, che toccano gli animi umani, o quando si rivivono gli echi del lungo percorso dei familiari di Piergiorgio Welby, affetto da distrofia muscolare progressiva, oppure della situazione di Eluana Englaro, per giungere alla decisione di sospendere la nutrizione artificiale, si è colpiti da emozioni di non comprensione, smarrimento e d’impotenza umana.
A tale riguardo negli anni sono pervenute indicazioni da vari studiosi, proposte tecnico scientifiche che spesso hanno creato posizioni diverse e contrapposte, sulla possibilità di affrontare queste scelte difficili e accomunate dall’esigenza di un discernimento etico circa l’impiego degli strumenti, che la medicina mette oggi a disposizione e la legittimità di una desistenza dai trattamenti.
Tutti momenti di riflessione questi, che non possono non considerare le difficoltà di come la morte, è vissuta e nello stesso tempo rappresentata nella nostra società moderna, dei cambiamenti che comunque si sono realizzati negli ultimi anni, che riconoscono che la morte costituisce ancora oggi un tabù.
 
È molto difficile, effettivamente, parlare del fine vita in modo che l’angoscia venga accettata con serenità, invece che rimossa; si preferisce occultarla negli ospedali o si tenta di isolarla.
Si favorisce il silenzio ad una parola che provi in qualche modo di interpretare l’esperienza, del dolore, della paura, sempre alla ricerca di un’accettazione. Argomento questo che insieme al testamento biologico è di difficile comprensione, che potrebbe riempire molte pagine di un libro con rappresentazioni di valutazioni e considerazioni soggettive o collettive, che però non andrebbero a incidere, se non in via generale, sulla complessità della situazione e sulla condivisione o meno di questa realtà.
Si tratta di questioni eticamente sensibili e per alcuni opinionisti, di principi non negoziabili;
È certo che nessuna persona si deve sentire obbligata a continuare il decorso con terapie artificiali, solo in parte efficaci, che comunque allungano la vita del paziente con molte sofferenze.
In questo quadro di un’importante e delicata realtà, il legislatore, con fatica e dopo anni di accanite discussioni è riuscito a trovare un punto d'incontro tra visioni diverse, senza grandi guerre di religione o scontri politici e ideologici.
 
Per entrare un po’ più da vicino nei risvolti della questione, il Governo Gentiloni, dopo molto tempo, adempiendo responsabilmente al proprio compito, ha presentato un’apposita legge in materia, la n. 219 approvata dal Parlamento il 22.12.2017 ed entrata in vigore il 16 gennaio 2018, con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale n.12.
Una Legge molto semplice e chiara, che tende a valorizzare la relazione di cura tra medico e paziente e che si basa sul consenso informato, nel quale s’incontrano l'autonomia decisionale del paziente e la competenza e professionalità, l’esperienza e la responsabilità del medico curante.
Un punto fermo riguarda il diritto della persona di conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informata in modo completo, aggiornato e chiaro sulla diagnosi, sulla prognosi, sui rischi dei trattamenti sanitari necessari, sulle possibili scelte e sulle conseguenze dell'eventuale rifiuto delle cure e del trattamento sanitario; il medico quindi è tenuto a rispettare le volontà del paziente indicata per iscritto in un apposito documento. Un cambio di rotta che introduce un nuovo strumento denominato DAT (Disposizioni Anticipate di Trattamento), dove ogni persona maggiorenne, capace d'intendere e di volere, in previsione di un’eventuale futura incapacità, dopo aver conosciuto tutte le informazioni mediche può, tramite le DAT, esprimere le proprie e personali volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto di scelte terapeutiche.
In caso di conflitto tra le due parti, o tra i familiari, la decisione è rimessa a una persona terza, ossia a un fiduciario della persona interessata o del medico o del rappresentante legale della struttura sanitaria.
 
Le DAT devono essere redatte sotto forma di atto pubblico o di scrittura privata autenticata, e consegnate agli uffici dello stato civile del Comune di residenza o davanti a un notaio o presso le Aziende Sanitarie locali; successivamente saranno annotate in appositi registri tenuti dalle strutture dove sono depositate.
Nel caso in cui le condizioni di salute del paziente non lo consentano, o per la persona con disabilità di comunicare le DAT, possono essere segnalate anche con strumenti di video registrazione o altre strumentazioni che diano al singolo la possibilità di far conoscere le proprie volontà.
A poche settimane dall’entrata in vigore di questa Legge sono già state depositate al Comune di Trento 7 DAT e 2 a Rovereto, altri comuni e le strutture sanitarie stanno ora organizzando l’iter amministrativo per questa procedura, in attesa delle disposizioni applicative, che saranno emanate dal governo.
L’Azienda Sanitaria trentina ha predisposto un modello tipo, con le principali ipotesi, al fine di facilitare la compilazione delle decisioni dei singoli cittadini interessati; in sostanza questi dettami della Legge, non sono altro che un aiuto concreto a definire le decisioni di fine vita.
 

 
Le dichiarazioni anticipate di trattamento si presentano con alcuni elementi positivi, uno dei quali riguarda la predisposizione del documento, un’occasione per riflettere sulla propria finitezza, sui valori principali della vita e sui momenti conclusivi dell’esistenza terrena di ognuno.
È attivato inoltre quel riappropriarsi di una responsabilità che la medicina tende a comprimere in conformità a criteri e formule tecnico scientifiche; un aspetto che non può essere sottovalutato è dato dal rapporto di mediazione tra paziente, medico e familiare.
Infine, la posizione del Comitato Nazionale per la Bioetica, che evidenzia che nonostante «il testamento biologico/DAT» sia disciplinato da una specifica Legge, queste disposizioni devono essere considerate dichiarazioni facoltative e non obbligatorie per le persone, non vincolanti per i medici, pertanto sono un elemento che attraverso un percorso che coinvolge gli operatori sanitari, i parenti e altri soggetti che possono contribuire a comprendere la situazione, di fatto, aiutano a giungere a una decisione partecipata, il più possibile unanime e soprattutto condivisa.
 
Su questa Legge si è anche espressa la CEI e dalle proprie comunicazioni emerge che vi è un riconoscimento fin troppo a tutela dei medici che sono sollevati dalle responsabilità, in caso d’interruzione delle terapie.
Il pronunciamento di Papa Francesco durante il Convegno di fine vita dell’Accademia Pontificia del 16 novembre 2017, che pur non modificando la posizione della Chiesa in particolare rispetto all’eutanasia, rilancia il dibattito su uno dei temi più importanti e discussi del nostro Paese.
Certo, non è compito di nessuno mettere in discussione le posizioni della chiesa nella contrarietà di un’interruzione volontaria della vita con mezzi attivi o passivi, la contrarietà quindi al c.d. accanimento terapeutico, ma non si possono dimenticare nemmeno le parole di sofferenza di Papa Giovanni Paolo II quando negli ultimi giorni disse: «cosa mi avete fatto, lasciatemi tornare nella casa del Padre».
Non si possono nemmeno non prendere in esame quei momenti particolari quando un malato, cui sono applicate terapie che non giungono in prospettiva nemmeno a una parziale guarigione, mette in difficoltà sia i familiari sia i medici, per prendere lecitamente la decisione di rinunciare alle cure, sia pure sproporzionate e lasciare che la natura faccia il suo corso, con la conclusione della vita.
 
In effetti, nessuno può venire obbligato a continuare o a subire trattamenti assolutamente non efficaci, che possono provocare un aumento delle sofferenze e nuove malattie.
Ecco perché, pur in presenza di uno sviluppo continuo delle tecniche e delle scoperte scientifiche, per certi aspetti sostitutivi della medicina, è sempre più difficile stabilire un preciso confine tra una cosa lecita e una non lecita, per intervenire in caso di prognosi particolare.
Da ciò anche l’impostazione data dalla nuova legge, che lascia piena libertà di scelta al paziente di decidere, in stretto dialogo con i medici.
La complessità di questi temi si racchiude solo in uno e unico aspetto: è moralmente lecito rinunciare all’applicazione di mezzi terapeutici o alla loro interruzione, quando il loro impiego, magari effettuato per molti anni, non corrisponde a quei criteri etici di cure se non proporzionali?
Oltre al messaggio di Papa Francesco e ai risultati del Convegno dell’Accademia Pontificia, anche la Diocesi di Trento, attraverso la Consulta della Pastorale della Salute, ha organizzato due giornate di riflessione per meglio comprendere i contenuti della recente legge (16 e 23 febbraio).
 
Nella prima giornata ha introdotto i lavori Carlo Tenni rappresentante della Consulta, che ha spiegato questo momento di entrata in vigore della nuova legge 219/2017 ed ha presentato le caratteristiche professionali dei relatori.
Elena Bravi, dirigente dell’U.O. di Psicologia Clinica dell’APSS, ha posto, nel suo intervento, l’attenzione sul processo della malattia, i sintomi che possono essere considerati anche come messaggi relazionali, la sofferenza condivisa dai sanitari.
Non sono mancati esempi dei limiti del trattamento, che hanno bisogno di un’alta specializzazione della medicina che non è più una medicina tradizionale o generale, ma ogni organo del corpo umano richiede uno specifico studio, con cure particolari e appropriate.
I cambiamenti della medicina negli ultimi cinquant’anni hanno portato la scienza medica da una forma tradizionale ad una moderna, per giungere a una tipologia di medicina post moderna.
Oggi le malattie acute sono quasi tutte debellate, nel nostro tempo si muore spesso per malattie croniche è inoltre capovolto il rapporto tra uomo e natura, prevale il concetto di un’immagine di salute assoluta e non sufficiente o parziale.
 

 
La società ci offre uno spaccato, dove la morte non fa parte della vita, perché la vita si è allontanata dal concetto della malattia e quindi non si accetta l’idea che ci sia una fine. Ecco che allora subentra nelle persone quell’attesa, dove la medicina ha l’obbligo di guarire in modo assoluto. Nasce il problema quando la tecnica non è in grado di guarire.
Da qualche tempo sono nate le esperienze delle cure palliative che si occupano in maniera totale dei pazienti colpiti da una patologia che non risponde più a trattamenti specifici e che portano al tentativo di considerare la morte come momento naturale, mirando alla qualità della vita dei pazienti e dei familiari.
Sulla nuova Legge, la rappresentante dell’APSS, ha messo in chiaro che non è una norma che stravolge le cose, ma perfeziona i dettati legislativi, anche quelli costituzionali e del sistema sanitario.
Sapere la verità per portare a una decisione fa parte di quel consenso informato che rispetta la libertà individuale e il diritto alla salute dei cittadini, come previsto dalla Costituzione.
In altre parole ha quindi rafforzato l’obiettivo importante nella situazione complessiva che s’incentra sulla valorizzazione e pianificazione della cura e dell’informazione, o meglio quella condivisione necessaria per cercare un idoneo tempo per la cura e un giusto momento per l’informazione.
 
La visuale di Lucia Galvagni, filosofa e biotecista del Centro per le Scienze Religiose della Fondazione FBK si è incentrata sui contenuti dei codici deontologici dei medici.
Regole, queste, che in sostanza dicono che in caso di terapia personalizzata intensiva e di stati vegetativi persistenti, si possono diminuire le terapie.
Ma lo snodo più importante è quello di chi ha il dovere di decidere, di chi è deputato a scegliere cosa fare. Il paziente prima della malattia, il medico, un familiare? Ecco farsi strada così, come ben indicato nella Legge, quel percorso indispensabile di relazione terapeutica di trattamento condiviso tra i vari soggetti coinvolti, uno specifico accompagnamento, insieme al proseguire il percorso.
Un riconoscere e codificare strumenti idonei a indicare la volontà della persona. Le DAT possono specificare anche disposizioni varie, come ad esempio la decisione di non rianimare il paziente o di non continuare la nutrizione assistita attraverso PEG.
Tutte disposizioni queste delle quali il medico deve tenere conto, ma deve anche misurare il valore della rinuncia, anche perché nessun trattamento può essere applicato senza la decisione della persona o di un suo familiare. I punti fermi del contesto e di questo binario che, con enorme difficoltà dovrebbero sfociare in un’unica decisione, sono caratterizzati da due principi: la tutela della salute e la riduzione delle sofferenze per la persona malata.
 
Edoardo Geat, direttore del Dipartimento Anestesia e Rianimazione dell’APSS dell'Ospedale di Trento, ha presentato le posizioni di forza della Legge con delle schede tipo delle DAT, già predisposte dall'Azienda Sanitaria e inserite nella piattaforma informatica dell'Azienda stessa (75 persone hanno già compilato le schede).
Una Legge semplice e comprensibile, che è permeata sulla persona e sulla relazione di cura, che mette al centro il paziente, il quale non può chiedere l'eutanasia o nuove cure non approvate e previste dalle leggi e dal sistema sanitario nazionale, così come il medico non può provare nuovi farmaci, senza il consenso del malato. Quindi scenari che vanno a pianificare le cure con una condivisione e un’informazione dettagliata sui trattamenti benefici o non benefici, in un rapporto fiduciario, tra i due soggetti.
Una norma che non ha linguaggi estremi, che non prevede l'eutanasia, ma che apre a nuovi scenari, che è, di fatto, un passaggio culturale che introduce nuovi interrogativi come: accelerare il percorso della morte e impedire che la morte avvenga, nella consapevolezza che il decesso rappresenta il peggiore dei mali per l’essere umano.
 
Si può dire che è una legge necessaria, che facilita il rapporto e la cura con il degente, una sfida organizzativa e culturale che interessa anche i principi della salute.
L'importanza, nelle varie situazioni di persone con incapacità intellettive, della figura dell'amministratore di sostegno, che può corrispondere al fiduciario previsto dalla recente normativa con delega sulla salute, può aiutare proficuamente il dialogo con il medico.
La seconda giornata ha visto quale protagonista Padre Carlo Casalone (foto in alto), medico e docente di teologia morale, membro della Pontificia Accademia per la Vita, il quale ha presentato la visione cristiana della nuova Legge sulle DAT.
 

 
Ha evidenziato l'importanza della persona, alla quale spetta l'ultima parola sulla situazione sanitaria.
Bisogna trovare tutti gli strumenti per giungere a un rapporto bilanciato tra medico e paziente, in un'ottica di autonomia decisionale, un’autonomia relazionale e non individualistica, ma concreta, e non astratta, dove la relazione è parte costitutiva della persona; la necessità, pertanto, di leggere l'esperienza di ognuno anche ispirata alle parole della Bibbia.
Nelle considerazioni di questo esperto gesuita, sono emersi puntuali riferimenti alla vita, che non si può togliere come avviene oggi con le relazioni digitali, dove si creano amicizie virtuali e poi si tolgono.
La vita della persona è stata messa al mondo dai genitori. Essere figli e genitori costituisce una relazione anche se in posizioni diverse. L
a visione cristiana di questa legge consente di porre domande sulla vita, sulla liberazione, sulla dignità umana e lasciarle dominare dall'esperienza della fede. Un’interpretazione della vita accompagnata dal patrimonio dell'esperienza umana della Chiesa. Per poter vivere dobbiamo custodire e proteggere la vita. Ecco l'importanza dello stare vicino al malato, anche quando non si può fare più niente.
La Legge 219/2017 stabilisce il perimetro nel quale muoversi, con posizioni diverse che caratterizzano l'azione, e su richiesta del paziente può ridurre o eliminare le sofferenze.
 
Una particolare valutazione ha riguardato il tema dell’accanimento terapeutico inserito nei parametri della medicina contemporanea, dove le terapie sostituiscono le funzioni vitali come aiuto alla persona, ma si giunge per certi aspetti a cure «sproporzionate» per mantenerla in vita.
La proporzionalità non può essere stabilita solo dal medico, che conosce l’appropriatezza clinica, ma deve essere compresa anche dal paziente che può così pronunciare la sua opinione. L’interruzione della terapia è quel lasciare che i trattamenti facciano il loro effetto, dopo la sospensione.
Vi è una differenza tra eutanasia e il sospendere le cure insostenibili per il paziente, in quanto sproporzionate, pertanto può anche essere considerata lecita la sospensione, rispettando la legittima autonomia del malato; ma quando è lecito sospendere le terapie intensive o l’accanimento terapeutico? Sulla base della valutazione del medico e del paziente, nonché dei familiari, ma soprattutto quando c’è una capacità di riconoscere umanamente la fragilità della persona malata?
La Legge non indica che il medico è un mero esecutore delle volontà del paziente, ma che deve coadiuvare il paziente stesso nella decisione, un’autonomia temperata e che lascia spazio al coinvolgimento del medico in un ragionamento compreso e condiviso.
 
Si può anche fare l’obiezione di coscienza sulla legge? Su quali aspetti? Non è chiara la fattispecie su cui fare l’obiezione, non trattandosi di eutanasia; posso, come persona, fare l’obiezione su qualcosa che consiste nel fare o non fare il trattamento? Questo non è stabilito dalla normativa.
Ecco perché si deve riconoscere che non è semplice decidere. Papa Francesco dice che questi argomenti devono essere posti con una grande attenzione e il paziente deve essere totalmente accompagnato nella scelta e che bisogna affrontare questi temi con pacatezza e serenità, con visioni e procedure condivise e partecipate.
In conclusione di questa riflessione, che intende cercare di offrire un’ulteriore e modesta considerazione su un tema attualissimo, ma molto difficile anche da esaminare, bisogna sostenere che questa disposizione legislativa ha portato ad una maturazione collettiva e ad un senso critico più obiettivo sulla sospensione, in particolari casi, delle funzioni terapeutiche.
Certamente tutto questo genera il venir meno del peso di quel pregiudizio che aleggiava nell’aria, basato sul concetto che la nuova normativa fosse l’anticamera o la scorciatoia dell’eutanasia, invece si tratta dei criteri con cui arrivare alla fine della propria vita.
Non un obbligo, ma una facoltà, o meglio, una possibilità attraverso un processo d’interpretazione non automatico, che deve coinvolgere non solo gli operatori sanitari nella dimensione collegiale, ma anche tutti quelli che possono contribuire a comprendere la situazione (familiari, parenti, amici) in una dimensione di aiuto reale, per arrivare a una decisione partecipata e il più possibile unanime.
 
Certo, un passo avanti, uno strumento di responsabile senso di civiltà, che può anche allontanare le posizioni ideologiche e che colma un vuoto durato molti anni in campo etico e sanitario.
 
Bornancin Daniele Maurizio

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