Simone Moro, il bergamasco che sognava di diventare alpinista
Il noto alpinista ha inaugurato oggi il ciclo di incontri «Uomini, cime e racconti» inserito nel programma de «I Suoni delle Dolomiti»
Numerosi gli appassionati e i curiosi che sono saliti fino ai piedi della Presanella.
I primi a salire verso il rifugio posto ai piedi del gruppo montuoso, nella conca di Stavèl che già dal nome di origine romana «stabulum» tradisce l'antica connotazione rurale, hanno visto un uomo correre leggero salendo il sentiero.
Si trattava di Simone Moro, il primo ospite della serie di appuntamenti intitolati «Uomini, Cime e Racconti», conversazioni sulla montagna in montagna inserite nel cartellone de I Suoni delle Dolomiti.
Con passo più o meno veloce e più o meno certo sono saliti in molti per ascoltare le parole e la storia di questo alpinista entrato ormai nell'olimpo di questo sport, che non è solo uno sport, e di questo stile di vita che è difficile da inquadrare.
Proprio Simone Moro ha aiutato molti a capire cosa sia «l'alpinismo», spiegando cosa è stato per lui. Un sogno, un sogno iniziato oltre trent'anni fa e alimentato dall'ammirazione per le imprese di quello che allora era il suo idolo, Reinhold Messner, e tenacemente perseguito, dapprima allenandosi nella cantina di famiglia o sui balconi di casa (sì perché lui è nato in città) e quindi cominciando a salire le cime più vicine come quelle del Selvino, con il padre.
Erano gli anni Ottanta e quel ragazzo aveva creato assieme ai propri miti anche un sogno per cui combattere: vivere di alpinismo.
«Sia chiaro – spiega subito al pubblico – che questo non significa sognare di diventare famosi, ma aver chiaro che tanto più grande è il tuo sogno tanto più grande è la fatica che devi prepararti ad affrontare.»
Si presenta subito umile e molto umano Simone Moro, che da un lato rappresenta l'élite di questa pratica e dall'altra riconosce quanto i sogni e la voglia di esplorare possano in ogni uomo.
Esplorare e percorre una prima invernale è una cosa straordinaria ma cosa lascia all'uomo?
«Se chi segue il proprio sogno ed esplorando scopre una cura o costruisce qualcosa non fa qualcosa di altrettanto bello e molto più importante?»
E ancora eccolo a sottolineare che le condizioni proibitive delle invernali, uno se le sceglie, mentre i guai – quelli veri perché capitano inattesi – sono ben altra cosa e segnano la vita di ciascuno di noi.
Non è un gioco a ridurre quello di Moro, perché sentendolo parlare si capisce quanto grande sia la sua passione e la fatica che è costata quello che ha costruito, ma dall'alpinismo ha imparato il senso della misura.
Forse per questo ha avuto il coraggio di lanciarsi nel 2001 in una spedizione di soccorso di un alpinista americano, rinunciando così alla conquista del Lhotse, forse è per questo che a soli 200 metri dalla conquista del Broadpick, ha rinunciato, perché si è reso conto che l'ora era tarda.
«Sono ancora vivo – ripete ridendo rivolto al pubblico. – Se avessi raggiunto la cima ora non lo sarei. La rinuncia non è una sconfitta.»
Vengono subito in mente – grazie al suggerimento del giornalista Andrea Selva, che modera l'incontro, – le parole di Messner quando diceva che la vera meta non è la cima lassù, ma la casa laggiù in valle dove fare ritorno.
Nel susseguirsi di domande e racconti c'è stato spazio anche per un tema poco indagato dell'alpinismo contemporaneo e cioè il rapporto con la tecnologia.
Moro è noto per usare spesso il web e mandare in diretta impressioni, pensieri, immagini dalle sue spedizioni persino a quote elevate.
Questo gli è costato qualche critica, ma lui spiega che invece è un momento in cui racconta la propria umanità e riporta gli alpinisti alla sfera più comprensibile per tutti: quella delle emozioni, delle nostalgie, del coraggio e della paura.
A parte questi aspetti la tecnologia rimane essenziale, tant'è che è ormai consuetudine per lui e per altri ottomilisti consultare il meteorologo Karl Gabel, che è sempre in grado di dare previsioni affidabili, perché non si fida ciecamente dei modelli matematici.
E così lo interpellano dai campi base chiamandolo via telefono a Innsbruck.
Prima della fine e delle tante domande del pubblico sulla paura, su cosa gli abbia insegnato la montagna («ciò che sono» ribadisce lui) o un suo giudizio sul grande Jerzy Kukuczka, c'è stato ancora spazio per l'Himalaya.
Anzitutto per raccontare del suo nuovo impegno nelle missioni di soccorso per cui ha acquistato un elicottero ed è diventato pilota.
Proprio alcuni giorni fa purtroppo il velivolo è però precipitato e questo pone Moro di fronte a una nuova sfida.
Quindi per ragionare su come è cambiato l'Himalaya in questi anni, proprio partendo dalla recente notizia di cronaca che l'ha visto protagonista - come vittima - di una rissa in quota.
«L'Himalaya è molto cambiata, – spiega. – È una risorsa economica importante per un paese povero che è giusto possa continuare a contarci ma col tempo non solo è cambiato il rapporto degli alpinisti e dei non alpinisti, cioè di noi tutti, con la montagna, ma anche quello tra gli alpinisti occidentali e i nepalesi. Entrambi stanno portando delle conseguenze evidenti sulle quali si sta discutendo per capire quali soluzioni trovare.»