Esteri. «A qualcuno piace cinese» – Di Miryam Scandola

Continuano gli investimenti di Pechino nella terra rossa degli africani: così convivono cooperazione e neocolonialismo

Lo sguardo degli occhi a mandorla si è fermato sul continente nero.
È uno sguardo che corteggia. Ormai da diversi anni, infatti, le lusinghe cinesi affascinano il debole gigante africano.
Con le seduzioni di aiuti umanitari a regime costante, di prestiti a interessi zero o di natura concessionale, l'espansiva Cina è riuscita ad attrarre a sé l'Africa spossata.
I risultati di questo corteggiamento insistito e mai scostante si sono ormai fatti visibili.
 
Prendono ora le forme dello stadio sportivo dalle proporzioni enormi, che riposa inutilizzato nel fango della Repubblica Centrafricana, ora, invece, delle migliaia di, assurdi quanto nuovissimi, appartamenti della Nova Cidade de Kilamba, in Angola, vuoti e abbandonati, perché indecentemente costosi per acquirenti che in tasca, ogni giorno, hanno a malapena due dollari.
Ma le scelte infrastrutturali e gli investimenti di Pechino, pur così spesso sconsiderate, hanno tuttavia collaborato a fare un'ottima impressione al mondo africano.
 
Il continente nero vede, infatti, nella mano gentile della Cina, un fratello maggiore capace di costruire sessanta ospedali e un centinaio di scuole in cambio di qualche misera, si fa per dire, concessione territoriale nelle zone diamantifere o nei suoli ricchi di uranio e petrolio.
Ma quello che piace di più e tanto ai gerarchi degli staterelli malconci dell'Africa è soprattutto la disinvoltura cinese o, per essere politicamente corretti, la sua politica di non interferenza.
Insomma il paese del riso vuole solo essere un mercante rapido, che non fa domande, che non pretende il rispetto dei diritti umani, men che meno della democrazia, concetto con il quale, per altro, non riesce ad avere una grande affinità.
 
Questa flessibilità immorale, ribattezzata «soft power», a quanto pare premia.
Negli anni infatti la Cina è riuscita a sbaragliare tutti gli altri pretendenti e a diventare la morbosa alleata e amante di 49 paesi africani.
Non per niente dal 2000 quando il valore monetario dell'interscambio tra Repubblica Popolare e Africa si aggirava attorno ai 100 milioni, si è arrivati al 2011 con una quota di 155 miliardi di dollari.
Ma altri numeri fanno ancora più riflettere come, ad esempio gli 8 miliardi di dollari( più di quanto elargito dalla Banca Mondiale, dalla Francia e dagli Stati Uniti ) del debito che lega e suggella dal 2006 l'alleanza economica tra l'Angola, Monzambico, Nigeria e il suo creditore cinese.
O i prestiti a tassi di interesse irrisori concessi alla Namibia per sbilanciare il rapporto e aprire le porte dell'uranio, del cobalto e dello zinco agli appetiti del Dragone.
 
Alla luce di questo e delle 800 aziende cinesi, che dal 2008 investono in 900 progetti sul suolo africano con la clausola dello sfruttamento esclusivo delle materie prime, le accuse internazionali di neocolonialismo sembrano, quanto mai appropriate.
Ma Sun Zhenyu, presidente della Società cinese per gli studi sull'Organizzazione mondiale del commercio difende la sua Cina
«Si tratta di un'accusa ingiusta. Durante più di un secolo, le esportazioni africane di petrolio verso la Cina hanno rappresentato il 13% del totale del continente mentre quelle destinate agli Usa e dell'Ue si sono collocate al 30% e al 37%.»
 
Ma forse il lungimirante Dragone non punta solo alle risorse, ma anche al potenziale, immenso mercato africano che si presta a ricevere le merci cinesi che non trovano acquirenti in Europa o in America.
Bisogna però tristemente precisare come la penetrazione di Pechino, spesso sotto forma di aiuti umanitari, sia un processo incontrollato che lede e recide qualsiasi speranza di auto-sostentamento autonomo.
Insomma la Cina, investendo in infrastrutture costruite ,sì su terreno africano ma con materiali e capitale umano esclusivamente cinese, impedisce e seda ogni possibile avanzamento competitivo delle economie locali.
Insomma invece di essere, finalmente, la prima ad insegnare alla dolorante Africa a pescare, la Cina la lega a sé, facendole arrivare infiniti container di pesce. Made in China, ovviamente.
 
Miryam Scandola