Controcanto…? No, Canto alla Madre. – Di Vittoria Haziel
«...Poi, improvvisamente, il controcanto mi diventa chiaro. È quello, fuori dei codici e dei cori, del figlio che accarezza sua madre col fissare il ricordo di lei. Evento tanto raro quanto sublime. Perché la memoria è un grande atto d'amore…» Quindicesima parte

Cari pellegrini, compagni di cammini
di conoscenza con santuari ovunque, si può fare un controcanto che
sia un canto allo stesso tempo? Questa volta è proprio così, e mi
succede con un pellegrinaggio speciale che il direttore mi concede:
quello del viaggio dentro un libro. No, non è solo una recensione:
per questo il giornale ha uno spazio apposta. È un'immersione
dentro le viscere del suo autore, soprattutto visto che di
autobiografia si tratta. Sto parlando dell'ultima opera di Diego
Dalla Palma, «Accarezzami, madre», fresca di stampa.
L'autore appartiene alla mia stessa «scuderia» editoriale - la
Sperling & Kupfer - ma non è per questo denominatore comune che
ne parlo. È perché Dalla Palma è uno di quei «fiumi sotterranei»
che ormai i fidi seguaci della mia penna sanno che mi piace
navigare.
Perché dico così di un uomo famoso come cultore della bellezza
muliebre, che si è preso cura delle dive e delle donne comuni con
la sua pratica di esaltarne il fascino? Dalla Palma è un «fiume
sotterraneo» come scrittore, anche se non è alla prima opera. Non è
titolato, accreditato, non è un intellettuale né un narratore di
professione. Scrive.
Eppure, navigando le acque del suo sangue nel quale intinge la
penna tormentata, si esplora una profondità di sentire non comune e
una vena poetica che offre contrappeso e consolazione alle molte
pagine sofferte e crude. In fondo, le immagini liriche alla fine
riescono a devitalizzare il nervo del dolore. Sono dolcissime, in
certe parti cantano la fusione tra il regno della natura e quello
degli uomini, come quando gli occhi di chi le scrive si alzano a
«qualche stella che fa da sentinella all'ipocrisia umana».
Dal punto di vista del «libro-oggetto», le pagine hanno una veste
grafica direi elementare. Anche le iniziali minuscole, dalla
copertina all'indice, ai titoli dei capitoli, sono un segno di
semplicità e di racconto non enfatico e gli stessi caratteri di
stampa sembrano specchio di quella pulizia morale che l'autore dice
di aver ereditato dai genitori, anche se confessa di averla a volte
sporcata con il suo agire.
Dalla Palma è un guerriero che di battaglia in battaglia con la
materia di laceranti sofferenze si è costruito una potente
protezione di consapevolezze.
«Ho investito sul dolore, gli ho dato un senso di positività per
corazzarmi», rivela dal palcoscenico del teatro San Babila di
Milano, dove quattordici attori di razza hanno interpretato i
momenti salienti della sua vita raccontata nel libro, sempre vista
in rapporto con la madre Agnese.
È un intervento a cuore aperto, quello che si svolge agli occhi di
chi legge. Vergogne risolte, poi riaffiorate a pelo dell'anima.
«Ti sfracelli, poi ne esci. Non come mia madre che soccombeva al
dolore», dice. Tutta la storia con lei è scossa da conflitti
violenti e aspri, ma il figlio con il suo racconto autobiografico
vuole «onorarla, farle giustizia».
Ha rimesso le mani in vecchi quaderni, fogli ingialliti,
fotografie, dai quali è venuto fuori quello che il figlio
sintetizza con una frase d'amore «lei e io ci apparteniamo». A quante di noi che abbiamo generato
piacerebbe sentirselo dire!
Una pausa per riflettere: mi viene da pensare che il «make up
artist» Diego Dalla Palma abbia abbellito sempre sua madre nelle
donne alle cui labbra e a gli occhi delle quali è stato forse più
vicino dei loro stessi amanti. Lo ha fatto, nel ricordo di quella
«sua» donna, che metteva il rossetto anche per andare nella stalla
e che alla fine lui ha truccato anche da morta, per darle un
viatico di bellezza, mentre le mani di lei incrociate sul corpo
sembravano «rami secchi sbiancati dalle mareggiate».
Fatevene un'immagine, cari pellegrini, e in questi tocchi di
pennellate ci trovate un estratto di poesia, anche nel momento
estremo della vita. Ed ecco, di nuovo, natura ed essere umano farsi
tutt'uno: mani e rami secchi, mare e mare.
La chiama mare, appunto, modo di dire madre nella
terra in cui Dalla Palma è nato e vissuto fino a quando non ha
fatto il salto nel mondo cittadino, dall'altipiano di Asiago a
Venezia e poi in giro per l'Italia e l'estero. E il nome mare
ricorda la grande distesa d'acqua.
Quindi il concetto della madre-polena, che il figlio
narratore inserisce, ne fa davvero un elemento importante e
consolatorio: Agnese viene posta da Diego sulla prua della sua
imbarcazione, a esorcizzare i pericoli che derivano dai marosi
della vita. Nella pronuncia orale «la mare» suona anche come se ci
fosse l'apostrofo «l'amare», e il gioco di parole del sostantivo
che si fa verbo ci riporta alla potenza della grande distesa del
cuore, mentre è vicina, per assonanza, l'amarezza. L'amarezza della
vita stessa come un velo copre la storia intera che il figlio ci
conduce con mano a rivivere con lui. Ma non è anche la nostra
stessa amarezza di vivere?
Il figlio trova le attenuanti al carattere fiero e duro di una
madre che non sa dare carezze.
«Ho vissuto in un'epoca che non era la mia... In un luogo che non
ho sentito mio», le fa dire. Quanti di noi si riconoscono in questa
struggente dichiarazione!
Il figlio le chiede un giorno «Mare, perché non mi hai mai
accarezzato?».
Lei tace. «Rispondimi», insiste, ma alla fine dall'eloquenza dei
silenzi e delle azioni di lei lui capirà che non si accarezza solo
con il corpo. Sono in fondo una carezza anche quel paio di
calzettoni di lana lavorati ai ferri dalle mani di colei che lo ha
messo al mondo, che ancora lui si ostina a portare.
Agnese è la madre, colei che genera e «ti condiziona». Nell'epilogo
triste della storia narrata alla fine de-genera fino a non
riconoscere più nemmeno il figlio. Una deflagrazione per l'animo di
chi vuole bene. L'amarezza scende ancor più in fondo al pozzo della
vita e corrode quel che resta delle viscere.
Tra bouganville, gelsomini, profumi di malga e di stalle, scenari
di «cieli stellati per stupire» sui «fuochi accesi per il freddo»,
c'è un termine che annichilisce e ricorre in tutto il libro,
«impotenza». L'impotenza di fronte all'orribile violenza subita nel
capitolo «Marchiato a fuoco», e quella che serpeggia in tutto ciò
che il protagonista è costretto a patire, o quando la vita lo porta
a «farsi sputare sul cuore e pisciare sulla dignità».
Parole crude che si merita la vita che spesso si fa beffa di noi.
Conosciamo le illusioni tremende, gli errori, le cadute di un uomo
che non finisce di stupire per lo spirito di autocritica e la
sincerità disarmante che gli fa anche dire «ho persino fatto ridere
di me gli specchi», ma subito ammette che bisogna «vivere e morire
nel migliore dei modi».
Grazie per questo invito coraggioso.
La vita raccontata da Diego Dalla Palma testimonia come un ragazzo
destinato a fare il «bovaro» tra i monti e le valli di un paesino
sperduto del Vicentino è riuscito alla fine a coronare non solo i
suoi sogni, ma anche quelli della madre, che proprio a quelle
montagne, quasi sfidandole, aveva affidato il destino del
figlio.
Le citazioni, contrariamente all'uso, sono alla fine di ogni
capitoletto. Tra tutte, vorrei riportarne una rivolta a tutti i
genitori e l'altra diretta a noi madri. La prima è di Friedrich
Ruckert. «Tu puoi imparare dai tuoi figli più di quanto essi
imparino da te. Attraverso te essi conoscono un mondo ormai
passato, tu in loro ne scopri uno nuovo che sta nascendo».
La seconda è di Sibilla Aleramo «La maternità rivela a tutte le
donne il loro istinto di espansione».
Tutt'e due tessono un concetto velato di immortalità, come se da
genitore a figlio la vita non si fermasse, andasse avanti mutando e
al tempo stesso restando se stessa.
Che dire, come madre? Quali pensieri posso trovare in comune con le
altre madri che come me piangeranno nel leggere questo libro che
genera sentimenti e risentimenti a catena?
Intanto, che provo una sincera invidia per Agnese, perché ha avuto
un così grande onore nella memoria di suo figlio. Ma per essere al
suo posto noi tutte non vorremmo dover morire. Vero che lo vorremmo
da vive, quell'onore? Vero che vorremmo tutte un figlio che - pur
nei «contrasti d'amore», come dice il sottotitolo del libro - ci
faccia un monumento nel suo cuore, ci metta come polene alla testa
della sua imbarcazione e, perché no? ci dia le carezze che noi a
volte non sappiamo dare a lui (o a lei)?
Grazie, Diego, di averci offerto l'illusione, nel tuffo empatico
dentro le acque del tuo cuore, di essere quasi tutte noi quella
madre coccolata con un libro che ci sembra dedicato anche a
noi.
Ora che sono in chiusura, il controcanto mi diventa chiaro. È
quello - fuori dei codici e dei cori - del figlio che accarezza sua
madre col fissare il ricordo di lei. Evento tanto raro quanto
sublime. Perché la memoria è un grande atto d'amore.
Davincianamente vostra
Vittoria Haziel
Nelle foto, dall'alto: Vittoria con Diego Dalla Palma; Anna
Mazzamauro con Leonardo Patrignani, autore della musica che ha
concluso la serata al Teatro San Babila di Milano;
Vittoria Haziel con Vincenzo
Iannuzzo.