Dopo 40 anni, stretta di mano tra le vedove di Pinelli e Calabresi

Grande commozione per l'incontro al Quirinale nel «Giorno della memoria» per ricordare le vittime del terrorismo. - Scritta una pagina di storia

La stretta di mano tra le vedove di Pinelli e Calabresi non ha solo commosso il Presidente della repubblica Giorgio Napolitano, ma anche la maggior parte di coloro che 40 anni fa erano dei ragazzi.
Chi non c'era forse fa fatica a comprendere il clima che si era creato in quegli anni che, lo ricordiamo, divennero «di piombo» solo nei successivi anni '70, frutto di un '68 che aveva solo esasperato gli animi e non certamente sopito la voglia che i ragazzi avevano di rompere con il passato sanguinoso della prima metà del '900.

La guerra era finita da più di vent'anni, ma l'inizio della democrazia sembrava rappresentata solo da un semplice allentamento delle morse del potere, perché le tradizioni religiose, culturali e morali tenevano ben saldo un modo di vita che era rimasto intatto da ben prima del ventennio e che non apparteneva più alle nuove generazioni.
Il '68 lo ha fatto tutta la nostra generazione, tutti i ragazzi di allora, indipendentemente dalla fede politica che potevano nutrire. Col passare degli anni, le sinistre si appropriarono della paternità della nostra rivoluzione generazionale, ma in realtà la volevamo tutti. Eravamo «solo» dei ragazzi che volevano tagliare con il passato, che volevano cambiare tutto. E subito.
L'incredibile era che le generazioni che ci avevano preceduti volevano invece tener duro per salvare qualcosa che, risultati alla mano, non valeva assolutamente essere conservato ma, al contrario, citato come esempio da non seguire. Predicavano il valore della famiglia, della patria, della fede. Tutti valori indiscutibili, ma che venivano impiegati sostanzialmente per farci fare quello che non volevamo.

Tutti noi, nati nel dopoguerra, avevamo il destino prestabilito dai nostri genitori fin da quando eravamo nati. Cultura e lavoro sarebbero stati per sempre quelli della famiglia in cui si nasceva. Dovevamo vestire sobri, portare giacca e cravatta fin dalle scuole medie, anche coi pantaloni corti. Dovevamo dimostrare quel timore di Dio che gli stessi genitori avevano sempre avuto, estrema garanzia per mantenere lo status quo. Dovevamo ubbidire ciecamente allo Stato per la semplice ragione che era lo Stato a volerlo. Dovevamo trovare un lavoro dipendente e conservarlo per tutta la vita. Tornare a casa con la monotonia ritmica del pendolo di Foucault. Sposarci, fare figli, insegnare a loro quegli stessi valori, invecchiare, morire e andare in paradiso. O almeno in Purgatorio.

Come si può immaginare non era permesso tenere i capelli lunghi come i Beatles (che, a ben guardare con l'occhio di oggi, proprio lunghi non erano…), perché erano espressione della ribellione e le cui canzoni non venivano assolutamente messe in onda dalla Rai. I Beatles venivano dall'Inghilterra, paese che aveva vinto la guerra e perso la pace. Da lì era partita la protesta semplicemente perché non era stata impedita. Poi si dilatà con la forza di uno tsunami, perché il sentire era comune di tutta la nuova generazione del Mondo Occidentale e le vie di comunicazione giovanili, per quanto primitive, erano ormai inarrestabili.
L'unica libertà nasceva dal matrimonio. Trovare un lavoro e lasciare casa significata uscire dallo schema e trovare la vita, il contrario di oggi, dove i bamboccioni stanno benone a casa, sostanzialmente perché la libertà in casa la trovano.
Allora la morale apparente doveva essere rispettata nella maniera più assoluta. L'ipocrisia dei bordelli, per cui i maschi potevano scopare mentre le donne dovevano restare caste, con la Beat Generation scomparve. Se 40 anni fa la figlia tornava a casa incinta, per la famiglia era una tragedia. Oggi, se la figlia torna a casa aspettando un bimbo, si fa festa…

Ma la cosa che più ci dava fastidio stava nel fatto che la democrazia, alla barba della Costituzione più bella del mondo, non esisteva. La volontà della maggioranza veniva regolarmente disattesa, come se tra popolo e governanti ci fosse una sorta di impenetrabile filtro…
Ci viene da ridere oggi a scoprire che i giovani non sentono di condividere il pensiero della maggioranza, quando ai nostri tempi la gente non riusciva a esprimere la maggioranza che voleva.
Comunque sia, avevamo pochi elementi con cui protestare. Alle scuole superiori avevamo scoperto le prime forme di sciopero con l'assassinio di Kennedy, per il quale nessuna autorità si era sentita di prendere provvedimenti. Da allora scoprimmo molte ragioni per fare scioperi, da quelle più banali come l'aumento della benzina (quando eravamo pochissimi ad avere la patente e nessuno con l'auto), agli esperimenti atomici degli USA, dell'URSS e della Francia.

Ma con l'università, fondata a Trento nel 1962 e maturata nel 1966, le cose cambiarono. Avevamo ormai 20 anni e cominciavamo a sapere cosa volevamo. Al diavolo tutto e tutti, la vita era nostra e ce la saremmo gestita noi. La protesta si fece generalizzata, senza confini di cultura, di classe e di fede, e in breve ci si trovò in piazza ogni secondo momento per qualsiasi buona ragione. In certe occasioni alcuni tiravano cubetti di porfido, altri si limitavano a osservare dall'esterno l'evolversi dei fatti, qualcuno scriveva gli slogan che altri portavano a spasso con gli striscioni o esponevano con i tazebao. Qualcuno le pensava, altri le facevano. Qualcuno studiava e a volte studiava anche per altri…
Qualcuno invocava la rivoluzione di Marx, Mao e Marcuse, altri volevano solo cambiare le cose. Qualcuno combatteva la sua rivoluzione con le parole. Ricordo uno studente cattolico (poi divenuto parlamentare) che ascoltava attentamente le prediche del parroco del Duomo. Una volta il prete parlò dei soliti «cristiani assassinati dal regime sovietico» e il ragazzo balzò in piedi e si portò dal predicatore: «Ma cosa dici, disgraziato! - gridò, indicando i fedeli. - Questa gente ti crede!»
Ovviamente lo scandalo fece l'effetto di una bomba, perché nessuno prima di allora avrebbe mai osato mettere in discussione la parola del parroco. Cambiarono tante cose da allora...

Era scoppiata la rivoluzione ed eravamo certi di cambiare tutto, anche se non sapevamo nella maniera più assoluta dove volevamo andare.
Di sicuro c'era solo il fatto che le cose sarebbero cambiate.
La polizia e i carabinieri (ben lontani dalla grande riforma che lo stesso capo della polizia di allora Coronas aveva avviato per avvicinarli al popolo) caricavano indiscriminatamente tutto e tutti. Colpevoli e innocenti, facinorosi e secchioni, rivoluzionari e democratici, credenti e miscredenti. Ma non eravamo soli, in tutta l'Europa la lotta si era fatta dura ed era divenuta cruciale, perché era in quel momento che si voleva scrivere la fine del mondo che aveva generato le due guerre mondiali.
In mezzo a tutto questo accaddero dei fatti gravissimi, che ci inseguirono e perseguitarono per decenni. Il 12 dicembre del 1969 accadde la strage di Piazza Fontana. Un attentato che lasciò tutti inebetiti. Non c'era nessuna ragione affinché una parte o l'altra dello Stato fosse giunta a ordire un delitto così odioso e senza logica. Nulla c'entrava con la nostra protesta, ma soprattutto mancava il «cui prodest», cioè a chi giovava un attentato contro inermi cittadini.

La polizia fece subito una retata di anarchici, al solito i primi sospettati. Tra questi c'era Giuseppe Pinelli, nato a Milano il 21 ottobre 1928 (20 anni prima dei ragazzi del '68…). Era un ferroviere che aveva militato anche nella Resistenza, come staffetta nelle Brigate Bruzzi Malatesta. Nel mese di novembre del 1966, già militante anarchico, diede appoggio a ragazzi del giro dei cosiddetti «capelloni» per stampare le prime copie della rivista Mondo Beat nella sezione anarchica «Sacco e Vanzetti» di via Murilio.
Pinelli morì il 15 dicembre 1969 (tre giorni dopo l'attentato di Piazza Fontana) precipitando da una finestra della questura di Milano, dov'era trattenuto per accertamenti in quanto sospettato di qualche responsabilità.
Le circostanze della sua morte, ufficialmente attribuita a un malore, hanno destato profondi sospetti a causa di alcune coincidenze legate ai momenti del tutto eccezionali vissuti nel capoluogo lombardo a seguito della strage. Una parte dell'opinione pubblica avanzò il sospetto che Pinelli fosse stato assassinato e che le indagini fossero state condotte con metodi poco ortodossi. Tuttavia, l'inchiesta conclusa nel 1975 dal giudice istruttore Gerardo D'Ambrosio, ha escluso l'ipotesi dell'omicidio, giudicandola «assolutamente inconsistente».

Se l'opinione pubblica aveva «avanzato dei sospetti», noi del '68 non avevamo dubbi. E l'arresto «sine-die» dell'altro anarchico Valpreda ci convinse che i due avevano subito la stessa sorte riservata in America agli anarchici italiani Sacco e Vanzetti nel 1927.
Intonavamo a Pinelli la cantilena popolare a suo tempo dedicata alla strage del Generale Bava Beccaris. «Ma che caldo, che caldo facevatu Lograno apri un po' la finestrauna spintae Pinelli va giù».
La polemica politica si intrise di vibrante animosità, tanto da parte di coloro che sostenevano la tesi dell'omicidio, quanto da parte delle autorità, e fu impossibile isolare la polemica riguardante questo caso dal Terrorismo in genere dalla cosiddetta Teoria della strategia della tensione, dal cosiddetto stragismo di stato alla repressione dei circoli anarchici italiani, all'assassinio del commissario Calabresi.

E qui ci allacciamo al tema in questione.
Dobbiamo confessare che allora tutti i giovani avrebbero virtualmente ucciso Calabresi, che era l'immagine di quello Stato che volevano cambiare e che lui invece difendeva a tutti i costi, anche a costo della vita. Della vita che poi ha dato, da eroe. La propaganda e la cultura di sinistra erano riuscite a convincerci che le cose erano andate in quella maniera.
Il tempo è passato, gli indagati sono cambiati, tutti i processi sono andati in fumo.
I cosiddetti «anni di piombo», uniti al cambiamento graduale ma inarrestabile dello Stato, ci convinsero a prendere le distanze da tutto ciò che non apparteneva alla normale evoluzione democratica del nostro Paese.

Si arrivò alla fine degli anni '80, quando noi del '68 eravamo entrati nel tessuto della nostra società. Allora riuscimmo davvero a cambiare tutto il sistema dall'interno. Un esempio per tutti: in una notte cadde il Muro di Berlino.
Il passato era da dimenticare e il futuro era nelle nostre mani.
Ma il passato, quello reale, non se ne va mai del tutto. Quanto vennero catturati i responsabili dell'omicidio Calabresi, ci accorgemmo che non era stato un sogno, o peggio un incubo, quello da cui ci eravamo liberati. Calabresi era stato ucciso davvero e i suoi assassini avevano preso corpo.
Allora ci accorgemmo che la realtà di allora era stata dura e indelebile.
Tutti ci sentimmo in colpa per quell'omicidio che avevamo irresponsabilmente sostenuto in qualche modo con l'appoggio morale, o meglio immorale. Forse tutto il Paese avrebbe dovuto consegnarsi per concorso morale? No, perché in realtà eravamo stati noi quelli raggirati. Era quel terribile clima culturale che ci aveva fatto sostenere cose che non potevamo neanche valutare.

Quel senso di colpa che ultimamente provavamo sia nei confronti della famiglia Calabresi che della famiglia Pinelli continuava a rodere le basi del nostro orgoglio di aver fatto il Sessantotto.
Per questo, quando abbiamo visto il Presidente della Repubblica mettere insieme le due vedove Pinelli e Calabresi, abbiamo avuto un senso di profonda commozione, forse più intenso di quello dimostrato dallo stesso Giorgio Napolitano, quando si sono incontrate per la prima volta dopo quarant'anni Licia Rognini, vedova di Giuseppe Pinelli e Gemma Capra, vedova del commissario Calabresi: «Finalmente, dopo 40 anni, possiamo stringerci la mano e guardarci negli occhi. Finalmente due famiglie si ritrovano».
Gemma Capra, vedova del commissario Calabresi, si china sorridente verso Licia Rognini, vedova di Giuseppe Pinelli, pochi istanti prima che inizino le celebrazioni del «Giorno della memoria» per ricordare le vittime del terrorismo.
Licia Pinelli non si alza, vista l'avanzata età, ma ricambia il sorriso e risponde: «Fingiamo che non siano passati tutti questi anni».
Il Presidente, che rappresenta ognuno di noi Italiani, è riuscito a fare quello che ognuno di noi, Italiani del Sessantotto, avrebbe dovuto fare nel quarantesimo anniversario del nostro «sostegno immorale».
Lui ci è riuscito e per questo gli dobbiamo grande riconoscenza, perché ha chiuso una brutta pagina della nostra storia.