Giovani in azione: Riccardo Corradini – Di Astrid Panizza
Il primo studente Erasmus a Gaza: «Voglio fare il chirurgo d'emergenza. Per questo (ma non solo) ho scelto Gaza»

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«Sono laureando in medicina all'Università di Siena e vorrei specializzarmi in chirurgia d'emergenza, sotto branca di quella generale che a livello chirurgico si occupa dell'addome.
«Sono convinto che fare il chirurgo crea indubbiamente qualche problema di conciliazione fra vita privata e vita professionale, ma è la mia grande passione e sto muovendo i miei passi verso quella direzione.
«Non ci sono tanti medici che esercitano questa professione, per questo nei prossimi anni la chirurgia d’emergenza sarà uno dei settori in cui verranno a mancare specialisti.»
Passione e determinazione: una strada, quella che sta percorrendo questo giovane ventiseienne roveretano, che l'ha portato molto lontano, sia in termini di crescita esperienziale, che umana.
Infatti, per dare seguito ai suoi sogni, Riccardo ha scelto come progetto Erasmus di trascorrere un periodo di tirocinio all'estero.
Però c’è un «però».
Il Paese richiesto da Riccardo non è l’inflazionata Spagna e neppure l’Inghilterra, la Francia o la Germania. Assolutamente no.
Riccardo ha scelto la Striscia di Gaza e incredibilmente è stato accontentato: il primo studente occidentale al mondo a riuscirci.
Il che è tutto dire in una situazione di costante tensione internazionale fra Israele e lo Stato Palestinese, dove una regione come la striscia di Gaza per di più è governata da Hamas, considerata da alcuni Paesi come un’organizzazione terroristica.
«Devo dire che sono concorsi due elementi importanti nella scelta di questo luogo come destinazione per il mio Erasmus, – ci rivela Riccardo. – Il primo è stato il voler imparare un mestiere in un posto come Gaza dove l’emergenza purtroppo è quotidiana.
«E quindi la possibilità di cogliere una chance più unica che rara là dove i chirurghi si interfacciano quotidianamente con la chirurgia d’emergenza.
«Inoltre, Gaza è una terra in cui vive una popolazione, quella palestinese, vittima da anni di costanti ingiustizie e abusi, nonché oggetto di completo disinteresse da parte della comunità internazionale.
«Ho pensato, quindi, che andando proprio lì forse avrei potuto portare anch’io il mio piccolo contributo, non perché io abbia la possibilità di cambiare la geopolitica internazionale, ma solo per dare quello che posso per migliorare qualcosa con questa mia esperienza.»
In effetti, secondo il gruppo per i diritti di Gaza «Al-Mizan», sappiamo che dal marzo 2018, da quando cioè sono iniziate le proteste lungo la barriera di confine con Israele, almeno 255 palestinesi sono stati uccisi dal fuoco israeliano, 7mila sono rimasti feriti e un centinaio ha subito amputazioni. Da questi numeri drammatici nasce, appunto, una casistica di chirurgia d’emergenza purtroppo unica al mondo.
Dalla tua esperienza è poi uscito un documentario messo in onda l’ottobre scorso dalle reti Rai nazionali. Quindi sei riuscito a richiamare l'attenzione quantomeno del nostro Paese, non è cosa da poco. Come è nata l'idea del documentario?
«È stata una scelta completamente al di fuori dalla mia volontà, almeno all'inizio. Sono stato, infatti, contattato da una giornalista e da un videomaker che stanno facendo lavori su realtà invisibili come può essere Gaza, girando video che possono contribuire a creare un sentimento di pace tra i popoli.
«Quando mi hanno proposto l'idea ho pensato che raccontare Gaza attraverso la mia esperienza avrebbe potuto essere d'aiuto per far vedere cosa succede realmente dentro alla Striscia, conoscere come sono le persone e sfatare miti o confermarne altri.
«Se invece fossi stato semplicemente io a farmi carico nel mio piccolo di un’operazione del genere, sarebbe stato tutto molto più limitato, in quanto, a dirti la verità, con i social sono un vero disastro.
«Ciò che mi ha convinto a realizzare il documentario è il fatto che io non sono il protagonista, bensì il tramite, l'occhio che osserva e che a sua volta aiuta a vedere. A me non importa di racimolare visibilità, in quanto sin dall’inizio il mio interesse è stato quello di far conoscere ciò che stava succedendo nella Striscia di Gaza proprio perché ciò che sta accadendo qui è una continua violenza.»
Come l'ha presa l'Università di Siena quando hai chiesto di voler andare proprio in quel Paese? E come si è poi concretizzato il progetto?
«La Comunità Europea, in precedenza, aveva permesso di creare delle borse di studio con le quali nel 2017 io ero già andato a Gerusalemme, in Cisgiordania e nella Palestina West Bank, la parte considerata sicura, per intenderci.
«La partnership si è poi estesa alla Islamic University of Gaza, con la richiesta di aprire con loro un progetto Erasmus e di conseguenza con l’opportunità per gli studenti della Striscia di essere ospitati a loro volta presso l’Università toscana.
«Quando, dopo alcuni mesi, sono stato chiamato e ho sostenuto il colloquio di selezione, ho scoperto di essere stato l’unico studente ad avere fatto richiesta per Gaza.
«Ovviamente, non essendoci stata nessuna concorrenza, sono stato preso immediatamente, a una condizione però: che firmassi una dichiarazione in cui mi assumevo la responsabilità per qualsiasi cosa fosse accaduta.
«Chiaramente non è stata una scelta fatta a cuor leggero, tuttavia sono sempre stato determinato e non mi sono mai lasciato intimorire da quello che può rappresentare da fuori la Striscia di Gaza.»
Cosa hai trovato una volta arrivato? Ti sei sentito accolto, oppure ti guardavano con sospetto per via del tuo status di occidentale?
«Gaza, se non fosse per la situazione di conflitto in cui si trova, sarebbe un posto meraviglioso. Devo anche dire, però, che nei quattro mesi trascorsi, solo per quattro giorni ho visto scontri e sentito bombardamenti.
«Le persone, lì, sono accoglienti, mi hanno sempre rispettato. Mi ha colpito molto vivere con loro ed essere a contatto con questa realtà che spesso ci immaginiamo come apocalittica.
«Esserci in prima persona, conoscere la gente che vive quotidianamente la Striscia mi ha fatto scoprire che loro sono esattamente quanto me e stanno subendo una continua ingiustizia.
«La situazione a Gaza, infatti, è critica perché più di due milioni di persone sono letteralmente prigioniere, rinchiuse da Israele entro dei muri senza la possibilità di uscire e con droni che controllano continuamente l'area.»
Ed è questa la ragione per cui nascono questi conflitti? Mi puoi raccontare in particolare cosa accade in quei momenti?
«Si ribellano semplicemente perché non accettano questa situazione. C'è un giorno della settimana, il venerdì, che per loro è come per noi la domenica, in cui dal febbraio del 2018 le persone marciano per reclamare il loro diritto all'esistenza, alla terra che è stata loro tolta, al diritto di vivere una vita libera degna di essere vissuta. E dall'altra parte cosa fanno gli israeliani? Sparano.
«È proprio in questi giorni che al pronto soccorso arrivavano i casi più gravi. Durante la mia permanenza a Gaza sono stato per cinque venerdì in pronto soccorso e un altro venerdì direttamente al fronte, nell'ospedale da campo.
«Ho voluto vedere da vicino questa triste realtà. All'inizio è stato difficile prendere le misure con quello che succede, però a un certo punto mi sono convinto che non potevo perdermi la possibilità di considerare di persona tutto quello che stava accadendo attorno a me. Era un fatto irripetibile, sia da un punto di vista professionale che umano, quindi mi sono fatto coraggio.
«È impossibile accettare quello che sta succedendo. Se da noi, in Italia, quando accade un incidente e una persona perde la vita pensiamo subito che sia stato un evento sfortunato, una disgrazia. A Gaza ogni volta che vedevo persone morire, colpite dai proiettili mi rendevo conto che era un fatto voluto, un fatto di una violenza inaudita.»
Una volta tornato in Italia, cosa ti è rimasto dentro? Che cosa vuoi o puoi fare?
«Posso laurearmi il più presto possibile, specializzarmi il più in fretta possibile, parlare il più possibile con te e con tutti coloro che scrivono sui giornali e far capire alla gente quello che sta succedendo sulla Striscia di Gaza in modo che sempre più persone si sensibilizzino alla questione e si avvicinino alla problematica.
«Secondo me un'esperienza del genere ti ridimensiona in una maniera incredibile, ti fa capire che non sei niente, che non vali niente, ma che hai la possibilità a seconda dei tuoi comportamenti di essere o non essere parte di quel cambiamento, di mettere, oppure non mettere quel piccolo tassello personale nel futuro mosaico della solidarietà e della convivenza.
«Un tassello che nel complesso forse non si nota, ma che se assieme al tuo tutti aggiungono il loro pezzo, ciò contribuisce a far diventare quel mosaico un'opera d'arte. Se invece nessuno partecipa non si potrà mai intravederne neppure la forma.
«La strada è lunga e complessa e non pretendo, come dicevo, di essere io a trovare la soluzione, però io cerco di dare il massimo con la speranza che prima o poi le cose cambieranno. Questo non sarà certamente né oggi, né domani, ma mi piace pensarmi tra qualche anno nuovamente a Gaza, a mangiare pesce guardando il mare da un ristorante, magari assieme a mio nipote che frequenterà un Master in una terra finalmente libera e in pace.
«Tra qualche mese, comunque, se non dovessi riuscire a laurearmi entro marzo, ritorno a Gaza per aggiungere altri dettagli alla mia tesi. Se invece riesco a laurearmi torno comunque, stavolta, diciamo così, come operatore di pace.
«C'è una frase di Mahmoud Darwish, una sorta di Dante palestinese, che parla della Palestina e la descrive come luogo che merita di essere vissuto. Ecco, se tornassimo all'inizio dell'intervista e tu mi chiedessi ora di condensare in poche parole il mio pensiero sul luogo che mi ha accolto con generosità per quattro mesi, bene, ti risponderei con la stessa espressione: Gaza è per me proprio quella Terra che merita di vivere e di essere vissuta.»
Astrid Panizza – [email protected]
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