Libia: il generale Graziano e il suo rapporto con i giornalisti
«Guai alle accelerazioni giornalistiche: non si può essere leggeri quando si tratta di argomenti tanto seri per la sicurezza del Paese e dei nostri militari»

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Il Generale Graziano, Capo di Stato Maggiore della difesa, rispondendo a una domanda sull’eventuale intervento militare italiano in Libia, si è dichiarato «assolutamente sorpreso per le ricostruzioni giornalistiche che continuano a imperversare».
«La linea di prudenza del Governo, espressa più volte dal Ministro Pinotti – ha sottolineato in sostanza il Generale – è assolutamente chiara e non lascia spazio a dubbi.
«Il resto sono solo accelerazioni giornalistiche. Non si può essere leggeri quando si tratta di argomenti tanto seri per la sicurezza del Paese e dei nostri militari.»
Il suo intervento è stato ripreso per intero sulle pagine di Difesa Online (vedi), ma in buona sostanza non dice nulla di più. Il che è sorprendente, perché quanto riportato dai giornali è generalmente risaputo dai colleghi che frequentano la Difesa.
La preoccupazione del generale è comprensibile, ma abbastanza singolare perché i ruoli della politica, delle Fiorze Armate e della Stampa sono ben definiti e ci pare che rappresentino bene l’ordinamento democratico del nostro paese.
La guerra non è decisa né dai militari né dai giornalisti, ma dai politici. Punto.
Per quanto di loro competenza, i militari hanno da tempo commissionato al COI (Comando Operativo Interforze) la pianificazione di un possibile intervento in Libia. Muovere dai 4.500 agli 8.000 uomini delle Forze Armate non può essere improvvisato dalla mattina alla sera e pertanto non ci aspettavamo nulla di meno dai responsabili della nostra difesa.
Per quanto di competenza dei giornalisti, le nostre informazioni dicono che i piani di addestramento avrebbero coinvolto un’unità di manovra su base brigata Folgore, che dovrebbe essere coinvolta a livello superiore dal comando della Divisione Friuli, anche se il comando di controllo dovrebbe essere affidato allo stesso COI che ha pianificato la possibile operazione.
Questo è quanto, ma da qui a dire che i giornalisti prendano alla leggera l’impegno di 15.000 uomini (si parla sempre di modulo «tre»: una unità in operazioni, una in addestramento e una a riposo) ci pare eccessivo.
Ripetiamo i ruoli. La politica decide l’intervento, per la cui autorizzazione la Costituzione impone l’intervento del Parlamento, su richiesta dell’Esecutivo.
Le Forze Armate mettono in atto quanto deciso dalla politica, verosimilmente così come sopra descritto e secondo il buonsenso di chi ha saputo vedere più in là dei politici e dei giornalisti.
I giornalisti devono spiegare al Paese cosa sta succedendo, informando sui rischi e sui pericoli di un’operazione militare, illustrando la situazione nel modo più verosimile possibile. E, nel malaugurato caso di un intervento, seguire da vicino le operazioni militari per svolgere il doppio ruolo di far sapere a Paese se i nostri ragazzi sono impiegati bene e far sentire ai nostri ragazzi se hanno l’appoggio del loro Paese.
A dir la verità, è un po’ di tempo che il PIO (Public Information Officer) della Difesa non concede ai giornalisti di partecipare a missioni dove sono impegnati i nostri soldati.
La scusa è che non ci sono fondi, come se gli stipendi dei giornalisti li pagasse la Difesa. Quello che viene da pensare è piuttosto che faccia comodo che i giornalisti non stiano intorno.
L’Italia ha impegnato all’incirca 10.000 uomini (sempre nel modulo 3) e noi siamo andati un po’ in tutti i teatri operativi, pubblicando centinaia di pezzi e centinaia di fotografie, che a ben vedere non hanno infastidito nessuno, anzi.
Ci attendiamo maggiore considerazione dal Capo di Stato maggiore della Difesa, perché anche i giornalisti rischiano la vita per svolgere il ruolo fondamentale di informare il paese sul modo in cui la Struttura sta usando le sue risorse.
Alla fin dei conti è la stessa cosa che facciamo ogni giorno parlando dei politici che prendono queste decisioni.
G. de Mozzi