Quei fiori che si mangiano – Di Giuseppe Casagrande
Rose, primule, violette, margheritine, nasturzi e molti altri fiori eduli non sono solo un pretesto per decorare un piatto. Si abbinano molto bene a molte pietanze

Nelle foto qui sopra e a pié di pagina, la scrittrice Sandra Ianni, esperta enogastronoma e sommelier.
Molti si chiedono: i fiori in cucina si possono mangiare o hanno solo un pretesto per decorare un piatto e renderlo così coreograficamente più stimolante? Sissignori: si possono mangiare.
E il loro utilizzo non è solo una trovata modaiola. I grandi chef stellati lo avevano sperimentato già nel secolo scorso.
Ma se andiamo a curiosare nella storia della gastronomia non si erano inventati nulla, visto che i più famosi e importanti cuochi del passato come Apicio, Bartolomeo Scappi e il Maestro Martino molti secoli prima ci avevano dato testimonianza dell’uso dei fiori sia nella cucina aristocratica sia in quella contadina.
Fiori che non sono solo degli orpelli, perché un petalo di rosa, una primula, un nasturzio non possono far diventare più buono un piatto cucinato male: un fiore può dare un sapore più intenso e diverso o condire meglio un piatto, ma può rendere anche meno malinconiche le ricette di chi è tenuto ad osservare una dieta rigorosa.
I fiori eduli più famosi: rose, violette, margheritine, nasturzi, sambuco
Lo racconta a WineNews la scrittrice enogastronoma, nonché sommelier, Sandra Ianni, esperta etnobotanica, che ha riportato alla luce, dopo 500 anni, la ricetta per realizzare l’«Hypoclas», il vino medicinale di Isabella de’ Medici Orsini. Ricetta tratta da un manoscritto di spezieria del XVI secolo.
Ma tra i fiori eduli, quali sono quelli più buoni, quelli diventati un ingrediente ormai imprescindibile e quali sono quelli che non si possono proprio mangiare?
«Tutto ciò che è naturale non è detto che sia benefico – avverte Ianni – occorre fare attenzione ai fiori che abbiamo raccolto, tra i quali l’aconito che è il più potente veleno vegetale. Insomma bisogna conoscerli i fiori, soprattutto quelli che crescono spontanei nei prati e nei boschi.»
I più diffusi in cucina sono le rose, delle quali abbiamo testimonianze fin dalla Roma imperiale. Famosa la ricetta del vino alle rose citata nel «De Re Coquinaria» di Apicio.
Ma un posto di primo piano hanno anche le violette e le margheritine, in particolare quelle di campo, le pratoline Bellis Perennis.
Sono oltre 1.500 i fiori che possono essere mangiati, da quelli selvatici a quelli coltivati. Tra i primi, attingendo alle tradizioni contadine, c’è il sambuco che si ritrova in tantissime preparazioni salate e dolci, come i pani per occasioni rituali.
Il più strano da mangiare, ma allo stesso tempo anche il più facile da coltivare sul balcone, è il tropeolo, noto con il nome comune di nasturzio, e che si abbina molto bene a diverse pietanze.
C’è poi il tarasso, che può essere anche farcito.
«Ma la cosa più bella dei fiori – sottolinea l’esperta – è poter raccontare le loro storie, fatte anche di miti e curiosità, e spiegare quando sono stati introdotti nella nostra cucina.
«Perché non si mangia soltanto con i sensi, ma anche con la mente. E noi italiani amiamo molto a tavola parlare del cibo che stiamo mangiando.
«Il fiore diventa così un balsamo per la nostra mente e la nostra anima.»
Raccogliere fiori ed erbe spontanee: il foraging solo con una guida esperta
Come sostiene nel suo ultimo volume «Fame di fiori. Nutrirsi di bellezza», pubblicato con Youcanprint e presentato nell’ultima edizione di Food&Book a Montecatini Terme, la ricerca di fiori ed erbe spontanee commestibili, che molti territori propongono come esperienza ai turisti, è un vecchio e al tempo stesso nuovo modo per avvicinarsi alla natura e imparare a rispettarla.
«Noi siamo abituati a vivere in luoghi sempre più chiusi, spesso in compagnia dei nostri smartphone e pc che non ci fanno vedere più in là di 30 centimetri.
«Andare a fare un’esperienza di riconoscimento di erbe spontanee ci induce a guardare più lontano, a recuperare il contatto con la natura ed a conoscerla meglio - secondo Ianni - ma non ci dobbiamo improvvisare grandi botanici, perché si rischia di scambiare un fiore di cicuta per uno di carota.
«Partecipare al foraging con la guida degli esperti oggi è di gran moda, ma serve soprattutto ad imparare a riconoscere quello che si può mangiare.»
In natura esistono numerosissime erbe che possono rendere più gradevole la nostra cucina. Già nel Settecento il naturalista e medico di corte dei Lorena, Granduchi di Toscana, Giovanni Targioni Tozzetti, tra gli eruditi più in vista della sua epoca e tra i soci fondatori dell’Accademia dei Georgofili, scrisse l’«Alimurgia o sia Modo di rendere meno gravi le carestie, un libro dedicato alle erbe che si mangiano per salvare il popolo dalla fame.
Nell’antica Roma si mangiavano oltre 200 verdure, oggi al supermercato ne troviamo cinque-sei di stagione.
Ritrovare i sapori dei fiori e delle erbe selvatiche - sostiene la scrittrice - è un modo di riappropriarci di conoscenze antiche che fanno parte della nostra tradizione e riportare in tavola un ingrediente che racconta la nostra storia o quella della nostra famiglia.
Ma, conclude Sandra Ianni, non ci si deve far prendere la mano: «non si può andare in campagna e cominciare a raccogliere tutto ciò che è commestibile per portarlo a casa e lasciarlo appassire perché non abbiamo il tempo di cucinarlo, privando api ed insetti del nettare più importante per la loro e la nostra vita. Bisogna essere parsimoniosi nell’approvvigionarsi in natura».
Parole sante.
Giuseppe Casagrande – [email protected]
Nota: La nostra Franca Merz, che segue l'omonima rubrica di ricette del venerdì, ha pubblicato una ricetta con i fiori, che suggeriamo di leggere a questo link.