Il diritto all’autodeterminazione – Di Nadia Clementi
Ne parliamo con quattro donne unite da una missione comune: ridare valore a famiglia, maternità, identità ed educazione

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In un panorama culturale in cui la figura femminile è spesso raccontata attraverso modelli uniformanti, legati all'autonomia individuale e al successo personale, quattro donne provenienti da diverse regioni d’Italia hanno deciso di unirsi per dare voce a un’altra prospettiva.
Una visione che riconosce nella donna non solo il diritto all’autodeterminazione, ma anche il valore della maternità, della relazione, della cura, della spiritualità, dell’identità.
Un progetto nato dall’esigenza di riaffermare ciò che rende la femminilità una risorsa unica e insostituibile per la società: la capacità di generare vita, costruire legami, educare, custodire.
Le promotrici di questa iniziativa condividono l’idea che la famiglia sia il fondamento della comunità, che l’educazione sia un diritto e un dovere primario dei genitori, che la vita vada tutelata in ogni sua fase, e che la cultura contemporanea debba recuperare le proprie radici storiche e spirituali per ritrovare stabilità e significato.
Non è una battaglia contro qualcuno, ma per qualcosa: per una società più umana, più attenta, più armonica.
Per un futuro che riconosca e sostenga la complementarietà tra uomo e donna, e restituisca dignità alle scelte femminili spesso svalutate, come quella di dedicarsi alla famiglia.
Un progetto sociale e culturale che vuole crescere, coinvolgere, dialogare, e che oggi prende parola attraverso le donne che lo hanno ideato.
Scopriamo chi sono, concretamente, le protagoniste di questa visione
Sonia Lombardo
Mamma di tre figli, vive ad Avellino. È un'insegnante appassionata che ogni giorno si impegna a trasmettere ai suoi studenti l’amore per le radici, la giustizia e la coerenza.
Cresciuta con i valori della destra sociale, ha fatto della libertà nella verità la sua bandiera. Difende la famiglia come fondamento della società e la patria come casa comune da custodire.
Sonia è una donna forte e determinata, un esempio per chi crede nel valore dell’educazione come strumento di cambiamento culturale.
Carola Profeta
Siciliana di origine, vive in Abruzzo. È mamma di quattro figli, di cui uno in cielo, ed è una professionista attiva. È presidente di un’associazione che promuove la famiglia, la vita e i valori, diventando un punto di riferimento per molte donne.
La sua esperienza personale è segnata da una ferita profonda, l’aborto, che ha trasformato in una vocazione alla verità.
Oggi è una voce limpida e coraggiosa contro ogni cultura di morte, e una paladina della libertà educativa e del diritto alla maternità.
Nicoletta Di Santo
Abruzzese, è una donna concreta, radicata nella vita quotidiana e nei legami familiari. Commerciante da sempre, è madre di due ragazze e moglie da oltre vent’anni.
Ha fatto della libertà responsabile il suo principio guida: una libertà che ama, costruisce e si prende cura. Ha educato le figlie al rispetto di sé, degli altri e al pensiero critico.
Nicoletta incarna una femminilità armoniosa, fatta di equilibrio tra affetti, lavoro e impegno civile.
Donatella Isca
Siciliana trapiantata in Toscana da oltre vent’anni, è laureata con lode in Scienze Politiche. È sposata da più di trent’anni, madre e da poco anche nonna. Nella sua vita ha sempre privilegiato la famiglia, rendendola il centro delle proprie scelte. È referente regionale di un’associazione che promuove la famiglia e la vita, e ha organizzato numerosi incontri su educazione, ambiente e valori non negoziabili. Per Donatella, tradizione significa trasmettere ricchezza, non adorare il passato: è una visione dinamica, intergenerazionale e profonda del vivere sociale.
Incuriositi dalla forza della loro visione e dalla determinazione con cui portano avanti questo progetto, abbiamo voluto approfondirlo ponendo a ciascuna una domanda.
Carola, hai trasformato un’esperienza di dolore in una testimonianza pubblica forte e significativa. In che modo questa vicenda personale ha ispirato l’impegno che porti avanti oggi, e con quali obiettivi?
«Gambàli! Si chiamano così quegli arnesi dove, noi donne, poggiamo le gambe allargate quando dobbiamo partorire o, ahimé, abortire. Di quella fredda giornata di gennaio, del 1999, ricordo il gelo di quei gambali, ricordo il tremore nel posizionarsi su quel lettino, ricordo le lacrime, perché sapevo che stavo facendo una cosa che non avrei mai pensato di fare per cultura, per educazione ricevuta. Ma ero sola e non conoscevo nessuna alternativa.
«Avevo 23 anni, non lavoravo, la mia famiglia viveva lontana e avevo un fidanzato che voleva che io abortissi, un fidanzato a cui non potevo opporre resistenza.
«Negli anni, mi sono incolpata e torturata molto. Avevo volontariamente ucciso mio figlio. Mi ero autodeterminata. Ero stata libera di vivere la mia vita. Avevo scelto sul mio corpo? Sono stata davvero libera?
«Oggi, che conosco la Legge 194 quasi a memoria, non posso sottrarmi alla responsabilità della firma che ho apposto sul foglio per chiedere l’aborto, ma mi è chiaro che lo Stato non fu solo il mio complice, ma proprio il mandante. Perché 25 anni fa nessuno mi ha ascoltato, non ho fatto nessun colloquio con la psicologa o con gli assistenti sociali, nemmeno con il medico.
«Sono andata al consultorio, mi hanno fatto l’ecografia e mi hanno detto che avrei dovuto abortire subito perché già ero al limite dei tre mesi. Nessuna altra possibilità. Dopo due giorni ero all’IVG di Pescara, ricordo perfettamente ogni momento, ricordo perfino il nome del ginecologo, che faccio fatica a chiamare medico.
«L’anno dopo, durante il Giubileo del 2000, a Roma nella Basilica dei Santi Pietro e Paolo, mi sono confessata per la prima volta ed è stato un dolore allucinante perché ho realizzato realmente cosa avessi fatto. Mi ero sentita sola, nessuno mi ha chiesto perché lo facessi, quali fossero i motivi che mi spingevano ad interrompere la gravidanza, le mie motivazioni erano prettamente economiche, e paura di essere sola, avrei voluto qualcuno che mi chiedesse perché?, che mi proponesse l’altra possibilità, che mi aiutasse a rendermi consapevole di cosa è l’aborto, l’eliminazione di mio figlio, che avesse tradotto nel concreto i concetti di autodeterminazione e libertà.
«L’aborto è l’unica scelta di autodeterminazione della donna da cui non si può tornare indietro. Le libertà conquistate delle donne sono cosa buona: una conquista per certi versi anche sacrosanta: se oggi una donna vuole cambiare lavoro lo può fare, se vuole cambiare fidanzato lo può fare, se vuole studiare o cambiare gli studi lo può fare, oggi la donna ha la possibilità di autodeterminarsi; l’unica scelta così detta di autodeterminazione da cui non può tornare indietro è l’aborto.
«Anche la più femminista delle femministe sa che chi ha abortito, prima o poi si ritroverà a dover affrontare questa ferita profonda nel cuore: ricordare il giorno dell’aborto, della data presunta del parto, immaginare ogni anno come sarebbe stata la vita di quel figlio. L’ho chiamato Marco, e oggi avrebbe 26 anni. Me lo immagino un amante del calcio, uno studioso, un bravo ragazzo, come i suoi fratelli. Se 25 anni fà mi avessero fatto ascoltare il cuore di mio figlio, forse oggi sarebbe vivo.
«Dopo diversi anni, ho scoperto che la mia ferita poteva diventare una feritoia, che la mia testimonianza poteva diventare un piccolo contributo nello svelare uno dei più grandi inganni ai danni della donna, e cioè che ha il diritto di decidere di sopprimere suo figlio nel proprio grembo, senza che questo la possa cambiare nel profondo. Se raccontare la mia storia può, forse, salvare anche solo una mamma e suo figlio, valeva la pena essere qui.»
L’obiettivo?
«Il successo della politica pro-life nello Stato dell’Indiana è straordinario: nel 2024, il numero di aborti è crollato a soli 146 casi, contro gli 8.414 del 2021.
«Questo significa 8.268 vite salvate in un solo anno, con una riduzione del 98%! Il merito va alla legge entrata in vigore il 15 settembre 2022, che vieta quasi tutti gli aborti, con rare eccezioni:
• Stupro o incesto: fino a 10 settimane dal concepimento.
• Anomalie fetali letali: fino a 20 settimane.
• Gravi rischi per la salute o la vita della madre: senza limiti di tempo.
Tutti gli aborti devono essere eseguiti in ospedali o centri chirurgici affiliati.
«Nel 2024, solo 17 aborti hanno soddisfatto queste eccezioni: 9 per anomalie fetali letali, 7 per gravi rischi per la madre e 1 per stupro o incesto.
«Questo dimostra che una legislazione coraggiosa può davvero salvare vite e costruire una cultura della vita. L'Indiana è oggi un esempio per tutti!
«Io lo dico sempre, è il mio motto: Noi saremo la generazione che
eliminerà l’aborto. Questo è uno degli obiettivi, e salvare vite umane,
è un SANTO obiettivo!»
(Vedi)
Nicoletta, il tuo equilibrio tra famiglia, lavoro e impegno sociale rappresenta un modello concreto di femminilità integrata. Cosa ti ha spinto a unirti a questo progetto e quale messaggio vorresti trasmettere ad altre donne?
«La motivazione che mi ha spinta a far parte di questo gruppo nasce dalla profonda convinzione che la famiglia debba tornare ad essere il perno della nostra società. È nella famiglia che si forma l'individuo, ed è da lì che prende forma la capacità di costruire una comunità fondata sul rispetto e, ancora prima, sull'amore per sé e per gli altri. L'amore è la vera chiave.
«Oggi la donna è spesso costretta a scegliere tra realizzazione professionale e ruolo materno, affrontando sacrifici enormi. Il lavoro è ancora pensato su modelli che non tengono conto delle esigenze familiari, costringendoci a delegare, nei migliori dei casi alla scuola, nei peggiori ai social, ciò che spetterebbe ai genitori: educare, crescere, accompagnare. Ma la scuola non può né deve sostituirsi alla famiglia.
«È urgente ripensare il lavoro femminile, creando un equilibrio reale tra vita privata e professionale. I figli hanno bisogno di presenza, di guida, di partecipazione. L'obiettivo dev'essere un'alleanza concreta tra mondo del lavoro e mondo familiare.»
Sonia, sei un’insegnante e una madre: due ruoli educativi fondamentali. Perché credi che oggi sia urgente recuperare il senso della verità, dell’identità e del radicamento culturale, e come pensi che questo progetto possa contribuire?
«Come insegnante e madre, credo che oggi più che mai sia fondamentale riscoprire il valore della verità, dell'identità e delle radici culturali. I bambini e i ragazzi hanno bisogno di punti fermi, di riferimenti autentici che li aiutino a crescere con consapevolezza e senso critico. In un tempo in cui tutto sembra relativo e fluido, offrire loro strumenti per comprendere chi sono e da dove vengono significa renderli più liberi.
«Questo progetto può contribuire proprio in questo: riportando al centro i contenuti veri, il confronto costruttivo e il rispetto per la storia, la lingua e la tradizione. È un modo per educare al pensiero, non all'omologazione e per formare cittadini responsabili, non consumatori passivi di idee.»
Donatella, come si arriva, nella tua esperienza personale e culturale, alla consapevolezza che la tradizione non è nostalgia, ma ricchezza da trasmettere? Da dove nasce il desiderio di avviare un progetto come questo e quali sono le sue finalità?
«Arrivarci non è stato un lampo, ma un percorso: da figlia, da moglie, da madre e ora anche da nonna. Ho capito nel tempo che la tradizione non è una prigione né un ricordo sbiadito, ma un'eredità viva. La parola stessa lo dice: tradizione viene da tradere, che significa consegnare.
«E cosa si consegna? Non certo ciò che è inutile o dannoso. Si consegnano i tesori: quelli materiali, certo, ma soprattutto quelli immateriali – i valori, le esperienze, le lezioni di vita. Si consegna ciò che ha valore, ciò che merita di essere custodito e trasmesso.
«Il desiderio di avviare un progetto come questo nasce proprio da qui: dall’urgenza di valorizzare un patrimonio immateriale che affonda le radici nella nostra storia, nella nostra fede e nella nostra identità culturale. In un tempo in cui la confusione regna sovrana e i modelli proposti sono spesso vuoti o distruttivi, noi donne, con storie diverse ma valori comuni, abbiamo sentito la responsabilità – e il coraggio – di unirci.
«Di dire ci siamo, di non lasciare il dibattito pubblico in mano a chi vuole cancellare tutto ciò che ci ha fatto diventare ciò che siamo.
«Il nostro progetto non è solo culturale: è umano, sociale, educativo. Vogliamo influenzare positivamente l’opinione pubblica, riportando al centro parole come maternità, complementarità, identità, responsabilità. Non per guardare indietro, ma per guardare avanti con radici forti. Perché solo chi ha radici può crescere alto.»
Oggi molte donne si sentono disorientate o non rappresentate dalla narrazione dominante sulla femminilità e sul ruolo sociale della donna. Cosa direste a chi sta cercando un’alternativa, e come possono, secondo voi, altre donne (e uomini) contribuire a diffondere i valori che portate avanti attraverso questo progetto?
Donatella:
«Diremmo prima di tutto: non abbiate paura di guardarvi dentro. È lì che si trova la verità. Anche se l’anima può essere ferita, confusa o stanca, dentro ogni donna c’è un seme di verità che attende solo di essere riscoperto. Serve coraggio per ascoltarlo, perché la voce dell’anima è più silenziosa rispetto al frastuono del mondo. Ma è autentica.
«Le donne hanno un valore unico e irripetibile: non sono né copie degli uomini né devono diventarlo per sentirsi libere. Hanno pari dignità e stessi diritti, ma sono completamente diverse, e questa diversità è una ricchezza da proteggere, non un ostacolo da superare.
«Per ritrovare il senso di sé, bisogna liberarsi dagli stereotipi camuffati da progresso, smascherare le immagini patinate costruite dai media, spesso nati oltreoceano. Dietro quelle copertine, quelle influencer, quelle icone, ci sono progetti precisi, finanziati e veicolati per uniformarci tutti, donne e uomini, a un modello di umanità consumista, fragile, manipolabile.
«Ecco perché questo progetto è così importante: per dire che un’alternativa esiste. Che si può vivere in pienezza, in autenticità, in radicamento. Che la libertà non è imitare l’altro, ma riscoprire ciò che siamo.
«Chi condivide questo sentire può contribuire in tanti modi: parlando, scrivendo, educando, vivendo coerentemente.
«Ma soprattutto mettendosi in rete con altre coscienze sveglie, per generare cultura, comunità e coraggio, diventando anche interlocutori della politica. Perché il cambiamento vero parte da chi ha il coraggio di essere sé stesso in un mondo che vuole renderci tutti uguali.»
Nicoletta:
«Diremmo di non avere paura di sentirsi fuori posto: spesso il disorientamento nasce proprio da una sensibilità più profonda, dal bisogno autentico di verità e coerenza con sé stesse.
«A chi cerca un'alternativa, diciamo: esistono modelli di femminilità forti, liberi e consapevoli che non si piegano agli stereotipi, né moderni né passati.»
Sonia:
«Altre donne (e anche gli uomini) possono contribuire sostenendo spazi di confronto autentico, valorizzando il merito, la maternità, l’identità, la differenza senza contrapposizioni.
«Occorre raccontare la donna nella sua interezza: forte e fragile, razionale e intuitiva, libera di scegliere il proprio posto nel mondo che sia in famiglia, in politica, sul lavoro o ovunque si senta realizzata.»
Carola:
«Come donne con forti valori, vogliamo superare i conflitti tra i sessi e riconoscere nell’uomo un alleato, non un avversario. La nostra identità femminile racchiude una forza morale e spirituale unica, che ci chiama a prenderci cura dell’umanità.
«In un mondo in crisi, il genio femminile può offrire speranza, equilibrio e attenzione alla dignità di ogni persona. Vogliamo essere parte viva di questa missione.»
Se condividi questo progetto e senti che è tempo di dare voce a valori come famiglia, maternità, identità ed educazione, contatta Sonia, Carola, Nicoletta e Donatella scrivendo a [email protected] Perché il cambiamento comincia da chi ha il coraggio di non restare in silenzio.
Nadia Clementi – [email protected]
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