La forza di vivere nella speranza – Di Nadia Clementi

Martina Samaja, «Aspettando l’arrivo del vento». Un libro, una malattia invisibile, una vita che resiste

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Nel cuore dell’estate 2022 avevamo raccontato la storia intensa e coraggiosa di Martina Samaja, giovane donna che ha affrontato con determinazione la fibrosi cistica, l’isolamento della pandemia e infine un trapianto di polmoni, gesto estremo d’amore e di speranza (vedi).
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A distanza di quasi tre anni, Martina ci riapre la porta del suo mondo con una novità importante: la pubblicazione del suo libro «Aspettando l’arrivo del vento» (Albatros - Il Filo).
La ritroviamo oggi con la stessa forza, ma con nuove parole che hanno preso forma in un progetto editoriale che è insieme testimonianza, denuncia e abbraccio alla vita.


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Martina, la donazione degli organi è un atto di amore immenso: che significato ha per te, oggi, sapere di vivere grazie al dono di qualcun altro?

«Come tutte le cose un po’ più grandi di noi, anche questa è un miscuglio di emozioni e un crogiolo di sentimenti che si rincorrono, si esaltano e si contrappongono tra loro. 
«È difficile capire fino in fondo la gratitudine che si può provare quando un altro essere umano ti salva la vita con la sua, credo non esistano parole in grado di esprimere tutto questo. 
«Quel momento in cui arriva la chiamata, la scossa che ti rianima dopo, nel mio caso, quattro anni di attesa, tra l’altro in mezzo al periodo del covid. 
«È vita pura, sottopelle, inalata come ossigeno, è come stare nel primo vagone delle montagne russe con tutta l’aria in faccia e l’adrenalina alle stelle.»
«È anche paura, timore, di una cosa talmente più grande di te, di un amore più grande di te, di un miracolo più grande di te, ma anche di una responsabilità più grande di te. Portare la vita di qualcun altro su di sé, proteggerla, custodirla, sapere che il tuo donatore ti ha dato tutto quello che aveva nel momento più buio della sua vita, e tu devi fare tutto il tuo meglio per fare le scelte giuste e preservare quel dono. 
«Puoi mettercela tutta e comunque non riuscirci, e questa per molto tempo l’ho vissuta come una sconfitta personale, quando purtroppo ho iniziato ad avere il rigetto, 2 anni dopo il trapianto.»
«Ma, nonostante il rigetto, non ho mai smesso di credere nella vita, che è la cosa che mi lega al mio donatore. Il rispetto per la vita è la cosa che più mi sta spingendo a fare tutto quello che posso, nonostante le limitazioni che ho adesso, perché la vita va si festeggiata, ma ancora di più onorata, e proprio in onore di quel dono miracoloso che mi ha letteralmente salvata da morte certa, e che fa si che io sia ancora qui a scrivere queste parole, io ho promesso a me stessa e al mio angelo, di non smettere mai di tentare. Per me questo vuol dire onorare quel dono. Onorare quella persona. 
«Far sì che non sia stato sprecato niente, neanche un solo minuto della vita “nuova” che mi è stata donata. Perché ogni respiro suoni come un immenso, infinito grazie al mondo, per la sua meraviglia maestosa e per l’amore che esso contiene, anche se spesso facciamo fatica a vederlo. Questo Dono è uno dei suoi esempi più riusciti.»
 
Cosa significa, per te, «vivere nella speranza»? E quanto è importante per chi affronta ogni giorno una malattia cronica come la tua?

«La speranza è tutto. In ogni situazione, in ogni occasione, per chiunque. Soprattutto per chi vive in una situazione di una malattia cronica come la mia. Perdere la speranza per me significa perdere la propria vita, smarrire la via. 
«La speranza è quella cosa che ti fa alzare la mattina con una prospettiva diversa dall’essere immersi nella solita routine di cure, lavoro, cure, riposo, cure. C’è stato un periodo della mia vita in cui vivere nella speranza è stata la cosa più difficile che potevo fare, perché non sapevo proprio dove prenderla quella speranza. 
«Ho dovuto lavorare molto su me stessa per riuscire a spremere quel goccio di fiducia per arrivare fino a sera. Si, perché alla fine la speranza è diventata fiducia, è stato un cambiamento lento, dolce, ma radicale e permanente. 
«Fiducia in me, nelle mie capacità, nelle possibilità che mi si stavano dando, ma anche fiducia in chi mi stava accanto, in tutti quelli che lavoravano tanto duramente per me, e fiducia in qualcosa di più grande che, ero sicura, non avrebbe mai smesso di sostenermi.»
«Speranza è qualcosa che ci accompagna tutti, quella luce che guida le nostre azioni e le nostre scelte, il nostro futuro. 
«Noi dobbiamo sperare: che arrivi una nuova cura, nella ricerca che sta facendo passi da gigante in tutte le direzioni, nei nostri compagni, mariti, mogli, figli, genitori, medici, infermieri… che danno tutti sé stessi per noi.»
 
Che ruolo ha il lavoro nella tua vita attuale? Come sei riuscita a conciliarlo con la tua condizione di salute? Hai parlato con riconoscenza dei tuoi datori di lavoro. Quanto conta sentirsi compresi e sostenuti nel proprio ambiente professionale, quando si vive una condizione di fragilità?

«La possibilità di poter lavorare è sempre stata per me un grandissimo privilegio. Non avrei potuto immaginare la mia vita senza una occupazione professionale, perché è sicuramente in primo luogo una gratificazione personale, un modo per mettere a frutto le capacità che ho, ma anche ovviamente un modo di essere indipendente economicamente che per me è molto importante. Ho sempre avuto un buon rapporto con l’ambiente di lavoro in cui sono stata inserita. 
«Tutti gli anni prima del trapianto (tranne gli ultimi due in cui sono dovuta rimanere forzatamente a casa perche la situazione di salute mi impediva di fare qualsiasi cosa) ho lavorato in presenza presso Publitalia, mentre dopo il trapianto sono stata assunta dalla Fondazione Eni Enrico Mattei e i primi anni ho lavorato in presenza. Era un grosso stimolo per me avere un impegno regolare anche se part time, fuori di casa. 
«Mi piaceva tanto il caffè con le colleghe, il mio lavoro, i pranzi insieme alla mia collega di scrivania, quella aria di normalità che mi dava questa routine. Poi è arrivato il rigetto e non sono più stata in grado di uscire di casa, dunque neanche di recarmi a lavoro. 
«Devo ringraziare davvero tanto la mia capa, che ha fatto di tutto per farmi continuare a svolgere il mio lavoro anche da casa, mettendomi a disposizione tutto il necessario per lavorare da casa in smartworking, coinvolgendomi comunque nelle attività aziendali come corsi di formazione attraverso Teams con le mie colleghe, riunioni, progetti. 
«Mi sono sentita davvero appoggiata, soprattutto in un momento difficilissimo per me, il fatto di dover staccare dai miei problemi di salute per quelle cinque ore e di concentrarmi sul lavoro è stato per me una ancora di salvezza nei periodi più difficili. 
«L’avere degli orari sui quali organizzare la mia giornata che non prevedevano per esempio il dormire fino a tardi, o il lasciarsi andare perché c’era comunque un lavoro da svolgere, ha aiutato immensamente. Anche il contatto continuo con le mie colleghe ha fatto si che non mi sentissi abbandonata sempre sola in casa. 
«Credo che non sia facile trovare un posto di lavoro che venga così in contro alle persone disabili con dei problemi come i miei, ma credo che siano questi gli enti e le persone che alla fine fanno la differenza, che aiutano davvero, in modo concreto, il prossimo.
«Io mi auguro con tutto il cuore che tutte le persone fragili, ma non solo, possano trovare sulla loro strada delle persone bendisposte ad aiutarle e a andargli in contro come ho trovato io, perché per me è stato meglio di una medicina.»
 
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Parlaci del libro. Cosa troveranno i lettori tra le sue pagine?

«Speranza. Amore per la vita. Gioia di vivere, forte, quasi accanita. Fatica, infinita. Tristezza. Dolore. Voglia di farcela, a tutti i costi. E una carezza.
«Troveranno la mia vita, dalla nascita, compresa di diagnosi di fibrosi cistica, e il suo srotolamento in tutti i suoi anni e le sue fasi, tutti i mille ricoveri necessari, quelli più leggeri, quelli più difficili e pesanti, ma anche tutte le volte in cui sono riuscita a portare avanti i miei programmi, viaggi, studi, esami, laurea, le prime esperienze in amore, la mia grande passione per il tango, l’andare a vivere da sola. 
«Ho sempre cercato di vivere nel modo più normale possibile, dove normale non è niente di diverso da quello che il mio cuore sentiva di volere in quel momento. Credo fortemente in una cosa chiamata creatività, che applicata alla vita funziona come una bacchetta magica, ti fa trovare la strada per fare quello che vuoi, anche con mille impedimenti davanti. Ci vuole una buona visione periferica e un tocco di follia, ma funziona praticamente sempre e dà grandissime soddisfazioni.
«Non voglio svelarvi il finale, ma mi sa che avete intuito ormai che il trapianto l’ho fatto e l’operazione è riuscita bene, dunque vi dirò che la storia dura fino alla messa in lista per il trapianto e allo svolgimento dell’operazione. Finisce con un sospiro, di sollievo, di stupore, a pieni polmoni, nuovi. Il primo respiro di una nuova vita. 
«Ma c’è anche un’altra vita che si inserisce, prepotente, delicata, quella di un amico speciale che sarà sempre al mio fianco durante tutto questo percorso faticoso, meraviglioso ed entusiasmante, che è quella del mio cane. 
«Si chiama Breath, perché non poteva chiamarsi in nessun altro modo! Ed è un golden retriever che ho dovuto cedere ad un certo punto della mia vita, quando la malattia non mi ha più permesso di potermene occupare in prima persona, ad una famiglia di Torino, con la quale è rimasto per 4 anni, il tempo che io fossi di nuovo in grado di riprenderlo. 
«Quando gliel’ho consegnato, non avevo la certezza che lo avrei rivisto, né come sarebbe andato l’intervento, se ci sarei arrivata e in che condizioni mi sarei trovata dopo. Era un salto nel buio, con la speranza di rivedersi, ma senza alcuna certezza. Così scrivo questo libro sotto forma di una lunghissima lettera d’amore per lui. 
«Come si usava un tempo, tra la fidanzata rimasta a casa e il ragazzo al fronte, senza sapere cosa ne sarebbe stato del loro futuro, sapendo solo capire il momento presente, e neanche tanto bene in fondo. Così, per spiegargli perché lo sto lasciando andare via, per chiarire che non è perché non lo voglio più, ma che anzi lo sto facendo come gesto d’amore per lui, per dargli una vita piena e normale, gli inizio a narrare la mia storia. La nostra storia.»
 
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Come è nato il desiderio di scrivere questo libro? È stato un percorso terapeutico anche per te, in qualche modo? Quanto tempo ti è servito per mettere nero su bianco la tua storia? Hai trovato difficile rivivere certi momenti mentre scrivevi?

«Diciamo che io ho sempre avuto l’impulso di scrivere, fin da piccola, mi ricordo che sono stata una delle mie prime amichette ad aver aperto un blog, su cui scrivevo accanitamente tutto quello che mi succedeva. È sempre stato un modo di esorcizzare quello che mi accadeva e che restava come una nuvoletta viola sopra di me finché non gli davo le parole per esprimersi. 
«Saper nominare un concetto, una emozione, un fatto che è accaduto, è come svuotarlo del potere che ha su di te, e riuscire a mettere una distanza tra te e lui. Poterlo prendere in mano, girarlo, guardarlo, osservarlo da una certa distanza, in questo modo fa meno male. 
«A forza di prendere appunti, questi appunti sono diventati dei racconti interi, e ad un certo punto mi è venuto l’impulso di vedere se si riuscivano a legare, questi racconti, completare i buchi che lasciavano tra loro, riempire di qui, rimpolpare di qua, e piano piano è nato un qualcosa che poteva assomigliare ad una storia unitaria. 
«Che poi ho smontato pezzo per pezzo e rimesso insieme parecchie volte, non senza scoraggiamento ogni volta che non la vedevo funzionare, o magari con grande esaltazione quando trovavo due pezzi che combaciavano perfettamente. È stato un lunghissimo cammino durato anni, che poi ha preso una forte accelerata negli ultimi mesi prima dell’invio agli editori, quando poi mi sono convinta a tentare la pubblicazione davvero.
«Sicuramente è stato terapeutico, direi quasi più catartico, e sicuramente ci sono stati degli eventi che non sono stati facili da rivivere, perché poi per forza mentre scrivi ti tornano fuori tutte le emozioni di quei momenti e non puoi ignorarli. Però, se sei abbastanza brava, puoi approfittarne per rielaborarli invece di farti sommergere, e allora inizia tutto un lungo lavoro su di te, sulle tue paure, sulle tue incertezze, le tue nostalgie. È un conoscersi sempre più profondo, processo faticoso, ma appagante sicuramente.»
 
Hai scelto un titolo molto evocativo: «Aspettando l’arrivo del vento». Cosa rappresenta per te questo «vento»?

«Il vento per me è sinonimo di cambiamento, che può essere delle cose del mondo circostante, ma anche nel senso di evoluzione, crescita, maturazione.
«Ma in questo libro è anche il simbolo del respiro nuovo che stavo aspettando da tutta la vita. Quel respiro che non ha fine, non ha fondo, quel primo respiro che ho fatto appena estubata ancora piena di cateteri e tubicini nel reparto di rianimazione dove mi sono svegliata. 
«Quando l’infermiera mi ha stretto forte la mano e guardandomi negli occhi mi ha detto Martina ora DEVI respirare da sola e io non pensavo di poterlo fare e invece ho iniziato timidamente ad inspirare e mi aspettavo la tosse, i rumori del catarro nei polmoni, lo stop dettato dalla minima capienza dei miei polmoncini di prima, e invece continuavo ad inspirare aria e sembrava non finire più. 
«L’aria entrava, i polmoni si espandevano, le mie costole seguivano i movimenti del torace e si aprivano lasciando entrare tanta di quell’aria che aveva un profumo tutto nuovo, una consistenza tutta nuova. Ero allibita. Respiravo, da sola. Infinitamente. In quel momento era come se avessi respirato il mondo intero.
«Il vento è questo. È la speranza che non si spegne mai, è quella parte di te che non si stanca mai di affacciarsi alla finestra a guardare le stelle perché crede ancora alla magia, è quello che da sempre aspetti e alla fine arriva. 
«Ma l’attesa ti rende diversa, ti fa crescere, ti prepara a quel momento in cui otterrai quello che hai agognato, e non sarai mai comunque pronta a tanto.»

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A chi è rivolto questo libro? Chi speri possa leggerlo e trarne forza o comprensione?

«Questo libro è rivolto alle persone con la fibrosi cistica, perché non si sentano mai sole ad affrontare le sfide che la vita ci offre in continuazione. È rivolto ai care givers che sono la nostra più importante risorsa, perché capiscano il ruolo fondamentale che hanno. 
«A tutti coloro che hanno delle difficoltà, che sia una malattia, un periodo difficile della loro vita, non importa che sia di salute, perché la sofferenza non ha forma materiale, perché capiscano che c’è sempre speranza, che si può sempre trovare un sorriso, anche nei momenti più bui, se da questo dipende la tua vita. 
«Ed è rivolto a tutti coloro che credono nella speranza, nell’amore condiviso come unica risposta alle situazioni più folli che possiamo trovarci a vivere.
«E agli amanti degli animali. Perché le loro anime si intrecciano alle nostre e diventiamo un tutt’uno che si sente a distanza di chilometri, generando un’esperienza inimmaginabile se non si prova.»
 
Qual è il messaggio più importante che desideri lasciare a chi ti legge?

«Vorrei poter trasmettere ad ognuno di coloro che leggerà il mio libro, il profondo senso di appartenenza e attaccamento alla vita che provo ogni giorno, la gioia delle piccole cose, la profonda fiducia che mi pervade e mi porta a superare anche cose che pensavo per me invalicabili, a sopportare più di quanto pensassi possibile per poter averne ancora un altro po’ di questa vita. 
«Con questo non voglio dire che io non mi scoraggio mai, che sono sempre positiva e ottimista, sarebbe impossibile, ma che ogni tempesta la si lascia passare, non ci si attacca alla furia della pioggia, ma se si riesce la si accoglie e si attende che passi, per poi riprendere il proprio cammino più forti e determinati. In questo ho fiducia e tanta speranza!»
 
In ogni parola di Martina c’è la forza di chi ha scelto la vita, anche nella fragilità. Il suo libro è un lascito d’amore che ci insegna a non smettere mai di sperare.

Nadia Clementi- [email protected]
 
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