La tenerezza – Di Giuseppe Maiolo, psicoanalista

È un movimento interiore, complesso, articolato, che si manifesta come moto dell’anima che oltrepassa il pensiero ragionato

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La parola tenerezza è di per sé evocativa, ma non indica mollezza di carattere e nemmeno fragilità.
Definisce un comportamento con poca resistenza alla pressione, ma è un sentire forte ed energico benché disarmato, privo di aggressività e violenza. Un fare piuttosto non belligerante e guerriero.
Non è dunque debolezza o inconsistenza del carattere, quanto forza che rende capaci di adattamento e di resistenza.
Energia con cui tenere botta e, se riferita ai sentimenti umani, si tratta di un movimento interiore, complesso, articolato, che si manifesta come moto dell’anima che oltrepassa il pensiero ragionato.
 
Non a caso l’etimologia latina contiene il significato di «andare oltre» che è quello di non farsi bloccare da impedimenti, da gesti sbagliati e da sgarbi faticosi da accettare oppure da sentimenti di rancore. Quel non fermarsi è forza, determinazione utile per accettare le cose che cambiano e ci cambiano. La tenerezza non è di genere femminile come si pensa, ma affettività e, come diceva Dostoevskij, «forza dell’amore umile». Sentimento robusto dunque, non debole, con cui uscire dall’egocentrismo e dal narcisismo imperante per dedicarci all’altro e al Noi.
 
La tenerezza così regola tutte le relazioni ed è solo in apparenza un sentimento infantile ed esclusivo della relazione con i bambini. Al contrario muove e dà fisionomia a rapporti maturi, forse rivoluzionari, verso i quali Papa Francesco esortava a «non avere paura».
Con la tenerezza sentiamo gli altri e percepiamo quello che provano dentro e come vivono. È, se vogliamo, connessione empatica di alto livello che ci fa cogliere le attese e le speranze, le gioie e i dolori, le lacrime e i sorrisi di chi ci sta accanto. È sguardo scarno di parole, fatto di attenzione e ascolto partecipato, carezza e abbraccio.
 
C’è chi la definisce un’emozione a bassa intensità nel senso che, se non la temiamo, la sentiamo facile e possibile con il mondo infantile e quello animale, con i bambini e con gli anziani. Ma quando è disposizione e dedizione autentica, c’è ovunque nei rapporti quotidiani ed esprime vicinanza e intimità.
Bisogna solo praticarla, cioè viverla ed esprimerla con gesti e manifestazioni che rendono conto de nostro «esserci» con l’altro da noi, senza attese utilitaristiche e senza scambio.
 
In questo senso la tenerezza è sinonimo di cura, come accudimento, accompagnamento e partecipazione affettiva a chi necessita della nostra presenza, al bambino che cresce o al giovane che si allontana, all’anziano che soffre e a chi si confonde o si perde, a chi soffre e viene travolto dal dolore o dalla fatica del vivere.
La tenerezza non può essere che prossimità, vicinanza, con-tatto.

Dice Eugenio Borgna nel suo saggio «Tenerezza» (Einaudi) «Non c’è cura dell’anima e del corpo se non accompagnata dalla tenerezza che è necessaria a farci incontrare gli uni con gli altri, nell’attenzione e nell’ascolto, nel silenzio e nella solidarietà».
 
Giuseppe Maiolo - Psicoanalista
Università di Trento