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La postura internazionale dell’Iran nell’era Rouhani/ 2

Un dossier aperto in occasione della visita del presidente iraniano in Italia – Seconda parte. Di Gabriele Iacovino e Francesca Manenti

 Il pragmatismo del Governo Rouhani 
Il 14 giugno 2013 l’elezione di Hassan Rouhani alla Presidenza della Repubblica Islamica ha posto termine a quasi un decennio di governo conservatore. Presentatosi inaspettatamente alla corsa elettorale, Rouhani è stato appoggiato sia dalle forze moderate dell’ex Presidente Ali Akbar Hashemi Rafsanjani sia dai riformisti di Mohammad Khatami, diventando di fatto il candidato di punta delle formazioni «centriste».
Nonostante la scarsa notorietà tra la popolazione nelle settimane immediatamente precedenti alle votazioni, Rouhani ha in realtà alle spalle una lunga carriera politica che affonda le proprie radici nei primi passi della Rivoluzione Islamica e negli anni della guerra contro l’Iraq.
In particolare, durante la sua consolidata esperienza tra le alte gerarchie politiche ed ecclesiastiche, il nuovo Presidente ha sempre avuto una particolare attenzione verso materie di delicato interesse, quali la sicurezza nazionale: è stato Segretario Generale del Consiglio Supremo di Sicurezza Nazionale (SNSC), organo competente per la formulazione delle politiche in materia, consigliere per la sicurezza nazionale dei Presidenti Rafsanjani e Khatami, nonché capo negoziatore nell’ambito dei colloqui sul programma nucleare di Teheran nel biennio 2003-2005, fino alle sue dimissioni per forti divergenze con l’allora neo Presidente Mahmud Ahmadinejad.
 
Benché, dunque, Rouhani sia ben lungi dal poter essere definito homo novus del mondo istituzionale iraniano, la sua vittoria, al primo turno e di larga misura sui candidati conservatori in corsa alla presidenza, ha dato un forte segnale della voglia di cambiamento diffusa in modo trasversale tra la popolazione.
L’elezione del nuovo Presidente, infatti, è stata comunque salutata all’interno del Paese come un possibile momento di svolta per la politica di Teheran, dopo che otto anni di governo conservatore avevano gettato l’Iran in una crisi economica, amministrativa e diplomatica senza precedenti.
Se, da un lato, la forte disaffezione nei confronti della precedente Amministrazione Ahmadinejad ha fatto convergere un consenso senza precedenti sulle forze moderate, dall’altro, la vittoria di Rouhani non ha aperto le porte ad una nuova generazione di giovani politici, ma, al contrario, ha riportato al potere la vecchia guardia, legata e protagonista della Rivoluzione khomeinista.
Del resto, lo stesso sistema elettorale, che prevede una severa selezione dei nomi ammissibili esercitata dal Consiglio dei Guardiani prima delle elezioni, ha inevitabilmente determinato la mancanza di un candidato totalmente estraneo ai tradizionali ambienti istituzionali.
 
La voglia di rinnovamento fortemente ricercata all’interno del Paese, dunque, si è di fatto inserita nel lungo e tradizionale percorso tracciato dalla storia iraniana negli ultimi quarant’anni.
In questo contesto, il vero fattore di novità e potenziale di cambiamento nella figura del Presidente non è da ricercarsi tanto in uno spirito rivoluzionario rispetto al sistema istituzionale e valoriale attualmente vigente, quanto in un atteggiamento fortemente pragmatico e orientato al perseguimento degli interessi nazionali dell’intero sistema Paese.
La politica fortemente repressiva adottata dal precedente governo Ahmadinejad era stata motivata sostanzialmente dal tentativo della classe dirigente di tutelare i privilegi acquisiti in tre decenni dall’establishment tradizionalista, anche a discapito del benessere dello Stato. Sia la dura repressione delle manifestazioni popolari scoppiate in seguito alle elezioni presidenziali del 2009 sia l’irrigidimento della retorica antagonistica nei confronti dell’Occidente, infatti, sono state scelte compiute dall’allora Amministrazione non per un’avversione tout court all’ideologia riformista o per la paura che un contatto con l’esterno potesse minare la solidità dei valori della Rivoluzione, quanto per il timore che anche minime concessioni in entrambe le direzioni avrebbero compromesso il potere dei conservatori.
Al contrario, il pragmatismo dell’attuale Presidente, e del suo governo, sembra prediligere l’identificazione di una serie di obiettivi strategici per cercare di rafforzare e restituire prestigio all’Iran in quanto Stato.
 
Questa netta rottura rispetto al governo passato si declina sostanzialmente in due agende politiche promosse da Rouhani, fin dalle prime battute della campagna elettorale, e portate avanti dal suo esecutivo.
In primis, il risanamento dell’economia. Con un’inflazione quasi al 40%, un tasso di disoccupazione attestato al 10% e un deciso calo delle entrata statali a causa dell’inasprimento delle sanzioni internazionali, negli ultimi dieci anni il Paese ha conosciuto una grave recessione che ha inevitabilmente influito sul benessere e sulle condizioni di vita della popolazione.
In secondo luogo, il rilancio dei rapporti internazionali di Teheran, che la retorica aggressiva e le politiche sclerotiche di Ahmadinejad avevano ridotto ai minimi termini, è fondamentale per porre termine alla pluriennale marginalizzazione del Paese. Benché apparentemente distinti, nell’agenda di Rouhani i due dossier sono tra loro fortemente interrelati.
La causa principale dell’inefficienza del sistema economico iraniano, infatti, è da ricercarsi nel lungo periodo di isolamento internazionale a cui l’Iran è stato sottoposto dal ’79.
L’esclusione del Paese da qualsiasi forma di scambio con l’esterno, di fatto, ha generato un sistema fortemente rigido, in cui i principali interessi politici ed economici nazionali sono stati accentrati nelle mani di pochi centri di potere, espressione per lo più dell’establishment religioso e militare, che ha esteso così la propria influenza in modo trasversale nella gestione dello Stato.
 
Questa commistione tra potere politico e interesse economico ha creato un fitto tessuto di corruzione e di sperequazione, nonché un’inevitabile dispersione di risorse, che hanno gravato sulle già precarie condizioni economiche dello Stato.
Un esempio su tutti, quello delle Guardie Rivoluzionarie (Iranian Revoutionary Guard Corps – IRCG, in farsi, Pasdaran), l’influente Corpo militare che risponde direttamente alla Guida Suprema: fondate per difendere la Repubblica Islamica, le Guardie Rivoluzionarie sono progressivamente diventate uno dei principali attori economici del Paese, con interessi radicati, in particolare, nel settore dell’edilizia e dell’ingegneria civile.
Questa tendenza, iniziata al termine della guerra Iran-Iraq sull’onda lunga del processo di ricostruzione, si è cristallizzata durante la Presidenza Ahmadinejad. Arruolatosi tra le fila dei Pasdaran nella metà degli Anni ’80, l’ex Presidente non solo ha sempre mantenuto stretti contatti, ma è stato soprattutto uno dei principali facilitatori del rafforzamento politico del Corpo militare, tanto che ben 18 dei 21 ministri facenti parte del Gabinetto durante il primo mandato avevano militato tra le fila delle IRGC.
Durante i due anni di mandato di Ahmadinejad, verosimilmente tra il 2005 e il 2011, i colossi economici legati alle Guardie Rivoluzionarie hanno gestito progetti per un valore complessivo di circa 25 miliardi di dollari.
Tale interconnessione tra establishment politico/militare e interessi economici ha sempre reso difficile l’attuazione da parte del governo di riforme che, seppur positive per le finanze pubbliche, avrebbero potuto compromettere la tenuta di questi equilibri di potere.
Nonostante l’attuale governo abbia formulato dal suo insediamento ben due manovre finanziarie per cercare di stimolare la fuoriuscita dalla stagnazione economica, infatti, le inefficienze endemiche ad un sistema così rigido e la forte opposizione da parte di alcuni ambienti a qualsiasi prospettiva di cambiamento non hanno fino ad ora permesso di conseguire alcun risultato concreto.
 
L’implementazione di un piano strutturato per il miglioramento delle condizioni economiche, infatti, consentirebbe a Rouhani di incrementare il consenso della popolazione nei confronti delle forze moderate, che sarebbero viste come le principali fautrici del risollevamento dei penosi standard di vita attuali. Tale soddisfazione potrebbe rappresentare un importante capitale elettorale per le forze centriste, tale da consentire loro di erodere il potere e l’influenza delle formazioni più tradizionaliste all’interno delle istituzioni.
In questo contesto, il sempre maggior interesse con cui il Presidente Rouhani sta guardando all’apertura del Paese verso l’esterno sembra rispondere alla volontà di trovare in nuovi rapporti internazionali un supporto politico ed economico con cui riuscire a riformare quell’immobilismo che ha caratterizzato il sistema iraniano per oltre tre decenni.
Tale supporto potrebbe derivare, da un lato, dalla ripresa dei flussi di investimenti esteri all’interno del Paese, che incentiverebbe la creazione di nuove attività, con ripercussioni sul mercato del lavoro interno e dunque sul tasso di disoccupazione, e stimolerebbe la ripresa di un’economia ormai quasi atrofizzata.
D’altro canto, un significativo aiuto per consentire alle casse dello Stato di tirare un sospiro di sollievo deriverebbe dall’alleggerimento del regime sanzionatorio a cui il Paese è sottoposto ormai da diversi anni.
Per poter ottenere un simile risultato, dunque, l’attuale governo ha inevitabilmente dovuto cercare di impostare un dialogo più costruttivo e strutturato con quegli interlocutori internazionali fino ad ora visti come una minaccia per la salvaguardia della Repubblica Islamica.
 
Tuttavia, la consapevolezza di non poter alterare radicalmente i delicati equilibri interni per scongiurare una netta presa di posizione da parte dei poteri tradizionalisti ha spinto Rouhani a formulare un progetto di politica estera estremamente razionale, che coinvolgesse anche quei reparti delle Guardie Rivoluzionarie da sempre impegnate nelle operazioni all’estero e che hanno sempre rappresentato un importante strumento di influenza a disposizione dell’establishment militare.
In questo contesto, il governo Rouhani ha focalizzato la propria attività nel rafforzamento dei rapporti politici e diplomatici, allo scopo di trasformare l’Iran da Stato paria ad interlocutore della Comunità internazionale in Medio Oriente. Al contrario, a fronte del progressivo deterioramento delle condizioni di sicurezza nella regione e dell’avanzata dello Stato Islamico nei vicini Iraq e Siria, l’esecutivo ha fatto un chiaro passo indietro, affidando entrambi i dossier alla gestione dei Pasdaran. 
 
Ce.S.I.
(Continua)
(Prima parte)

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