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Storie di donne, letteratura di genere/ 234 – Di Luciana Grillo

Maria Rosa Cutrufelli: «Scrivere con l’inchiostro bianco» – L’autrice indaga, argomenta, spiega e completa ogni capitolo con interessanti «Note minime»

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Titolo: Scrivere con l'inchiostro bianco
Autrice: Maria Rosa Cutrufelli
 
Editore: Iacobelli Editore 2018
Collana: I leggendari
 
Pagine: 162, Brossura
Prezzo di copertina: € 13
 
Questo piccolo libro è come un ventaglio: lo si legge e ogni capitolo diventa una sorpresa, una scoperta di altri mondi.
In sostanza Cutrufelli parla di sé, racconta i miti, ritorna poi alla sua storia con sobrietà ed eleganza, adattando il registro linguistico ai temi che tratta, per concludere con i temi a lei cari relativi al mondo delle donne.
 
È una prosa vibrante quella che descrive gli anni dell’università, quelli della contestazione studentesca, «giorni convulsi, vissuti senza un attimo di tregua», quelli in cui compare «nientemeno che l’Ernesto Che Guevara»; è una prosa descrittiva quella con cui l’autrice affronta la narratologia, dove «il testo è diventato un corpo da sezionare con cura…»; è problematica la prosa di chi si interroga sul perché si scrive: «Si scrive, ammette Margaret Atwood, con la consueta ironia, per compiacere se stessi… per esprimere se stessi… per soddisfare il nostro desiderio di vendetta… per fare soldi… perché non si sopportava l’idea di un lavoro… per far fronte a una depressione…»; è provocatoria la prosa di Cutrufelli quando si chiede se «esiste una scrittura femminile, diversa se non contrapposta a quella maschile» e quando sostiene che «la parola delle donne è spesso così difficile, non perché le donne siano inadeguate al linguaggio, ma perché è il linguaggio inadeguato alle donne».
 
Secondo capitolo, «Qualcosa di antico»: compare il mito e si comincia con una madre e una figlia, Demetra, che «alla fine si piegò al volere di Zeus» e Persefone «dalle agili caviglie. Figlia di Zeus e moglie di Ade. Regina delle ombre mute»; si prosegue con Antigone, figlia di Edipo, che Sofocle «ha trasformato in quella fiamma di compassione che, attraverso i millenni, si è alzata fino a toccare anche noi…», esempio di «figlia piegata dall’amore. Un amore senza contropartita. Un amore femminile, che vive nel silenzio e nel sacrificio»; ci si sposta nella prima metà del ’500 tra Padova e Venezia, dove Gaspara Stampa «in poesia, non tratteneva lo slancio… Non c’è dubbio, sarebbe stato molto più opportuno se avesse cantato il pudore, come facevano le altre, invece del piacere».
 
Cutrufelli non manca di sottolineare la condizione femminile e ricorda che «alle donne era vietato comporre, chissà perché».
In «Qualcosa di mio» l’autrice ripercorre la sua vita, dalla nascita in Sicilia - «l’isola del padre» - ai viaggi a Firenze - «la città della madre»: «un’altalena di luoghi, di case, di persone. Sentimenti che oscillavano al ritmo alterno della curiosità e non avevano il tempo di radicarsi, di diventare passione esclusiva» e a Bologna.
Il viaggiare non le impedisce di sentirsi una donna del sud, «ma non tutti i sud sono uguali… E ogni migrante si porta dietro un sud personale, assieme alla sua propria storia e alle sue proprie aspirazioni».
 
La scrittura diventa per l’autrice «quasi un sollievo fisico… Era come se qualcuno mi ammonisse sottovoce e mi avvertisse che quel gesto, in apparenza così semplice, in realtà nascondeva un rischio, per quanto ancora confuso, lontano… Dare vita alle parole scritte, trasformarle in un «mondo», bisbigliava quella voce, era un peccato d’orgoglio…».
Cutrufelli cita Francesca Sanvitale, secondo cui «senza il coraggio della libertà non c’è scrittura…», secondo cui è necessario allontanarsi dalla famiglia di partenza per vedere finalmente libere da quell’obbedienza secolare che è quasi istintiva nell’animo femminile, «affrancarsi dalla soggezione della mente per illuminare il proprio mondo poetico, renderlo intellegibile, una buona volta, e dargli vita».
 
C’è però chi non riesce in questo scopo, come Aicha Bouabaci: «da bambina mi scoprii prigioniera del mio silenzio… un silenzio tramandato di madre in figlia come un imperativo».
Cutrufelli riporta altre osservazioni, ad esempio cita Sibilla Aleramo: «io non mi esprimo, non mi traduco neppure: rifletto la vostra rappresentazione del mondo…», scriveva rivolgendosi agli uomini.
E, parlando del memoir, considera questa narrativa del ricordo «un’esplorazione dentro l’ambiguo archivio dei nostri ricordi».
Quanto alle parole, «non sono garanzia di nulla. Non consolano. Non guidano verso la verità. Anzi».
 
In Sesso, razza, l’autrice analizza i casi di artisti di colore che assai raramente sono stati apprezzati e accolti nei musei e quindi racconta una sorta di apartheid culturale, di segregazione che «è infatti pratica corrente anche in letteratura. E tocca molto da vicino le donne, nere o bianche che siano… Certo è che la letteratura – e tutta l’arte in genere – non è affatto un’attività così libera come si vorrebbe: quanto conta il talento e quanto contano le barriere culturali, le aspettative sociali, i codici introiettati fino all’autocensura?».
 
Cutrufelli indaga, argomenta, spiega, approfondisce e completa ogni capitolo con interessanti Note minime che possono aiutare lettrice e lettore ad andare oltre, a capire fino in fondo il mondo delle donne, a cui l’autrice dedica da tempo grande attenzione.
In questa rubrica ho recensito il suo romanzo «Il giudice delle donne» (vedi), nel saggio «Costruire letteratura con mani di donna» ho citato un altro romanzo, «Complice il dubbio» in cui un suicidio-omicidio metteva in evidenza rapporti complessi tra madre e figlia e creava una solida complicità fra due giovani donne.
 
Luciana Grillo – l.grillo@ladigetto.it
(Recensioni precedenti)

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