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Storie di donne, letteratura di genere/ 281 – Di Luciana Grillo

Irmgard Keun, «Una bambina da non frequentare» – Questo romanzo, pubblicato ad Amsterdam nel 1936, tradotto soltanto ora in italiano, è tenero e fresco

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Titolo: Una bambina da non frequentare
Autrice: Irmgard Keun
 
Traduttori: Eleonora Tomassini, Eusebio Trabucchi
Editore: L'orma 2018
 
Pagine: 180, Brossura
Prezzo di copertina: € 16
 
L’autrice, tedesca, compagna di Joseph Roth e attenta alla condizione femminile, scomparsa nel 1982, ha subito censure naziste per i suoi romanzi ed è stata costretta all’esilio.
La sua è una voce critica e autentica che mette in evidenza le contraddizioni della società europea.
In questo romanzo, la protagonista è una ragazzina vivace, una sorta di Gianburrasca, che coglie le inutili cattiverie, i pettegolezzi, le meschinità, le bugie degli adulti e trova conforto e complicità oltre che nei suoi coetanei compagni di giochi, nell’anziano vicino di casa, il signor Kleinerz, a cui confida i suoi problemi e chiede qualche consiglio.
 
La piccola peste vive a Colonia, negli ultimi anni della prima guerra mondiale: «Quando la guerra sarà finita non ci sarà più bisogno di stare così tanto in coda di fronte allo sportello di approvvigionamento cittadino per quella schifezza di marmellata… quando siamo stati a Dimmelskirchen abbiamo anche rimediato del miele, vero miele fatto dalle api…mio padre gli ha offerto del petrolio…e lui ci ha dato delle uova».
Racconta con incredibile ironia le sue bravate, il rapporto con le maestre, con i genitori, con l’antipatica zia Millie, gli atteggiamenti critici delle compagne di scuola e delle loro mamme: «Durante la ricreazione nemmeno un bambino è venuto a parlarmi… Io dovevo starmene seduta in un angolo a guardare gli altri bambini disposti in fila per due a esercitarsi per il corteo del pomeriggio…».
 
Con i maschietti il rapporto è più semplice, perché la nostra protagonista ama i giochi rischiosi, tanto da calarsi in gola un lombrico o battersi con un denutrito orso di un circo, o nascondersi in case in costruzioni o anfratti. Ma, ad ogni avventura, seguivano sempre castighi e ceffoni.
Le descrizioni degli adulti sono spesso impietose: ci sono la signora Meiser, detta “palla velenosa”, che «ha spiattellato tutto ai nostri genitori», «il perfido guardiano dello Stadtwald… noi lo chiamiamo “la carogna marcia del bosco”», «quella cicciona disgustosa di Traut con i boccoli scompigliati: noi la chiamiamo “la lombrica” per quanto è pallida e molliccia».
 
Tra una marachella e un’altra, la nostra bambina cresce, scrive all’imperatore, si tinge le unghie di rosso sputando sul dizionario di francese la cui copertina rossa stingeva, riflette su un inutile salvadanaio che i genitori «scuotono accanto all’orecchio per farmi sentire come suona bene e quanti soldi ci sono dentro. Secondo loro questo dovrebbe spronarmi a diventare una brava bambina con una bella pagella. E pure a imparare il valore del denaro. Ovviamente non sarà un salvadanaio a farmi diventare buona», dipinge un esilarante ritratto della mamma («sostiene che mio padre ha la tendenza a perdere le staffe») e del papà che «è diventato tutto rosso in viso, quasi viola, e la sua voce ha rimbombato per la stanza…ha sbattuto i pugni sul tavolo urlando di essere l’uomo più tranquillo del mondo».
 
Alla fine della guerra, «certi giorni papà ha un viso grigio grigio, e pare abbia le ragnatele intorno agli occhi» e incalzano problemi economici.
I mobili vengono pignorati, ma pur comprendendo la gravità della situazione, la nostra protagonista scopre un aspetto positivo: «Sono contenta se si prendono la credenza grande, perché così avrò spazio per giocare con la trottola in salotto. E quando scomparirà anche il pianoforte non dovrò più rompermi le dita con quegli stupidi esercizi che odio da matti».
In realtà, in questa bambina terribile un po’ mi riconosco, anche io ero un maschiaccio e odiavo il pianoforte!
 
Infine, la Gianburrasca arrivata ai tredici anni, («e quindi è un’idiozia, oltre che illegale, continuare a trattarmi come una bambina») si innamora: «l’amore vuol dire tenere qualcuno stretto tra le proprie braccia… per lui vorrei pure morire e fare grandi sacrifici, ma più di tutto mi piacerebbe salvarlo. Che bello sarebbe se potessi tirarlo fuori da una casa in fiamme!», e anche in questo caso ci spiazza con la sua ironia: «A Natale devo sempre baciare tutti i parenti e sorbirmi i loro, di baci. Così finisce che mi si bagna tutto il viso da far schifo e devo schizzare via dalla stanza per sciacquarmi. Gli altri pensano che mi sono commossa…»
 
Questo romanzo, pubblicato ad Amsterdam nel 1936, tradotto soltanto ora in italiano, è tenero e fresco.
Molto merito credo vada anche ai traduttori che lo hanno reso agile e scorrevole.
 
Luciana Grillo – l.grillo@ladigetto.it
(Recensioni precedenti)

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