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La «mia» Via de la Plata (5ª puntata) – Di Elena Casagrande

Lasciamo Cáceres ed entriamo nel deserto extremeño diretti a Cáparra. A Galisteo e Carcaboso siamo accolti da Don Pedro e dalla Señora Elena

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Il cammino dopo Casar de Cáceres.
(Puntate precedenti)
 
L’uscita da Cáceres è un po’ come lasciare la civiltà. Dopo aver raggiunto Casar de Cáceres, patria della «torta del casar», formaggio di latte di pecora dop, che Enry ed io comperiamo per la cena, si va verso quello che è definito il «deserto extremeño».
È uno spettacolo. Una strada bianca che si addentra tra questi pascoli color senape, dove troneggiano, ai lati, i dientes de lobos (delle enormi pietre chiamate «denti di lupo»), i miliari romani - accatastati come guerrieri caduti in battaglia - e le tettoie di lamiera per far ombra ai maiali.
In inverno o in primavera i prati sono verdi, la temperatura mite e non serve portare nello zaino 3 o 4 litri di acqua.
Noi troviamo un po’ d’ombra solo dopo ore di marcia, sotto un isolato eucalipto, vicino ad un ovile, dove si sta riposando un gregge.
Dormiamo un po’. Quel che resta dell’acqua che abbiamo nello zaino, pur coperto dal pile, è già molto caldo e agli sgoccioli.
 

Miliari romani nel deserto extremeño.
 
 La notte di San Lorenzo la passiamo sul tetto dell’albergue sul Tago   
Scendiamo con un buon passo verso il fiume Tago ed il suo bacino, quasi in secca. Lì ci aspetta il rifugio per la notte.
Prima di arrivarci Paolo si cala verso quella che sembra una stazioncina ferroviaria western del fondovalle, per andare a cercare dell’acqua.
Enrico ed io l’aspettiamo a bordo strada, sotto uno sperone di roccia che ci fa un po’ d’ombra: niente acqua dalla stazione.
Quando arriviamo, il rifugio «avveniristico» di Alcántara è aperto, ma non c’è l’hospitalero, che avvisiamo per telefono della nostra presenza.
Verrà più tardi con l’acqua da bere: quella dell’albergo è di cisterna e non è sicura. Possiamo farci la doccia, c’è la macchina che fabbrica il ghiaccio… ma non si deve bere: una situazione surreale.
Finalmente, finito di lavorare, il gestore arriva con sei bottiglie per la cena e l’indomani! Enry ed io ci mangiamo il formaggio, qualche oliva, un po’ di pane e delle scatolette di polpo, sgombro e cozze al sugo comperate la mattina.
È la notte di San Lorenzo. Dal tetto piatto dell’albergo il cielo nero, le stelle ed il bacino del Tago incorniciano un paesaggio lunare.
Sono «gasata» perché sembra che domattina, a Cañaveral, ci sia la churreria: me lo dice Diego, un pellegrino di Pesaro, incontrato al rifugio.


Il bacino del Tago.
 
 A Galisteo ci aspetta Don Pedro, l'hospitalero più anziano della Plata  
L’indomani la churreria è aperta. Le signore del posto, grosse matrone vestite di nero, arrivano con dei tricicli elettrici e fanno colazione con vassoi pieni di frittelle e cioccolata calda.
Io mi limito a due succhi di frutta: fa già molto caldo! Nel frattempo Paolo, all’ufficio postale, spedisce a Santiago le poche cose superflue che ha nello zaino, per «alleggerire» la marcia.
Si prosegue poi per Grimaldo e poi per Galisteo, un bellissimo borgo circondato da mura e con un suggestivo ponte medievale.
Ci ristoriamo lungo un canale irriguo. Enrico vi si immerge dal bordo, aggrappandosi ad un ramo di ginestre, io ci metto i piedi.
Dopo questa pausa, seguendo un lungo rettilineo, finalmente arriviamo in paese, seguendo la calzada romana.
All’hostal Los Emigrantes, dove nel frattempo è arrivata anche Luigina, che ci ha raggiunto in bus, mi bevo una Coca Cola ed un’acqua tonica, accompagnate da una bella fetta di tarta de queso (una sorta di cheesecake).
Decidiamo di dormire lì, ma solo dopo aver avvisato il sig. Don Pedro Serrano (ultraottantenne addetto all’accoglienza dei pellegrini), di non volere dormire all’albergo comunale.
È contento solo quando ci vede tutti e ci timbra le credenziali: ha svolto il suo compito!
 

A Galisteo con Don Pedro.
 
 La Señora Elena ci indica la strada: c'è un trivio, non dobbiamo sbagliare  
Il mattino seguente si riparte presto. Alle 10 siamo a Carcaboso, da Doña Elena Carrascal, un’altra figura mitica di questo cammino, che, purtroppo, ci ha lasciato nel 2019.
Al suo bar «Via de la Plata», ci offre la colazione a base di fette di bizcocho (ovverosia di ciambella) e caffellatte. Ci spiega il cammino, mima i passi, fuori dalla porta, per indicarci la strada che dobbiamo prendere per arrivare all’Arco di Cáparra senza perderci.
C’è un trivio e non dobbiamo sbagliare. Lei conosce quei posti da sempre, da quando, bambina, accompagnava le pecore nella dehesa. Si vede che vuole bene ai pellegrini che passano da Carcaboso, si sente che ci sta volendo bene.
Ora c’è anche un altro bar in paese. È alla moda ed invitante, ma non c’è il clima del suo bar-albergue, con gli scatoloni accatastati con la merce più varia, i giornali e le uova sode che regalava ai pellegrini e con le stanze del suo rifugio, dotate di frigoriferi, tappezzati da cartelli con la scritta: «utilizar la nevera!» (utilizzare il frigo) per l’acqua della tappa successiva!
 

La Señora Elena nel suo bar di Carcaboso.
 
 Quel tratto di cammino tra querceti, la sete e lacrime singhiozzate  
La signora Elena, prima di lasciarci andare, telefona all’Hostal Asturias, sulla nazionale N-630, a qualche chilometro dal cammino.
Un loro cameriere verrà a prenderci all’Arco di Cáparra per andare a dormire e a mangiare lì: ma dobbiamo tassativamente arrivare entro le 16, sennò se ne andrà e noi dormiremo all’aperto, nel nulla e senza nulla.
Fa un caldo pazzesco, siamo da ore nella dehesa, davanti solo un sentiero tra erba secca e querce. Attendo con ansia di trovare Venta Quemada (Casa Bruciata), dove la guida dice ci daranno dell’acqua.
Quando arriviamo, anche se fuori ci sono delle auto, non c’è nessuno ad aprirci. «Saranno nei campi», ci diciamo sconsolati. Cerchiamo un rubinetto nelle stalle: niente. Dell’arco della cittadina romana «ni rastro»
(neanche l’ombra) e… sono quasi le 16. Io non ce la faccio più. Piango e cammino, in silenzio. I piedi non
vanno.
 

La dehesa verso Venta Quemada.
 
 Scorgiamo finalmente l'arco di Cáparra, antica cittadina romana  
Dopo una pausa che Enry, senza dire nulla, mi fa fare a tutti i costi…ecco che, sotto di noi, si vede finalmente sbucare l’arco! Non lo vedevamo prima perché, rispetto al cammino, è in una piccola depressione, coperta da alberi! Mi sembra un miraggio. Arrivo e mi accascio sotto queste volte.
Alzo lo sguardo e non posso fare a meno di continuare a scrutarlo dal basso. E’ imponente. Paolo, arrivato prima di noi, ci offre l’acqua avanzata del suo “boccione” da 8 litri. Non so e non sappiamo che dire. Mi godo, incredula, un momento di pace pura e di riposo.
L’arco è un antico monumento funebre, con quattro aperture, una su ogni lato, fatto costruire in memoria dei genitori e della moglie da Marco Fidio Macer, in epoca flaviana, proprio sul decumano della Via de la Plata, che qui appare lastricata, come la nostra Via Appia a Roma.


L’imponente Arco di Cáparra.
 
 All'Hostal Asturias ci aspetta una bella grigliata di carne  
Poco dopo, il tempo di scattare una foto tutti insieme con l’autoscatto, arriva sgommando una vecchia Golf impolverata: è il cameriere dell’hostal Asturias.
Lui ha la camicia bianca di ordinanza, ma ci prende subito gli zaini senza paura di sporcarsi, li butta nel bagagliaio e ci invita a salire in carrozza.
Ci aspetta una camera con aria condizionata ed una bella grigliata di carne. Mi arriva un messaggio inaspettato da un collega, che mi incoraggia.
Scrive: «Tu sei forte, vedrai che ce la farai, altro che tornare ed andare a Stromboli!».
Domani saremo a Baños de Montemayor e tra due giorni finalmente entreremo nella mia amata Castilla y León… dopo aver lasciato la dura, ma assolutamente magica Extremadura.
 
Elena Casagrande
(La sesta puntata de «La Via de la Plata» sarà pubblicata mercoledì 4 maggio)

Con Paolo all'ermita di Santiago a Casar de Cáceres.

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Cecilia 05/05/2022
Questo cammino è davvero una grande prova fisica, ricordo quando mi raccontavi del caldo insopportabile. Un grande risultato arrivare a terminarlo.
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