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Storie di donne, letteratura di genere/ 365 – Di Luciana Grillo

Felice Addeo, Grazia Moffa: «La violenza spiegata…» – Un volume molto complesso ma illuminante sulla violenza subita dalle donne e mai sufficientemente spiegata

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Titolo: La violenza spiegata. Riflessioni ed esperienze
            di ricerca sulla violenza di genere

 
Curatore: Felice Addeo, Grazia Moffa
Editore: Franco Angeli 2020
 
Pagine: 344
Prezzo di copertina: € 41
 
Recensire questo libro in prossimità dell’8 marzo ha un valore aggiunto: richiamare l’attenzione di lettrici e lettori sul tema sempre attuale e mai esaurito della violenza di genere.
Questo volume, voluto dal Direttivo dell’OGEPO, Centro interdipartimentale per gli Studi di Genere e le Pari Opportunità dell’Università di Salerno, che ogni anno promuove attività di vario tipo, conferenze, laboratori ecc., intorno al tema «La violenza spiegata», comprende 20 saggi suddivisi in cinque sezioni e prende in considerazione il concetto di violenza di genere con uno sguardo ampio, che va dai soprusi subiti in tempo di covid-19 alle campagne di odio che si scatenano sui social, dai centri antiviolenza a quelli per uomini maltrattanti, dalla misoginia cristiana che si legge ad esempio in Tertulliano agli esempi antichi di violenza che si trovano nel teatro classico, dalla violenza linguistica alla violenza nella poesia femminile, fino a storie vere di violenze e soprusi e alle Ancelle magistralmente raccontate dalla scrittrice canadese Margaret Atwood (più volte recensita in questa rubrica).
 
Prendiamo spunto dal saggio di Grazia Moffa sulla violenza di genere durante il primo lockdown, nel periodo che va dal 1° marzo al 16 aprile 2020: «secondo i più recenti dati Istat… il numero verde 1522 antiviolenza e stalking ha ricevuto oltre cinquemila chiamate, il 73% in più rispetto allo stesso periodo del 2019. Tra queste si contano oltre duemila richieste di aiuto, con un incremento del 59% rispetto al 2019».
È evidente che, in condizioni di isolamento, i partners hanno adottato comportamenti più violenti del solito, aggravati da tensioni e difficoltà economiche, mentre i compiti di cura tradizionalmente assunti dalle donne sono certamente aumentati.
 
Ora, è evidente che l’emancipazione femminile ha fatto passi da gigante, che la possibilità di divorzio e aborto ha dato alle donne una maggiore libertà, che l’accesso a professioni un tempo esclusivamente maschili ha contribuito a equiparare moglie e marito, che l’accesso di massa agli studi ha una connotazione positiva, eppure tutto ciò spesso ha comportato un maggior carico di lavoro per le donne, impegnate in casa e fuori casa, pagate meno degli uomini, con scarse possibilità di carriera.
Né si può sorvolare sugli stereotipi che permangono relativamente «ad ambiti e saperi disciplinari di tradizionale dominio maschile».
In tempo di pandemia, «non è difficile immaginare le implicazioni sostanziali sui percorsi di vita delle donne… La chiusura delle scuole e degli asili nido legate alle misure di distanziamento sociale non hanno annullato le esigenze di assistenza all’infanzia, al contrario hanno avuto un impatto particolarmente pressante sulle madri».
 
Altro saggio, a cura di Francesca D’Angelo: mondo femminile come bersaglio del linguaggio dell’odio sul web, «fenomeno che ha radici nel passato… negli ultimi anni ha assunto una dimensione sempre più globale dovuta alla diffusione di Internet e dei social media come nuovi mezzi di comunicazione quotidiana».
Si parla di odio sessista, di cyber-sessismo, di molestie sessuali virtuali, tutto causato dall’«egemonia maschilista che caratterizza la società odierna, la cultura del sessismo e della violenza sessuale, l’esistenza di doppi standard comportamentali per uomini e donne, la normalizzazione del linguaggio violento e sessista, l’identificazione binaria di ruoli e sessualità maschile e femminile».
 
Si individuano le vittime di questo linguaggio violento, si tiene conto di razza, etnia, lingua, disabilità, religione, appartenenza a gruppi di femministe, attiviste, difensore di diritti umani, professioni (le giornaliste sono particolarmente colpite), si considera la capacità di interagire con il web delle donne più giovani.
Le conseguenze della violenza verbale mediatica sono preoccupanti, toccano ambiti diversi della vita personale e professionale delle vittime oggetto di aggressioni e discriminazioni, «possono essere di natura fisica, emotiva, psicologica… l’effetto è quello di negare il diritto alle donne… di vivere una vita libera dalla violenza e dall’abuso».
 
Ogni saggio meriterebbe un’attenzione speciale, ma una recensione deve darsi dei limiti, perciò, dato per scontato che i femminicidi spesso sono descritti come un semplice contrasto uomo-donna, caratterizzati da dati falsi o erronei, pregiudizi, stereotipi e ragionamenti fallaci, mi sembra utile riportare notizie su assistenza e prevenzione, prendendo spunto dai saggi di Esposito, Dalia, Ivone, Chirivì e Moffa: l’assistenza riguarda i Centri antiviolenza a cui le donne si rivolgono per chiedere e ottenere aiuto.
I dati statistici parlano di donne la cui età va dai 35 ai 60 anni, laureate nel 50% dei casi, diplomate nel 45%, con diploma di scuola media inferiore nel 5%, vittime di violenza psicologica, economica e fisica.
«Sono persone fragili, manipolate psicologicamente e convinte di poter deviare il comportamento violento all’interno del matrimonio… rivelano una profonda fragilità nel momento in cui bisogna procedere legalmente».
 
Dal primo decennio del XXI secolo, in Italia si è prestata attenzione anche agli uomini maltrattanti, sia per «favorire la sicurezza delle vittime (donne e bambini)» sia per intraprendere «un processo più ampio di cambiamento culturale, orientato all’abolizione della discriminazione e della violenza verso le donne»: il primo centro è nato a Firenze nel 2009, seguito da quelli di Modena, Ferrara, Cremona, Roma, Napoli e Salerno dove, dal 2016, opera il Centro Time Out.
A questo punto si è capito che «è possibile sostenere le donne in un percorso di emancipazione e accompagnare gli uomini a misurarsi con l’autonomia femminile senza entrare in contrapposizione».
 
Un cenno a Tertulliano (dal saggio di Claudio Azzara) è indispensabile, visto che considera la donna «in misura maggiore dell’uomo incline alla concupiscentia e alla vanitas, stimolate da cultus e ornatus (che ne sono al contempo anche la conseguenza) e da cui scaturiscono i peccati di ambizione e di prostituzione (crimen ambitionis e crimen prostitutionis).
Unico rimedio a una simile dissolutezza è la pratica rigorosa delle virtutes cristiane: humilitas, castitas, gravitas, severitas. L’emblema della vanitas, causa di perdizione, è la figura biblica di Eva…».
 
Il De cultu feminarum di Tertulliano ha rappresentato un importante exemplum per il cristianesimo delle origini, e dunque «fissò un ideale di donna cristiana destinato ad assumere valore paradigmatico per lungo tempo».
Insomma, il corpo di una donna è strumento di Satana!
Con Stefano Amendola ci avviciniamo al mito classico, in cui la violenza di genere ha un sapore antico.
Pensiamo ad esempio a Zeus, «protagonista di innumerevoli unioni sessuali, molte delle quali consumate senza il consenso della partner di turno», ai tanti episodi in cui la donna è facile preda, anche se l’iconografia tradizionale tende piuttosto a descriverla mite e consenziente.
 
Negli archivi la violenza è denunziata dalla vittima e testimoniata dal vicinato, come si riscontra nel fondo Tribunale Penale presso l’Archivio di Stato di Napoli, nei tanti film di registe come Marguerite Duras, Jane Campion, Sofia Coppola, Margarethe von Trotta, e soprattutto Maya Deren, nelle poesie di Antonia Pozzi, Amelia Rosselli, Sylvia Plath e tante altre.
 
Infine, arriviamo al saggio sulla distopia, l’immaginario e il corpo delle donne: le Ancelle di Atwood sono le poche donne ancora fertili dopo le radiazioni, costrette «a ripopolare la nazione, attraverso amplessi forzati con i Comandanti, vertici del nuovo sistema politico, alla presenza delle loro legittime consorti».
Perdono il loro nome, perché diventano proprietà degli uomini, infatti «la protagonista June diventa Offred» (di Fred), mentre le donne sterili chiamate unwomen (non donne) sono condannate a morte oppure obbligate a eliminare rifiuti tossici.
Le Ancelle non possono neanche uscire da sole, la loro vita è sorvegliata dalle Zie che le indottrinano, dalle Marte che svolgono compiti domestici e da spie disseminate in ogni luogo, dette Occhi.
 
Anche gli abiti simil-monacali rispondono a questi principi… eppure, nonostante una sorveglianza continua, qualche Ancella riesce ad evadere mentalmente dalla prigione ricordando il suo passato di donna libera.
Se le Ancelle non riescono ad avere figli, vengono relegate nelle colonie contaminate dai rifiuti nucleari.
Offred, non riuscendo a procreare (a causa della sterilità non rivelabile del Comandante), viene spinta tra le braccia di Nick, autista del Comandante, e a deciderlo è proprio la moglie di Fred… ma quando la relazione fra Offred e Nick continua, Atwood conclude il romanzo lasciando i lettori nel dubbio: Offred si salverà? Nick la tradirà o la condurrà al sicuro con il suo furgone?
 
Così, nell’incertezza che ha coinvolto profondamente anche me quando ho letto Il racconto dell’Ancella, si chiude la recensione palesemente incompleta di un volume molto complesso e, nel contempo, illuminante sulla violenza subita dalle donne e mai sufficientemente spiegata.

Luciana Grillo - l.grillo@ladigetto.it
(Recensioni precedenti)


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