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Storie di donne, letteratura di genere/ 386 – Di Luciana Grillo

Chiara Frugoni: «Paure medievali. Epidemie, prodigi, fine del tempo» – Uno scrigno di notizie, di osservazioni, di documenti e una vera e propria galleria d’arte

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Titolo: Paure medievali. Epidemie, prodigi, fine del tempo
Autrice: Chiara Frugoni
 
Editore: Il Mulino 2020
Genere: Libro universitario
 
Pagine: 400, illustrato, Rilegato
Prezzo di copertina: € 40
 
Il Medioevo mi affascina, un testo di Chiara Frugoni è per me uno scrigno di notizie, di osservazioni, di documenti e una vera e propria galleria d’arte, grazie a un ampio apparato iconografico.
In tempi come questo in cui viviamo, dominati, preoccupati e a volte terrorizzati dalla pandemia, questo libro è davvero utile per capire che nulla accade per caso, che la storia può essere magistra vitae se la si sa comprendere, che gli eventi si possono interpretare, che se ne può capire la causa, ma non se ne può dare la colpa al cielo o al destino, superficialmente.
E che l’ambiente in cui viviamo va protetto, non danneggiato. Nulla di più attuale!
 
Certamente, nel Medioevo le paure erano tante; adulti maschi e femmine, bambini e bambine temevano l’imponderabile, le malattie, la fame, la miseria, la guerra, le invasioni, il non conosciuto (e dunque i diversi come gli uomini dalla pelle di un altro colore, o dalla fede lontana dalla loro).
Si conosceva la storia di Cristo e dell’Anticristo che, come afferma Adso di Montier-en-Der «avrà per padre il diavolo, nascerà a Babilonia, sarà allevato e protetto nelle città di Betsaida e Corazim, maledette da Cristo…»; non si conoscevano i venti, e quindi le piogge di sabbia provenienti dai deserti si assimilavano a piogge di sangue, così come i lampi sembravano essere serpenti e creature mostruose potevano ergersi dal mare…
 
Frugoni accompagna i testi con le immagini degli affreschi che spiegavano, tra l’altro, a chi non sapeva leggere, come l’arca di Noè potesse fluttuare sulle acque del diluvio, come arrivasse la morte improvvisa e come fosse la strada verso il Paradiso.
Fino al XII secolo si parlava soltanto di Inferno e Paradiso, poi nel secolo successivo si aggiunse un terzo regno, il Purgatorio dove – come aveva sostenuto Sant’Agostino – le anime dei defunti venivano consolate «dalla pietà dei propri cari che sono in vita, quando viene offerto per loro il sacrificio di Cristo o si fanno elemosine nella chiesa».
In tal modo la Chiesa, «accogliendo la fede nel purgatorio venne incontro agli interrogativi di una società mutata e nello stesso tempo assunse il ruolo di importante ponte fra vivi e morti».
 
Questo fu sicuramento un sollievo per le persone che smisero almeno in parte di temere l’inferno – sempre presente insieme al paradiso nelle rappresentazioni del Giudizio universale del XII secolo – e cominciarono a sperare che, espiate le colpe in purgatorio, sarebbero andati in paradiso.
La paura della fame e della miseria fu esorcizzata dal racconto dei miracoli, l’intolleranza nei confronti degli stranieri è testimoniata da documenti: a proposito degli abitanti dei Paesi Baschi «la guida (del XIII sec) mette in guardia i viaggiatori perché incontreranno popolazioni terribili, i navarresi e i baschi… Quando li guardi ingerire il cibo li prenderesti per dei cani o dei porci…; se li senti parlare penseresti a dei cani che abbaiano… Sono un popolo barbaro, diverso da tutti gli altri popoli per costume e per razza, pieno di cattiveria, di pelle nera, di brutto aspetto. Sono gente depravata, perversa, perfida, leale, corrotta, libidinosa, amante del bere, esperta in ogni tipo di violenza, feroce, selvaggia, disonesta e falsa, empia e rozza, crudele e attaccabriga, ignara di ogni buon sentimento, maestra in tutti i vizi e tutte le iniquità».
 
Quanto agli ebrei, si credeva che fosse impossibile trovare un qualunque punto di incontro: persino il re Luigi IX, diventato santo, «prescriveva ai laici di difendere la chiesa cattolica, nel caso di una disputa, non a parole, ma con la spada, affondandola nel ventre dell’ebreo», come Pietro il Venerabile, abate di Cluny, già un secolo prima aveva detto: «Non so proprio se l’ebreo sia da considerarsi un uomo perché non si piega alla ragione umana né all’autorità divina, ma riconosce solo leggi sue proprie».
Nulla cambiò nei secoli successivi, come è testimoniato in tante opere d’arte presenti in questo testo, dove si vedono famiglie ebree in fuga, ebrei mandati al rogo, eccetera.
 
E mentre cresceva l’antisemitismo, dovuto anche all’invidia «per il ruolo economico raggiunto», all’Ecclesia si contrapponeva la Synagoga, spesso raffigurata con occhi bendati per confermare il rifiuto della conversione e si dipingeva Maria, una madre ebrea, che mangia il braccio di un bambino, mentre a Trento, nel 1475, un bimbo annegato in una roggia, fu considerato vittima degli ebrei – che secondo le più bieche credenze torturavano i piccoli e usavano il loro sangue per impastarlo nel pane azzimo – e venerato come beato fino al 1965.
I musulmani nel Medioevo venivano chiamati saraceni, perché discendenti da Sara, sposa di Abramo, «ma a volte erano chiamati agareni in quanto discendenti da Agar, la schiava di Abramo dal quale Agar ebbe Ismaele, ritenuto dai musulmani il progenitore di Maometto».
 
I musulmani furono considerati aggressori, infedeli, alleati di Satana, usurpatori della Terra Santa e perciò combattuti, torturati, massacrati.
La loro religione era nata, secondo la tradizione, da uno scisma prodotto da Maometto, come più o meno conferma anche Dante nel canto XXVIII dell’Inferno quando incontra Maometto in mezzo «ai seminator di scandalo e di scisma».
Gli ultimi due capitoli sono estremamente interessanti in questo periodo di pandemia, perché trattano di medici, malattie, lebbrosi, sanguisughe e incisioni di vene, con il supporto delle splendide riproduzioni di bassorilievi e dipinti.
 
I medici sono spesso in cattedra, e sono sempre uomini; l’unica dottoressa di cui si sa è Trotula de Ruggiero, vissuta nel secolo XI a Salerno, moglie e madre di medici, tutti insegnanti nella Scuola medica salernitana. Altre donne-mediche erano le ostetriche che si occupavano dei parti e dei neonati.
E poi c’è la peste, di cui la letteratura ci ha dato notizia, basti pensare a Giovanni Villani, a Boccaccio e a Manzoni.
È una malattia infettiva, che provoca bubboni, fa assumere un colore scuro alla pelle del contagiato e a volte compromette gravemente i polmoni.
 
Frugoni ci racconta la diffusione della peste fra parenti e amici dei marinai portatori inconsapevoli del batterio che, una volta entrati in porto, abbracciandosi, contagiavano e a loro volta portavano il contagio in tutte le case.
Secondo il Villani, la peste del 1347 ha ucciso il 20% circa dei fiorentini. E le processioni che invocavano San Sebastiano erano in realtà un altro veicolo di contagio.
Frugoni conclude il suo impegnativo lavoro riflettendo che «pur con tutti i mezzi moderni di cui disponiamo e il grande impegno del personale sanitario, per alcuni aspetti, non per tutti per fortuna, è un po’ come fossimo nel 1348.
«Non abbiamo medicine sicure né vaccini, non c’è più spazio per i cadaveri…non bastano i medici e infermieri, alcuni di loro muoiono contagiati; chiudono le fabbriche e le imprese… E naturalmente c’è chi crede ciecamente ai complotti… Gli uomini medievali, così lontani, così vicini».

N.B. Questo saggio è stato stampato nel 2020, Frugoni non può sapere che alla fine dell’anno sono arrivati i vaccini.

Luciana Grillo - l.grillo@ladigetto.it
(Recensioni precedenti)

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