Storie di donne, letteratura di genere/ 397 – Di Luciana Grillo
Sophie Daull, «Il lavatoio» – Un romanzo straordinariamente coinvolgente, scritto (e tradotto) molto bene, si fa leggere velocemente e lascia una traccia profonda…
Titolo: Il lavatoio
Autrice: Daull Sophie
Traduttrice: Cristina Vezzaro
Editore: Voland, 2021
Pagine: 344, Brossura
Prezzo di copertina: € 15
«Il lavatoio» è un romanzo straordinariamente coinvolgente, scritto - e tradotto - molto bene, senza neanche una virgola di troppo; si lascia leggere velocemente e lascia una traccia profonda…
La storia occupa un tempo definito, dalla sera di giovedì alla notte del martedì successivo.
Le voci narranti sono due: un giardiniere che si è macchiato di un omicidio, è stato condannato all’ergastolo ed è stato scarcerato per buona condotta e una scrittrice la cui mamma è stata uccisa trent’anni prima: «Anche io sono stata condannata all’ergastolo. In una cloaca di dolore putrido, di amnesia forzata, di confusa rimozione che ha finito per prosciugarsi…»
Il passato ritorna prepotente davanti agli occhi del giardiniere quando vede in televisione una scrittrice che presenta un suo libro: è la figlia della donna che lui ha assassinato, andrà a presentare il romanzo proprio lì, a Nogent-le-Rotrou, il suo paese.
Dunque, l’uomo conta febbrilmente i giorni che mancano, la sua routine viene sconvolta, pensa che la incontrerà, si riavvicina all’alcol… mentre la donna sa che «il tizio che ha ucciso mia madre con quarantuno coltellate, dopo averla violentata con il manico di una pala da neve una notte di gennaio… è stato rilasciato… gli hanno dedicato un lungo documentario televisivo in cui risulta particolarmente fotogenico».
Sa che ora è giardiniere municipale a Nogent-le-Rotou.
Non sa che l’assassino graziato va a comprare il libro, lo legge avidamente, è sconvolto dal fatto che questa donna, dopo aver perduto tragicamente la madre, abbia perduto anche la figlia, morta di malasanità; reagisce dormendo un sonno agitato, prova ad affrontare il weekend come niente fosse, ma sta male, vorrebbe vomitare, «mi sembrava di essere tatuato di morte e di sangue, riconoscibile come un criminale latitante o un uomo evaso da un manicomio. Ero entrambi. Ero nudo… Sono corso a rifugiarmi in casa, ho messo il chiavistello e tirato le tende benché sapessi che niente avrebbe potuto barricarmi contro quell’onda che si gonfiava a dismisura».
Non lo distrae né assistere con Gilbert al saggio di danza della figlia Jennifer, né ascoltare ciò che si dicono padre e figlia nel tragitto verso casa, né guardare dalla finestra le vite degli altri, «schiene chine sui fornelli, bambini saltare in pigiama sul divano…, cartelle da preparare, shampoo contro i pidocchi, telefonata ai suoceri, ragù fatto in casa…».
Vuole tornare a casa, nel buio, a piedi: «ho incrociato solo un cane randagio che camminava sghembo e non mi ha né morso né leccato. A mordere e leccare era solo il freddo».
Intanto lei ripensa a sua madre, a quell’ultima sera in cui l’ha aspettata inutilmente, poi l’ha cercata in una città buia, sotto la neve: «Non ho le scarpe adatte per la neve, gli abiti adatti per gennaio… La città è deserta... la neve beve pozzanghere blu, rosse, elettriche ma dilavate, che lampeggiano tra due movimenti del tergicristallo come in un lunapark in abbandono, lugubre e profetico».
Infine, arriva a Nogent-le-Rotou, l’accoglie il libraio, la prepara all’incontro con i lettori, le chiede perché non nutra risentimento… lei «tace un momento. Riprende: Questa cosa, forse, è amore. E l’amore spezzato per una morte ingiusta non si risolve con un risarcimento in denaro o la prigione. Non c’è un’economia del perdono», c’è invece l’indifferenza per chi ha ucciso sua madre e per l’infermiera che ha causato la morte di sua figlia: «In un certo senso non esistono più».
Il pubblico l’ascolta con partecipazione, si aspetta parole di rabbia, le chiede se nutre sentimenti di vendetta: «Perché non prova odio? Può perdonare? Crede in Dio?», «l’uomo è sempre in fila, è l’ultimo, avanza con passo meccanico… Le mosche tamburellano come non mai contro gli oblò sporchi del casco da palombaro che porta da cinque giorni…».
I protagonisti si muovono come al rallentatore, i lettori arrivano all’ultima parola dell’ultima pagina e trovano - segno che si può ricominciare? - un fiore, l’eumenida tiliabis flora.
Luciana Grillo - l.grillo@ladigetto.it
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