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Storie di donne, letteratura di genere/ 463 – Di Luciana Grillo

Fabrizia Ramondino, «Guerra di infanzia e di Spagna» – Fabrizia racconta la sua vita con la freschezza ingenua e la saggezza leggera di una bambina intelligente

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Titolo: Guerra di infanzia e di Spagna
Autrice: Fabrizia Ramondino
 
Editore: Fazi, 2022
Genere: Letteratura femminile contemporanea
 
Pagine: 504, Brossura
Prezzo di copertina: € 18,50
 
La protagonista di questo romanzo è Titita, una bimba intelligente e curiosa, che vive con la sua famiglia, il papà diplomatico e mamita, a Maiorca.
Racconta che «come accade in molte infanzie, quasi fossi incerta tra il continuare a crescere e il fermarmi, ebbi varie e, a volte, gravi malattie, sicché il giardino, che in quei frangenti mi era proibito, rappresentava la salute e il pericolo».
In giardino andava con i fratelli Carlino e Anita, accompagnati da Dida, la tata amata che spesso «si accovacciava accanto a me sulla soglia di casa» e mostrava con pochi ma significativi gesti, la sua forza, «tanto nell’ira che nell’amore, infatti, era tremenda».
 
Per Titita fu un grande dolore non trovarla più al suo fianco, quando improvvisamente fu licenziata dai suoi genitori.
Andò da sola a cercarla, e poi «tornai a casa furente. Avrei voluto avere il corpo grande di Dida perché potesse contenere la mia ira».
La mamma le disse di averla mandata via perché li aveva derubati, Titita – quando capì che la decisione di sua madre era irrevocabile – chiese di essere mandata in collegio e davanti alla mamma che piangeva, «mi girai dall’altra parte e non la consolai».
Il romanzo è molto più ricco di quanto possa sembrare da queste prime righe, Titita descrive il continuo trasformarsi delle parole passando da una lingua all’altra, dall’italiano al castigliano, dal castigliano al maiorchino, «un’altra lingua segreta, che loro ignoravano, e che condividevo invece con i servi, con il mio amico Paco, con la gente del cortile di Dida e a volte anche con i miei fratelli minori».
 
E racconta l’attesa dei giocattoli italiani che arrivavano in aereo, i birilli tricolore, Pinocchio - che lei sentiva nemico ed estraneo, - le carte geografiche, la palla - che «trasformava il lontano in vicino» - e la trottola, due telefoni in miniatura…, i giochi che inventava, come quello del Mondo rovesciato.
Descrive la servitù che viveva insieme alla famiglia, il giardiniere Pedròn e la cuoca Francesca, che aveva dieci figli; gli amici dei genitori: il marchese di Albuquerque che abitava nella villa dei Pavoni; i signori Facchi, italiani che occupavano la villa delle Scimmie e dall’Italia ricevevano caramelle speciali, salumi, vini e formaggi; la villa degli Oleandri che era del dottor Pynia, il medico di famiglia, e della moglie «grassa e saltellante… da giovane aveva studiato filosofia… mamita la vedeva molto volentieri, perché con lei poteva parlare di letteratura».
 
Altra figura, molto importante per Titita, era la nonna che arrivava da Napoli, le parlava delle sue sorelle - Egle, la più bella; Celeste, una trina; Ada, un cigno - e della città che, agli occhi di Titita, «diventava sempre più la settima meraviglia del mondo».
Poi, c’è il collegio, «gli addii nel parlatorio furono rapidi», mentre i colori si riducono a tre, il bianco, il nero e il grigio, «il colore delle ombre… il colore del lavoro. Di grigio erano vestite le più umili inservienti», a cui si aggiunge il rosso, «truculento, invadente, lussuoso… quello dei tappeti rossi del parlatorio… dei divani di velluto… delle innumerevoli effigi del Sacro Cuore… brillante, cerimoniale, ordinatamente festoso era quello delle coccarde… del nastrino rosso legato al collo delle pecorelle che nel presepe raffiguravano ciascuna un’allieva… struggenti come un rimpianto o una fragile speranza erano le cifre ricamate in rosso sulla mia biancheria…».
 
Titita è spontanea e arguta, quando parla con la Madre Superiora che racconta di santi e beati vissuti nei castelli, non sa trattenersi dal dirle: «Abitate sempre in palazzi e castelli, voi francesi? Dal suono della vostra lingua mi pareva che piuttosto abitaste nelle grotte».
Così Titita cresce, diventa una farfalla ma poi si trasforma in ape per lo spettacolo organizzato in collegio; torna a casa in vacanza ma deve impegnarsi ad aiutare papito e mamita a traslocare, mentre la guerra colpisce anche Napoli, come le scrive la nonna, «bombardata di continuo. Dai muri sventrati escono frotte di topi…».
Insieme alla lettera, per il compleanno, la nonna le invia “La Traviata”, «l’opera più bella di Verdi, una vera storia d’amore… Solo la canzone napoletana e l’Opera conoscono l’amore. La Traviata era una peccatrice come Maria Maddalena, ma l’amore l’ha redenta. Voglio che impari che non bisogna condannare nessuno…».
 
Tra lunghe passeggiate in giardino e giochi nuovi, le nuotate e la pesca, i tre fratellini inventano anche una loro lingua segreta, il gasàghesé, e ascoltano i discorsi degli adulti sulla guerra, mentre «Maiorca, come chiusa in una bolla di sapone, si trovava ormai fuori dalla guerra… e l’Italia stava perdendo la guerra».
L’infanzia spagnola di Titita finisce, si sale su una grande nave, si ritorna nell’Italia sconfitta, mamita butta in mare la chiave temendo che mai più la sua famiglia sarebbe stata felice.
In questo romanzo,
Remondino racconta la sua vita, il lavoro di suo padre, le amicizie, i luoghi, con un tocco sereno, con la freschezza ingenua e la saggezza leggera di una bambina intelligente.

Luciana Grillo – l.grillo@ladigetto.it
(Recensioni precedenti)


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