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Storie di donne, letteratura di genere/ 485 – Di Luciana Grillo

Carla Cerati, «La classe è morta - Storia di un’evidenza negata» – Dopo averci lasciato immagini indimenticabili, ha scritto romanzi che lasciano tracce profonde

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Titolo: La classe è morta. Storia di un'evidenza negata
Autrice: Carla Cerati - Curatore: Pietro Barbetta
 
Prefazione di John Foot, postfazione di Silvia Mazzuchelli
Editore: Mimesis, 2023
 
Pagine: 144, Brossura.
Prezzo di copertina: € 15
 
Ho conosciuto Carla Cerati come scrittrice e l’ho amata molto, per il suo sguardo rigoroso sulla famiglia, per la descrizione quasi fotografica dei rapporti fra genitori, figli, fratelli.
Oltre che scrittrice, anzi, prima che scrittrice, Carla era fotografa, attenta, accurata, appassionata.
Nel 1969 fu pubblicato un libro speciale, «Morire di classe. La condizione manicomiale fotografata da Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin», che aveva come protagonisti «il povero, il diseredato che, proprio in quanto privo di forza contrattuale da opporre a queste violenze, cade definitivamente in potere dell’istituto deputato a controllarlo».
 
Lo scopo di questa pubblicazione era da una parte la denuncia di una condizione umana insopportabile, dall’altra un modo per «aiutare Franco Basaglia per realizzare una legge per far chiudere gli ospedali psichiatrici… Le parole si possono smentire! Le immagini no!»
Le immagini che – come ha detto Cerati – non si possono smentire sono prevalentemente di donne «manicomializzate… donne e uomini che indossano la camicia di forza, esausti… seduti, sdraiati per terra, abbruttiti… dalla condizione umana… Donne e uomini che sono insieme, nello stesso spazio, ma che rimangono isolati… Corpi obesi, emaciati, esausti».
Certi visi sembrano dire: «Che cosa ci faccio qui? Chi mi ci ha condotto, per quale ragione? Perché queste sbarre?», e il pensiero corre alla figlia di James Joyce, la danzatrice Lucia, che fu rinchiusa in manicomio contro la volontà del padre che vedeva in lei una chiaroveggente.
Non ci fu clemenza o comprensione per lei, che in manicomio morì nel 1982.
 
Il teatro di avanguardia si avvicina al mondo dei manicomializzati che sono la conferma dell’estraniazione del personaggio.
Nel 1975 va in scena «La classe morta» di Tadeusz Kantor, in cui i protagonisti vestono una divisa da detenuti, hanno espressioni attonite, dissociate, estraniate ed entrano in scena a ritmo di valzer, benché claudicanti, come gli attori della compagnia di Judith Malina e Julian Beck che nella loro tournée italiana scandalizzarono gli spettatori «benpensanti».
 
Al centro del piccolo libro, ecco le foto di Carla Cerati, da guardare attentamente: silenzio assoluto, pareti scrostate, letti disfatti, uomini con la testa fra le mani, donne con gli occhi nel vuoto, a piedi nudi, intente a fumare, piegate in due su una panchina: «Documentare la condizione degli internati negli ospedali psichiatrici italiani è stata un’esperienza sconvolgente, indimenticabile…» ha scritto Carla Cerati.
Era il 1968 e – come scrive Silvia Mazzucchelli – Carla aveva quarantadue anni, due figli, un matrimonio in crisi e una breve esperienza di fotografa.
Fotografare la realtà forse non le bastava, perciò ha scelto il teatro, il volto intenso di Malina che interpretava Antigone, espressione pura di non-appartenenza alla sua gente, alla sua città.
 
Forse anche Carla si sente non appartenente: ammessa a Brera, non è una scultrice; lavora in casa come sarta, ma non è un’operaia, solo la fotografia la farà sentire libera e l’incontro con Basaglia farà di lei la fotografa della solidarietà e dell’indignazione per le condizioni disumane dei manicomializzati.
«Al vuoto, al silenzio, alla reclusione delle teste pazze, ha dato un volto; mentre al suo vuoto, al suo silenzio, alla sua reclusione, ha dato una voce», perciò Carla Cerati ci ha lasciato immagini indimenticabili e romanzi che lasciano una traccia profonda in chi li legge.

Luciana Grillo - l.grillo@ladigetto.it
(Puntate precedenti)

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