Trento. Ustica è stata qui – Di Maurizio Panizza
A 45 anni dalla strage ricordiamo due uomini che in modo diverso lasciarono in Trentino una traccia profonda del loro passaggio per umanità, impegno e generosità

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A 45 anni dalla strage e a pochi anni dalla coraggiosa sentenza del
Tribunale di Palermo che obbliga lo Stato italiano a risarcire le
vittime del disastro, nel ricordo di quel volo mai concluso raccontiamo
di due persone «speciali» coinvolte nella tragedia.
Due
uomini che in modo diverso lasciarono in Trentino una traccia profonda
del loro passaggio per umanità, impegno e generosità.
Di
Ustica, di quella giornata del 27 giugno del 1980, oggi rimane ben
poco. Di certo, restano ancora tanti giornali e fotografie e nei
tribunali scaffali di faldoni zeppi di perizie e testimonianze dove, fra
poche cose vere, si annidano infinite falsità e depistaggi di soggetti
infedeli chiamati impropriamente «servitori» dello Stato.
Rimane
pure un collage di pezzi del relitto, ricostruiti ed esposti al
pubblico come un corpo morto nel Museo della Memoria, a Bologna.
Ustica,
un’isola al largo di Palermo, dista da Trento più di 1.500 chilometri:
una distanza enorme che ben poche cose mette in comune fra le due
località se non le bellezze naturali dei rispettivi orizzonti.
Eppure,
qualcosa del dramma di Ustica - così poco conosciuta in provincia prima
di quel tragico tuffo in mare - è rimasto anche da noi: il ricordo
commosso di Alberto Bonfietti, perito nel disastro, e la toccante
testimonianza di Roberto Superchi che sul Dc9 Itavia aveva sua figlia Giuliana.
Era
il 1967 quando un ragazzo alto e magro, con gli occhiali spessi e la
fronte ampia, scendeva alla stazione ferroviaria di Trento.
Alberto Bonfietti.
Quello studente un po’ stranito e vestito in maniera vagamente hippy,
veniva da Mantova e si chiamava Alberto Bonfietti. Come tanti altri
ragazzi spinti dall’ansia di cambiare il mondo, era approdato in
Trentino perché attratto dalla promettente Facoltà di Sociologia, la
prima in Italia, avviata da pochi anni.
L’impatto iniziale con la
città fu subito la partecipazione a un seminario sul primo libro del
Capitale tenuto da Renato Curcio, in quegli anni studente modello.
Qui,
a Trento - città del Concilio ancora piuttosto chiusa e bigotta -
Alberto avrebbe conosciuto i grandi ideali di libertà, giustizia e
uguaglianza; qui avrebbe iniziato a respirare l’aria della lotta di
classe e poi partecipato attivamente a quello che passerà alla storia
come il nobile, rivoluzionario e controverso movimento del Sessantotto.
Un
periodo di grandi speranze, ricco di contatti e di confronti con la
politica a cavallo fra il mondo studentesco e quello delle fabbriche.
Trento,
1969. Sit-in degli addii. In fondo a sinistra, seduto in maglione
bianco, si riconosce Mauro Rostagno. Alla sua sinistra, Vincenzo Calì in
giacca scura.
In un ricordo apparso su Lotta Continua il mese successivo alla tragedia, in giovane Mario Cossali così descrisse il suo primo incontro con Bonfietti.
«Quando lo conobbi mi metteva soggezione, era contrario alle imprecisioni, ai pressapochismi, era un duro.
«Sotto
la scorza, però, la polpa era dolcissima: per farla emergere bastava
una battuta, un bicchiere di vino buono, un riferimento più diretto alle
relazioni personali, magari alle madri o all’amore.»
Dalle stesse
pagine Ettore Camuffo (un altro attore della contestazione trentina,
oggi sociologo) si rivolse direttamente ad Alberto con grande
commozione.
«Una delle cose più belle che credo di avere vissuto con
te è successa quando a Trento, vicini ad un passaggio a livello, siamo
andati avanti al corteo degli studenti e abbiamo visto venire incontro
gli operai con le loro bandiere.
«Ci siamo guardati e avevamo tutti e due gli occhi rossi, ci siamo detti «è bello vero?»
Alberto Bonfietti visse quegli anni da protagonista.
Lo fu prima a Trento, e successivamente in Lotta Continua per una decina d’anni, dalla nascita del movimento fino alla sua chiusura.
Tuttavia,
Bonfietti fu un protagonista con uno speciale segno distintivo rispetto
ad altri: quello di dirigente positivo e concreto, fine ed elegante nei
modi, disilluso forse, ma comunque sempre molto preparato e apprezzato.
È per questo che ripercorrendo le numerose pagine che gli dedicò all’indomani della morte il «suo» giornale Lotta Continua
(del quale furono direttori, fra gli altri, Marco Pannella, Pier Paolo
Pasolini, Giampiero Mughini, Alexander Langer), oggi possiamo raccontare
e comprendere chi fu realmente Bonfietti.
Nel corso di una manifestazione a Trento si vede Alberto Bonfietti, a sinistra, con il megafono.
Così lo ricordò Adriano Sofri, il 29 giugno 1980, in un lungo editoriale.
«Alberto
Bonfietti in Lotta Continua ha avuto una parte determinante. Lui era
tra le persone più ricche di ironia ma anche di serietà ch’io abbia
incontrato e amato. Aveva una solida formazione politico-sociologica, si
era addestrato sui classici, si impegnava sempre a dare alle idee che sosteneva una forma organica e coerente.
«E quando le riunioni finivano, Alberto era fra quelli di cui più si desiderava la compagnia e l’amicizia.
«Nel
’77 lo incontrai ancora [l’anno prima il movimento si era sciolto –
NdR], in un periodo in cui per noi la rivoluzione cessava di essere un
desiderio e non era ancora diventata un rimorso.
«Un tempo in cui si
stava zitti e si aspettava: chi con più distacco, chi con più
attenzione e speranza, Alberto fra questi e forse con più delusione.»
Di
giorni più recenti è invece è la testimonianza che il prof. Vincenzo
Calì, già Direttore del Museo Trentino del Risorgimento, ci ha
consegnato.
«Alberto Bonfietti era una persona mite, aperta al
dialogo e attenta a comprendere le ragioni dell'altro. Dal 1968 e fino
alla fine dell'autunno caldo vivemmo in stretto contatto all'interno del
movimento studentesco.
«Ci perdemmo di vista nel 1970, quando io
partii per il militare e lui continuò il suo impegno all'interno del
Collettivo veneto e del Comitato Nazionale di Lotta Continua.
«Si
rifece vivo a Trento a fine anni Settanta, intenzionato a terminare gli
studi interrotti e mi chiese di seguirlo nel percorso di ricerca per la
tesi di laurea.
«Non aveva perso l'ironia e quel suo atteggiamento più da gentiluomo liberale che da contestatore.
«Scherzando,
mi diceva che finita l'ubriacatura contestativa, il lavoro che si era
cercato, quello di portiere di notte all’Hotel di Piazzale Roma a
Venezia, gli lasciava ora molto tempo libero.
«Gli incontri per la
tesi si fecero frequenti, fino a quel terribile 27 giugno in cui ci
raggiunse la notizia della strage. Pochi giorni prima mi aveva
annunciato un viaggio a Palermo per andare a trovare la figlia Silvia,
di 7 anni.»
Quel
lontano 1980 sarà un anno nerissimo, difficile da dimenticare per il
nostro Paese. Infatti, a distanza di poco più di un mese dalla tragedia
di Ustica, una bomba esploderà nella stazione di Bologna il 2 agosto e
stavolta le vittime saranno 85.
A novembre un terribile terremoto
devasterà l’Irpinia: la violenza del sisma e la pessima gestione dei
soccorsi causeranno alla fine più di duemila morti.
Di certo il 1980 non lo dimenticò mai Roberto Superchi che perse nel mare di Ustica la figlia Giuliana di 11 anni.
Un
destino, il suo, simile e contrario a quello di Alberto Bonfietti: in
quel caso era un padre che andava a Palermo per incontrare la figlia. In
questo, era la figlia che andava dal padre.
La piccola
Giuliana si imbarcò il 27 giugno all’aeroporto di Bologna. Come tutti i
bambini affidati alle hostess, portava al collo un contrassegno di
riconoscimento.
Alle 20.08, con due lunghissime ore di ritardo, il DC9 Itavia decollò con destinazione l’aeroporto di Punta Raisi, a Palermo.
Il
volo per la Sicilia non era nuovo per Giuliana. L’ultimo era stato a
Pasqua. Questa volta, però, era molto diverso. Stavolta Giuliana non
avrebbe passato qualche settimana con il suo papà - come prassi dei
figli di genitori separati - ma sarebbe andata a vivere definitivamente
con lui.
Giuliana
sorridente, prima di salire sulla scaletta dell’aereo salutò da lontano
i nonni. Né loro, né il papà Roberto l’avrebbero più rivista.
Poco
prima delle 21, infatti, la traccia del DC 9 scomparve dai radar. La
mattina dopo tutti i giornali riportavano in prima pagina la notizia
della tragedia, mentre nel giro di qualche ora cominciarono ad essere
individuati i resti dell’aereo e i primi cadaveri che galleggiavano
sull’acqua.
Passarono i giorni e iniziarono ad apparire dubbi
inquietanti sulle cause, alimentati ulteriormente dal silenzio delle
autorità.
Le ipotesi sulle quali si appuntarono sin da subito le
indagini furono essenzialmente due: un missile lanciato da un aereo
militare, oppure una bomba a bordo.
Nessuno, però, riuscì in quei
giorni a venire a capo del mistero perché sia presso le istituzioni
italiane che all’estero, si innescò un’abietta azione di occultamento
delle prove e di inquinamento delle indagini, tipica peraltro di tutte
le più orrende stragi del Paese.
Così, passarono le settimane e i mesi. Passarono poi anche gli anni, ma le risposte tanto attese non arrivarono mai.
L’unica
cosa conosciuta erano solo i freddi dati statistici del disastro: 81 le
vittime, di cui 13 bambini. Solo 38 le salme recuperate.
Nel 1999 il
giudice Rosario Priore - concludendo la più lunga istruttoria della
storia giudiziaria del nostro paese - affermò: «L'incidente al Dc9 è
occorso a seguito di azione militare di intercettamento. Il Dc9 è stato
abbattuto».
Ma il nome di chi avesse eseguito l’abbattimento non c’era ancora e non ci sarebbe mai stato.
Nel
frattempo era stata fondata l'Associazione dei parenti della vittime
con a capo Daria Bonfietti, sorella di Alberto, e in quegli stessi anni
anche Roberto Superchi, papà di Giuliana, stava combattendo come un
leone per la verità.
Nei primi anni Novanta, Superchi aveva lasciato
i villaggi turistici siciliani, dove lavorava come animatore, per
venire a fare l’albergatore a Folgaria.
Chi scrive lo conobbe proprio in quel periodo e lo intervistò più volte per conto del giornale Alto Adige.
Rabbia
e strazio erano gli stessi di dieci anni prima, così come la
determinazione per cercare di scoprire la verità. Aveva lanciato nel
1992 un’iniziativa con l’idea di sostenere le spese legali dei parenti
delle vittime. La chiamò «50 lire per la verità».
Con essa raccolse
75 milioni di lire che poi, però, donò in beneficienza alla Lega del
Filo d’Oro. Ma con quella raccolta, movimentò le coscienze, rianimò
l’indignazione degli italiani, chiamò l’opinione pubblica a sostenere le
indagini e i processi.
Non mollò mai, neppure in tempi più recenti, dopo aver lasciato il Trentino e fatto ritorno in Sicilia.
Lo
dimostrò qualche anno fa denunciando per l’ennesima volta dal palco del
«Maurizio Costanzo Show» il vergognoso silenzio della politica.
L’ultima sua iniziativa è del gennaio 2016: una lettera al Premier Matteo Renzi.
Scrive
Superchi: «Egregio Presidente, faccia il possibile e anche
l’impossibile per ottenere dai nostri alleati la verità su chi ha tolto
la vita a mia figlia quella sera. Lei è giovane, ma già da qualche anno
ha la fortuna di essere padre.
«Anche io - prosegue Superchi - avevo
questa gioia, quella che si prova quando si è padre di una bimba
stupenda. La mia, Giuliana, aveva 11 anni, e quando l’ho persa stava
venendo da me, a Palermo.»
Oggi, a 45 anni di distanza, per
Giuliana, come per Alberto, non ci sono fiori da portare su di una
tomba: i loro corpi si sono uniti al mare in quel tragico volo.
Di
essi rimane solo il vivo ricordo personale in chi li conobbe e una
memoria collettiva purtroppo sempre più sbiadita e dimenticata.
Oggi, per le giovani generazioni Ustica è solo un luogo di vacanza, solo un’isola nel mare di Sicilia.
Ustica,
così lontana e così bella, attraverso quei lutti in un certo senso era
passata anche in Trentino, ma in quegli anni pochi di noi se n’erano
accorti.
Maurizio Panizza - ©Cronista della Storia - [email protected]
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